prima pagina

  1. Storie e leggende della romanità ai rioni Ponte, Parione e Regola

    Ogni rione di Roma è una stratificazione di stili architettonici di epoche diverse, e di storie di personaggi leggendari. Storie e personaggi che non attendono altro che farsi raccontare. E questo accade in modo particolare nei bellissimi rioni Ponte, Parione e Regola.

    Ponte Sant’Angelo – Piranesi.

    Tra ponte Sant’Angelo, i Banchi vecchi e nuovi, piazza dell’Orologio, via dell’Anima, Piazza Navona, Campo de’ Fiori. Qui, secolo dopo secolo, è stato tutto un gran via vai di mercanti, cambiavalute, patrizi e plebei, nobildonne e cortigiane.
    Intanto, Ponte – il V rione – il cui nome deriva da ponte Sant’Angelo, raffigurato sullo stemma istituito nel XVI secolo. Nell’antica Roma il rione era incluso nella IX regione augustea e considerato parte del Campo Marzio.
    L’attuale ponte sant’Angelo riprende l’antico ponte Elio, fatto costruire dall’imperatore Adriano per collegare il suo mausoleo al resto della città. Un altro ponte fu fatto costruire da Nerone e fu detto trionfale perché per di lì passava la via Trionfale, poi detta Sacra, che veniva fatta percorrere dagli eserciti reduci dalle battaglie. Tale ponte fu poi detto Pons Vaticanus, perché connetteva la zona del Vaticano al resto della città e successivamente Pons Ruptus, ovvero Ponte Rotto, perché già diroccato in tempi medievali. Nell’antica Roma in questa zona c’era un porto che veniva utilizzato per portare i materiali necessari alla costruzione delle grandi opere nel Campo Marzio. La vita nel rione è continuata ininterrottamente anche durante il Medioevo e nel periodo moderno. Contribuì a ciò anche il fatto che molte persone si stavano trasferendo dalle zone in collina, dove mancava l’acqua,

    La mappa da Pirro Ligorio (1561) in cui si vedono sia il Ponte Adriano che il Ponte Vaticano.

    verso la riva del Tevere, dove si sopravviveva bevendo l’acqua del fiume. Inoltre il rione si trovava all’estremità del ponte sant’Angelo, e qui confluivano tutte le strade maggiori che portavano a San Pietro, quindi c’era anche un continuo afflusso di pellegrini, che arricchiva l’economia della zona: c’erano locande, osterie, commercio di oggetti sacri, ecc.
    Fino al tempo di papa Sisto V, il rione comprendeva anche una porzione al di là del Tevere, che poi fu separata per creare il rione Borgo. Durante il XVI secolo Ponte aveva grande importanza soprattutto per la sua rete viaria, e per questo furono costruiti grandi palazzi di famiglie sia aristocratiche che mercantili seguendo progetti di grandi artisti. Ciò contribuì ad abbellire moltissimo il rione che ben presto divenne celebre. Uno spettacolo piuttosto frequente era un piccolo corteo guidato da una persona velata vestita di nero che portava un crocifisso in spalla. Su di un carro c’era un condannato incatenato che baciava in continuazione un’altra immagine di Gesù.  La meta del corteo era l’attuale piazza di Ponte sant’Angelo in cui era sistemata una forca per impiccare il condannato. Nonostante Ponte fosse una zona ricca e rigogliosa, era anche quella più colpita dalle frequenti alluvioni del Tevere.
    Da un ponte ad un cavallo alato: è questo il simbolo di Parione, il VI rione di Roma. Sull’origine del nome non c’è uniformità: pare derivi da paries, parete, muro. Era quanto restava in passato di un rudere ormai scomparso,

    La giostra del saracino in Piazza Navona il 25 febbraio del 1634 – G.B. Tomassini.

