prima pagina

  1. Racconto

    Palazzi di fiaba nella realtà

    Hans Christian Andersen

    Il brano che presentiamo è tratto da Il bazar di un poeta, pubblicato da Hans Christian Andersen nel 1842. Il bazar di un poeta raccoglie le

    Hans Christian Andersen – foto da Tora Hallager – 1869.

    impressioni e gli appunti di viaggio che lo scrittore di fiabe svolse per 9 mesi tra Germania, Italia, Grecia e Oriente, tra il 1833 e il 1834. L’opera è divisa in 6 capitoli e di questi uno è interamente dedicato all’Italia. Vi si trovano, descrizioni, appunti e schizzi su Roma, Napoli, Bologna, la Sicilia e anche descrizioni dell’attraversamento degli Appennini.

    “Le antiche divinità vivono ancora!” – si, in una fiaba possiamo anche dirlo, ma nella realtà? Eppure la realtà è spesso una fiaba.
    Il fanciullo che legge Le mille e una notte, vede nella sua immaginazione meravigliosi palazzi fatati che lo rendono felice, ma capita sempre qualcuno più vecchio di lui che gli dice: “simili cose non si trovano nella realtà” e invece si, qui a Roma si trovano e come! Per la loro grandiosità e magnificenza, il Vaticano e la basilica di San Pietro appaiono come visioni davvero irreali, simili ai castelli eretti dalla fantasia nell’antico libro d’oriente. Siamo andati a vederli per verificare di persona se le antiche divinità vivono ancora.
    Ci troviamo sulla piazza di san Pietro; a destra e a sinistra abbiamo tre serie di colonne, la chiesa che ci sta davanti è sotto ogni riguardo talmente grandiosa che a noi manca un metro adeguato per misurarla.

    Piazza San Pietro – Roma

    Essa armonizza così perfettamente con la piazza e col possente Palazzo del Vaticano alla sua destra, che non possiamo fare altro che affermare: si, è veramente un grande edificio di tre piani! Ma poi osserviamo la folla che avanza come la marea su per la gradinata – larga, questa, come l’intera base dell’edificio – ed ecco che, non appena l’occhio ha colto le proporzioni delle finestre e delle porte, tutti quegli esseri umani ci appaiono, al confronto, come dei puntini, come dei pupazzetti. Ecco, ora ne costatiamo la grandiosità, ma non possiamo ancora afferrarla pienamente.

    continua…

  2. Claudio Imperatore. Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia.

    Claudio in nudità eroica – Museo del Louvre.

    Il racconto della vita e delle opere di Claudio, reso attraverso un allestimento originale fatto di immagini e suggestioni visive e sonore, costituisce la caratteristica saliente del percorso espositivo. La mostra guiderà i visitatori alla scoperta della vita e il regno del discusso imperatore romano, dalla nascita a Lione nel 10 avanti Cristo fino alla morte a Roma nel 54 dopo Cristo, mettendone in luce la personalità, l’operato politico e amministrativo, il legame con la figura di Augusto e con il celebre fratello Germanico, il tragico rapporto con le mogli Messalina e Agrippina, sullo sfondo della corte imperiale romana e delle controverse vicende della dinastia giulio-claudia.
    L’esistenza di Claudio è segnata da un destino singolare, che lo pone di fronte ad avvenimenti eccezionali, fatti di sangue, intrighi di corte, scelte politiche ardite. Primo imperatore a nascere fuori dal territorio italico, a Lugdunum, odierna Lione, era un candidato improbabile al comando dell’impero. Augusto, che dubitava delle sue attitudini politiche, gli avrebbe preferito di gran lunga il fratello Germanico, che tuttavia morì prematuramente in circostanze sospette. Come successore, il popolo e l’esercito avevano poi scelto Caligola, che di Germanico era il figlio, erede della fama del padre. Ma l’assassinio di Caligola, accoltellato nel suo stesso palazzo, metteva necessariamente Claudio al centro della crisi politica successiva. Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico diventava così, alla notevole età di cinquant’anni, il primo imperatore acclamato, dopo una lunga trattativa politico-economica, da un corpo militare, i pretoriani.

    Rilievo con pretoriani – Museo del Louvre.