    i resti del palazzo del prefetto Cromaziano: un edificio altissimo, adorno di mosaici, oro e cristalli. È un po’ piano nobile della città, con Campo de’ Fiori come anticamera e Piazza Navona salone delle feste. Pasquino, dal canto suo, è il soprammobile inquietante, l’erma della lingua immobile ma capace di schernire papi e aristocratici per secoli. Del resto, la vera vocazione del rione è da lungo tempo legata alla cronaca, alla maldicenza e alla stampa. È qui infatti che nascono in pieno Rinascimento le prime tipografie romane, come quella dei tedeschi Sweynheim e Pannartz o quella di Blado a Campo de’ Fiori, fucina di tecnici specializzati, dalle cui officine uscì la prima pianta prospettica di Roma, tutte nei pressi di Pasquino, come pure le prime librerie “incisorie” e “cartarie”. È Piazza Navona, però, il grande teatro all’aperto di Parione, con spettacoli che hanno fatto la storia di Roma: corse di cavalli e soprattutto “naumachie”, giochi navali di antica origine. Là c’era lo stadio di Domiziano. La piazza che veniva allagata nelle notti d’agosto diventava una sorta di carnevale estivo che vedeva giocare insieme popolo e nobiltà, tra carrozze arrancanti nell’estemporaneo lago e tuffi di ragazzini che raccattavano monete gettate nella fontana. Appariva in quelle notti sui tetti di piazza Navona, secondo la credenza popolare, il fantasma di Olimpia Maidalchini Pamphilj, la cognata di papa Innocenzo X. Un’avida arrampicatrice sociale che prosciugò gli averi della. Per i romani era “Pimpaccia” e Pasquino la bollò: «chi disse donna disse danno. Chi disse femmina disse malanno. Chi disse Olimpia Maidalchini disse femmina, danno e rovina».

    Donna Olimpia – Alessandro Algardi – 1646/1647.

    Da una corruzione fonetica del latino renula – sabbia sottile – deriva il nome del VII rione: il rione Regola, da cui anche Arenula, che è il nome di una via e di un largo. Un tempo infatti il rione era soggetto alle piene del Tevere, lungo la cui riva orientale si estende in lunghezza; quando l’acqua si ritirava lasciava le strade coperte di sabbia. Nel Medioevo il rione era chiamato Regio Arenule et Chacabariorum, che faceva riferimento ai chacabariis, ovvero i calderai che realizzavano pentole e simili utensili da cucina. Un rione famoso per i suoi artigiani e in particolare i conciatori e gli artigiani del cuoio, che usavano soprattutto pelli di cervo per confezionare abiti. Da cui la scelta dello stemma: un cervo, appunto. Alcuni toponimi del rione sono rimasti legati alle antiche attività commerciali che qui si svolgevano: pettinari, balestrari, catinari, coronari, ecc. Nell’antica Roma l’area di Regola faceva parte del Campo Marzio ed era una porzione della Regio IX, Circo Flaminio. Il cuore di questo rione, dalla forma lunga e stretta, è piazza Farnese, chiamata piazza del Duca fino alla prima metà del Cinquecento, ornata da due fontane gemelle ricavate da antiche vasche delle Terme di Caracalla e chiusa sul lato a Sud – Ovest dal maestoso Palazzo Farnese.
    Nel corso della passeggiata, il racconto di personaggi, realmente vissuti o leggendari, tutti traboccanti di romanità: dall’eccentrico Conte Tacchia, a Pasquino. Da Pimpaccia, la terribile donna-virago al dramma della bellissima Costanza de’ Cupis. Fino all’episodio del papa morto in uno sgabuzzino al rogo di Giordano Bruno a Campo de Fiori, il filosofo dei tanti universi.

    Roma, 22 giugno 2019

  2. Articolo

    Stanley Kubrick – L’Odissea di un grande visionario – 3/4

    di Paolo Ricciardi

    In occasione dei venti anni dalla morte del grande regista Stanley Kubrick pubblichiamo, in quattro puntate, con vero piacere un testo di Paolo Ricciardi che attraversa e analizza, sebbene brevemente, tutta l’opera, ma forse sarebbe più corretto dire l’epopea, di Kubrick.
    Qui si può leggere la prima parte del testo.
    Qui la seconda.

    Barry Lyndon è un film che assume un ruolo particolarmente importante nella filmografia di Kubrick perché costituisce il momento di maggiore libertà e distanza dai temi sociali, filosofici e politici che a Kubrick sono sempre stati attribuiti: violenza, politica, sesso.

    Barry Lyndon – Stanley Kubrick – 1975.

    E’ un film fortemente visivo, talmente ricco di immagini e riferimenti estetici (dovute alle vastissime ricerche condotte dall’autore) da farne la più ampia e rigorosa rappresentazione del Settecento che il cinema abbia mai prodotto.
    La storia viene continuamente ridotta a quadro, a immagine da mostrare, da guardare: una grande tessitura visiva iniziata in esterni, nella profondità di campi lunghissimi e nella fredda luce del nord, dove le figure si stagliano nette sugli orizzonti sconfinati, e chiusa nel fondo nero di una carrozza.
    La vita del protagonista è un percorso non solo narrativo ma soprattutto iconico e raffigurativo. Predomina una visione frontale dello spazio, una prospettiva sicura che conduce a uno spazio scenico geometrico. In un certo senso si tratta di inquadrature che corrispondono alla visione rinascimentale, che danno quindi un realismo elaborato e costruito simbolicamente, secondo calcoli proporzionali.

    continua…

  3. La Casina di Bessarione, un cardinale tra Oriente e Occidente

    Casina del Cardinal Bessarione – Disegno dal Progetto di Restauro del Pernier – 1929.

    La villa sta poco discosta dalla chiesa di San Cesareo, lungo il tratto urbano dell’Appia Antica – tratto che oggi prende il nome di via di Porta San Sebastiano –. È conosciuta come la Casina del cardinale Bessarione.
    Intanto, chi era costui? Teologo e umanista, nacque a Trebisonda nel 1403. Morì a Ravenna nel 1472. Monaco basiliano, fu al servizio di Giovanni VIII di Costantinopoli e di Teodoro II Porfirogenito. Arcivescovo di Nicea, partecipò al concilio di Ferrara – Firenze per l’unione della Chiesa greca con quella latina, in qualità di oratore principale dei Greci; nell’esito felice, anche se non duraturo del concilio, ebbe gran parte. Creato da Eugenio IV cardinale dei Santi Apostoli – basilica che ospita la sua straordinaria cappella funebre – nel 1439, fu chiamato in Curia dal papa e nel 1449 trasferito alla sede vescovile di Sabina e poco dopo a quella di Tuscolo. Legato pontificio a Bologna, fu candidato all’elezione papale nel conclave del 1455. Nel 1463 divenne vescovo di Negroponte e poi patriarca di Costantinopoli. Contribuì alla diffusione in Italia del greco e specialmente della filosofia platonica. Tradusse in latino la “Metafisica” di Platone.
    Era, dunque, un sublime uomo di cultura.

    Cardinal Bessarione – Ritratto – Monumento funebre in Santi Apostoli Roma.

    Così scrisse in una lettera: “Non c’è oggetto più prezioso, non c’è tesoro più utile e bello di un libro. I libri sono pieni delle voci dei sapienti, vivono, dialogano, conversano con noi, ci informano, ci educano, ci consolano, ci dimostrano che le cose del passato più remoto sono in realtà presenti, ce le mettono sotto gli occhi. Senza i libri saremmo tutti dei bruti.”
    Da uno saggio di Fabio Prosperi, raffinatissimo studioso dell’Età Medievale, prendiamo le mosse per descriverne i tratti: «Forse è proprio questo incredibile stralcio di lettera la chiave per entrare in sintonia con le corde dell’animo di Bessarione. L’immagine delle casse dei suoi libri, donati a Venezia, che vengono trasportate a bordo di barche che scivolano sulla laguna verso la città del leone di San Marco, evoca l’arca che pone in salvo questo inestimabile retaggio che passa di mano dall’Oriente bizantino all’Occidente umanista. Proprio quei libri, scampati al diluvio ottomano, andranno a costituire il fondo primo della Biblioteca Marciana».
    Bessarione non fu solo questo, non fu solo uomo di lettere. Lo vediamo impegnato a fianco di Giovanni Paleologo al concilio di Ferrara nel tentativo di ricucire lo Scisma di Michele Cerulario, tentativo nel quale si prodigò come teologo nel dibattere la questione del Filioque e come oratore sapiente nonostante la giovane età: a trent’anni fu lui a pronunciare il discorso di apertura. Cardinale di Santa Romana Chiesa, alto prelato del clero orientale passò al cattolicesimo occidentale probabilmente deluso

    Affresco – Casina del Cardinal Bessarione – Roma.

    dalla insensata resistenza del clero orientale che ancora una volta vanificò tanto lavoro di ricucitura tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, mantenne comunque l’abito di monaco basiliano ed ebbe la sua accademia proprio in Santi Apostoli, al tempo di Pomponio Leto e di Nicolò da Cusa.
    E ora la casina romana a lui attribuita: pur compresa dalle Mura Aureliane, ha tutte le caratteristiche di una villa rustica del Rinascimento. E il giardino ne è la dimostrazione: con l’ausilio di siepi di bosso o di erbette odorifere nel Rinascimento si realizzarono così dei giardini le cui aiuole, disegnate in precise forme simboliche, facevano da contorno al passeggiare e al meditare sereno del padrone di casa. In tal modo il legame con il passato era reale e ideale allo stesso tempo, perché da un lato si recuperava l’arte, cioè il dare forma architettonica alla natura, e dall’altro si ricreavano a livello intellettuale gli antichi otia letterari.
    Sul retro della casina, ci si ritrova nella zona riservata, vero hortus conclusus medievale, che ricorda le fasi anteriori dell’edificio. Durante il Medioevo la zona dove sorge la casina era caduta in rovina e le aree ai lati dei tratti urbani delle vie Appia e Latina erano divenute sede di vigne e di orti spettanti a chiese vicine, mentre la via di era trasformata in una miniera di marmi antichi.