    Anche i rapporti di Claudio con le sue quattro mogli sono segnati da congiure e vicende tragiche. La sua terza moglie, Messalina, più giovane di Claudio di 35 anni, rimane nota per i suoi molti vizi, veri o presunti, sebbene fosse la madre di Britannico, il primo erede maschio della dinastia giulio-claudia nato a un imperatore regnante. Uccisa Messalina, con il consenso di Claudio, anche il destino di Britannico fu segnato: non conseguì mai il potere, vittima adolescente del fratellastro Nerone.
    L’ultimo matrimonio di Claudio, quello con sua nipote Agrippina, gli sarà fatale. Agrippina, figlia di Germanico e sorella di Caligola, viene considerata l’artefice della sua morte, forse per avvelenamento. Alla morte di Claudio seguì la sua divinizzazione, la realizzazione di un tempio a lui dedicato sul Celio e la successione nell’impero del figlio di Agrippina, Nerone. Il percorso espositivo al Museo dell’Ara Pacis, supportato dal lavoro aggiornato di storici e archeologi, traccia un’immagine di Claudio un po’ diversa da quella cupa e poco lusinghiera trasmessa dagli autori antichi. Ne emerge la figura rivisitata di un imperatore capace di prendersi cura del suo popolo, di promuovere utili riforme economiche e grandi lavori pubblici, contribuendo con la sua legislazione allo sviluppo amministrativo dell’Impero.

    Agrippina Minore – Ritratto in bronzo.

    In mostra alcune opere di straordinario interesse storico e archeologico: dalla Tabula Claudiana, su cui è impresso il famoso discorso tenuto da Claudio in Senato nel 48 dopo Cristo sull’apertura ai notabili galli del consesso senatorio, al prezioso cameo con ritratto di Claudio Imperatore proveniente dal Kunsthistorisches Museum, fino al piccolo ma suggestivo ritratto in bronzo dorato di Agrippina Minore, proveniente da Alba Fucens e concesso in prestito dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo, che testimonia l’interesse di Claudio per il territorio dell’allora Regio IV, dove realizzò l’impresa del Fucino. Una delle novità della mostra è l’esposizione, per la prima volta, del ritratto di Germanico della Fondazione Sorgente Group, opera importante che celebra il giovane e amato principe colpito da un destino avverso.
    (dal comunicato stampa della mostra)

    Roma, 24 aprile 2019.

  3. Santa Maria in Cosmedin, la Schola graeca e i cattolici greci di rito bizantino

    La Bocca della Verità – Santa Maria in Cosmedin.

    Un’antica e grossolana scultura – probabilmente un chiusino che convogliava le acque piovane alla cloaca – è assurto, col favore della fantasia popolare, a toponimo di un ambiente che ha ben altri titoli di gloria da vantare. Vale a dire il centro della zona mercantile dell’antica Roma fra il porto fluviale dei tempi più lontani e l’Emporio della fine della Repubblica e dei primi tempi dell’Impero.
    Qui si ergono templi importanti e pubblici uffici: il luogo che fu del Foro Olitorio, mercato delle verdure, e il Foro Boario, mercato del bestiame. Banchieri e cambiavalute svolgevano la loro attività nel Velabro, dove ancora si può ammirare l’Arco degli Argentari.
    Caduto l’impero ed entrata l’Urbe nella fase di influenza bizantina, fu questo il centro della colonia greca, con una fiorente cultura che si manifestò soprattutto nelle arti decorative: la cosiddetta Schola Graeca. Non solo: fiorirono una serie di diaconie, veri e propri centri di assistenza ai poveri, sorte sull’esempio di quelle della Chiesa in oriente. Col passare del tempo, accanto o al di sopra delle diaconie, furono innalzate chiese intitolate a santi orientali: San Teodoro, San Giorgio al Velabro, San Nicola in Carcere, Sant’Anastasia, e Santa Maria in Cosmedin, basilica importantissima, conosciuta purtroppo per la cosiddetta Bocca della Verità, vale a dire il chiusino di cui sopra. Migliaia di turisti ogni giorno si sottopongono a file chilometriche per scattare foto davanti alla

    Navata – Santa Maria in Cosmedin.