    Casina del Cardinal Bessarione – Affresco.

    Nella parte medievale dell’edificio si riconosce l’ospedale annesso alla chiesa di San Cesareo. Dopo il 1439 la casina divenne sede episcopale estiva. Il suo legame col cardinale Bessarione sarebbe provato da alcuni documenti che attestano la proprietà da parte del cardinale di una vigna situata tra i possedimenti della chiesa di San Sisto Vecchio e la chiesa di San Cesareo. Ma nulla di più, dal momento che nei fregi che decorano le stanze compare sempre lo stemma del cardinale Battista Zeno, vescovo di Tusculum dopo il Bessarione.
    Ad ogni modo la casina mostra in anticipo alcune caratteristiche proprie delle ville rinascimentali, ovvero la tendenza a trasformare vecchie dimore suburbane in ville rustiche e a condurre un sapiente intervento architettonico che vada a fondersi con lo spazio naturale circostante; quindi può essere definita come un prototipo di residenza extraurbana all’interno del recinto difensivo romano.
    Nella fase post-rinascimentale la storia della casina è a tratti nebulosa. In una pianta del 1551 la zona corrispondente alla Villa è segnalata come vinea del Cardinale Marcello Crescenzi, il cui stemma di famiglia è in effetti affrescato nella loggia della casina. Nel 1600 Clemente VIII concesse i due edifici contigui, casa e chiesa, al Collegio Clementino, da lui fondato nel 1594 e affidato ai Padri Somaschi, e la villa divenne luogo di incontri conviviali legati all’attività del Collegio. Soppresso il Collegio Clementino nel 1870, la casina fu affidata al Convitto Nazionale.

    Casina del Cardinal Bessarione – 1949. Si ringrazia Roma Sparita

    Ben presto tuttavia la villa cadde in abbandono e sul finire del secolo venne trasformata in osteria di campagna tramite una serie di interventi che la modificarono radicalmente: vennero chiusi gli archi della loggia; i soffitti e le pareti affrescate furono imbiancate; le sale, suddivise in più vani con dei tramezzi, vennero utilizzate come camere da letto o come depositi di attrezzi e prodotti agricoli.
    Solo negli anni del Governatorato la casina tornò alla sua antica dignità. Espropriata nel 1926, essa venne fatta oggetto di ingenti restauri affidati all’Ufficio Antichità e Belle Arti.
    Tornando al cardinale Bessarione, ci possiamo porre la domanda del perché abbia scelto di risiedere proprio in questa zona.
    Pensiamo un attimo al fatto che la casina è posta non su una strada qualsiasi, bensì lungo l’Appia, la regina viarum, la strada che in antico condusse i Romani alla conquista non solo dell’Italia meridionale: il porto di Brindisi, ove l’Appia concludeva il suo lungo percorso, era la testa di ponte verso il Vicino Oriente. Ebbene, piace credere che nella casina egli vide non soltanto un luogo salubre e ameno, ma anche una parte di Roma in qualche modo più vicina alla Grecia; un legame ideale con la patria che non poté più rivedere.

    Roma, 18 giugno 2019

  4. Roma arcaica e repubblicana: l’area sacra di Sant’Omobono

    In prossimità della piccola chiesa di Sant’Omobono, lungo il tratto più occidentale del vicus Iugarius, ai piedi del Campidoglio, è situata un’area archeologica ormai celebre, scoperta nel 1937.

    Ricostruzione delle varie fasi della così detta Area Sacra di Sant’Omobono.

    L’esplorazione, ancora ben lontana dall’essere terminata, ha già restituito documenti di eccezionale importanza per la storia di Roma arcaica e repubblicana.
    Si tratta di un’area sacra che include due piccoli templi che, fin dal momento della scoperta, sono stati giustamente identificati con quelli della Fortuna e Mater Matura, la fondazione dei quali è attribuita dalla tradizione antica a Servio Tullio. Gli scavi in profondità hanno permesso di ricostruire la storia del monumento e le sue diverse fasi – ben sette – che vanno dal XIV secolo avanti Cristo a un’ultima pavimentazione in travertino di età imperiale, forse domizianea, ma con rifacimenti adrianei. Restano tracce, al centro dell’area, di un doppio quadriportico quadrifronte, nel quale con tutta probabilità si deve identificare la Porta Triumphalis, attraverso cui i cortei dei trionfatori entravano in città dando inizio alla cerimonia spettacolare del trionfo riservata a un generale e alle sue truppe al rientro in patria.

    La Porta Triumphalis sull’arco di Costantino. Sullo sfondo si vede anche il Tempio della Fortuna.

    La Porta Triumphalis, infatti, secondo le pochissime fonti a disposizione, non si apriva né nelle mura serviane né in quelle aureliane, ma nel breve tratto di mura tra la Porta Carmentalis e la Porta Flumentana, e quindi in una zona compresa tra il Campidoglio e il Tevere.
    Il collegamento tra le diverse fasi archeologiche, che gli scavi nell’area di Sant’Omobono hanno restituito, e quelle testimoniate per i due templi dalle fonti letterarie sembra sufficientemente chiaro. L’area testimonia anche la presenza degli Etruschi in Roma già prima della costruzione dei templi arcaici, poiché qui è stato ritrovato un piccolo ex voto in avorio con l’iscrizione estrusca “araz silqetenas spurianas” che fa riferimento alla famiglia degli Spurinna, originaria di Tarquinia. Questa è, quindi, un’attestazione importante della presenza in Roma di gentes tarquiniesi ed è considerata un’indiretta conferma della dinastia dei Tarquini, che avrebbe avuto la stessa origine. La creazione dei templi può essere datata intorno alla metà del VI secolo avanti Cristo, in accordo con la tradizione che attribuiva questi edifici a Servio Tullio, che regnò a partire dal 579 fino al 537 avanti Cristo.
    L’abbondante ceramica greca di importazione, attica, laconica, ionica, scoperta in connessione con i templi, conferma la loro cronologia e l’epoca della loro distruzione volontaria: poco prima della fine del VI secolo avanti Cristo. Anche in questo caso, la concordanza con la data della Repubblica è impressionante: i templi dinastici dei re etruschi di Roma sembrano

    Gruppo Acroteriale di Eracle e Atena dall’Area Sacra di Sant’Omobono.

    distrutti in coincidenza con il violento cambiamento istituzionale. Le terrecotte architettoniche del tempio orientale comprendono parti decorative, un fregio con divinità su carri e statue di terracotta a due terzi del vero, Ercole, una divinità femminile armata. Esse sono databili intorno al 530 avanti Cristo e oggi questi reperti sono conservati ed esposti nei Musei Capitolini.
    La ricostruzione dei templi sarebbe dovuta a Furio Camillo, subito dopo la presa di Veio, 396 avanti Cristo. La fase successiva è data da frammenti di un’iscrizione su blocchi di peperino, scoperta al centro dell’area «M. Fulvio, figlio di Quinto, console, dedicò in seguito alla presa di Volsinii». Si tratta dunque del console Marco Fulvio Flacco che conquistò nel 264 avanti Cristo Volsinii, da cui portò via 2000 statue di bronzo, probabilmente depredando il vicino santuario federale etrusco di Fanum Voltumnae. È interessante notare che tutti i ricostruttori del santuario di Fortuna e Mater Matuta erano in rapporto con gli Etruschi e dedicarono un santuario sull’Aventino: Servio Tullio il Tempio di Diana, Furio Camillo il tempio di Giunone Regina, Fulvio Flacco quello di Vertumnus. Tra l’altro, si tratta di divinità «evocate», cioè sottratte ai rispettivi luoghi d’origine. Il livello successivo corrisponde certamente alla ricostruzione del 212 avanti Cristo, ricordata da Livio, successiva all’incendio del medesimo anno che distrusse il Foro Boario.

    Acroteri dei templi dell’Area Sacra di Sant’ Omobono.

    Sul lato opposto del Vico Iugario, si nota un portichetto tardo-repubblicano, costituito da due serie parallele di arcate in peperino con semi colonne tuscaniche, prolungato verso Nord da una simile struttura in travertino. Questo portico, che doveva avere inizio all’altezza del Portico di Ottavia, si dirigeva verso la Porta Carmentalis, tracce della quale sono state viste al centro della strada moderna. Il portico doveva, probabilmente, continuare fino ai templi di Apollo e di Bellona, tanto che un tratto di esso è ancora oggi visibile lungo i lati destro e posteriore al Tempio di Bellona. Il suo percorso ne rende probabile l’identificazione con la Porticus Triumphalis, collocato lungo il percorso dei cortei, tra il Circo Flaminio e la Porta Triumphalis.

    Roma, 16 giugno 2019