    minacciosa Bocca che si trova nel portico. Quasi nessuno entra nella bellissima chiesa officiata ancora oggi col rito cattolico greco-melchita a testimonianza delle antiche origini orientali dell’area.
    Chi sono i Melkiti? Il termine deriva dal siriaco malka, ovvero re, sovrano. Con questo termine si intende definire il complesso dei cristiani dei patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, i quali accettarono il concilio di Calcedonia e, di conseguenza, le direttive ufficiali della corte di Costantinopoli. I Melkiti seppero sempre garantire la sopravvivenza di Chiese proprie, seguirono i loro riti tradizionali fino al XII-XIII secolo, quando, per effetto del plurisecolare vincolo con la chiesa bizantina, finirono per mutarne il rito: come lingua liturgica mantennero, comunque, l’arabo ormai corrente nella popolazione. A differenza della gerarchia rimasta nel corso del tempo prevalentemente ellenofona. Ad Alessandria e a Gerusalemme ancora oggi i patriarchi sono greci. Nel corso dei secoli, una parte dei Melkiti si mosse verso l’unione con la chiesa cattolica. Un movimento che mosse i primi passi solo a partire dal 1856. Verso il 1880 la presenza cattolica si registrava ormai nella campagna tracia. Fino al 1895, quando si riuscì a istituire a Costantinopoli un seminario e due parrocchie greco-cattoliche. Nel 1911 papa Pio X creò in Turchia un esarcato apostolico per i cattolici di rito bizantino. Nel 1923, Roma provvide a spostare ad Atene l’esarcato apostolico.
    Attualmente i cattolici greci di rito bizantino si riducono ad un’esigua minoranza; vivono per lo più concentrati ad Atene e una piccola parrocchia cattolica sopravvive ad Instanbul.

    Santa Maria in Cosmedin.

    Roma ha Santa Maria in Cosmedin, col suo campanile snello a sette piani di bifore e di trifore che si staglia leggero ed elegante, decorato di maioliche a più colori. È fra i più belli dell’epoca romanica; risale al XII secolo ed è alto 34,20 metri e conserva una campana del 1289.
    L’interno si presenta nella forma che assunse nel suo momento di maggior splendore nel XII secolo; infine col suo nome rievoca, come s’è già scritto, un particolare periodo della storia romana, svoltosi sotto un prevalente influsso bizantino, con una consistente colonia orientale che gravitava in questa zona. Questa fu soprattutto importante nei secoli tra il VII e il IX, prima per la decisa prevalenza politica di Bisanzio che aveva i suoi governatori insediati nei palazzi del Palatino, e poi per l’afflusso dei profughi sfuggiti alle persecuzioni iconoclaste. La sponda tiberina corrispondente si chiamò ripa graeca; intitolazioni a santi greci ebbero tutte le chiese dei dintorni e infine questa chiesa derivò il suo nome probabilmente dal celebratissimo monastero di Costantinopoli, detto il cosmidìon.

    Pavimento – Santa Maria in Cosmedin.

    Santa Maria in Cosmedin ebbe origine da una diaconia, organismo a carattere assistenziale, con la quale la Chiesa, a partire dai secoli VI e VII sostituì gradualmente l’autorità civile sempre più assente. Nel VI secolo, la diaconia si insediò nei locali antichi, che fondatamente si ritiene abbiano ospitato la statio annona, cioè la sovraintendenza dei rifornimenti di viveri alla città, installata nei pressi della zona portuale, i Navalia militari dell’epoca repubblicana, l’Emporium commerciale dell’epoca imperiale. Iscrizioni di carattere annonario ne forniscono la giustificata convinzione.
    Questo ambiente che forse si articolava in varie costruzioni, attorno all’Ara Maxima di Ercole, comprendeva una grande loggia, probabilmente per i mercanti, che aveva un andamento trasversale alla chiesa attuale. In un primo momento la chiesa si allogò nell’interno della loggia, utilizzandone trasversalmente solo una parte; quindi nel secolo VIII, papa Adriano I la fece ampliare fino alle proporzioni odierna e con foggia basilicale. Ai primi del XII secolo, all’epoca di Callisto II, un prelato Alfano continuò l’opera di riordinamento che era stata iniziata alla fine dell’XI da papa Gelasio II. La chiesa si presentò con le caratteristiche che vi sono state ripristinate da un restauro del 1893.
    All’esterno, un protiro e il portico costruiti da Adriano I e sopraelevati da papa Gelasio. Nel portico, sovrastato da un locale a monofore, si trovano interessanti testimonianze antiche, dalla Bocca della Verità, il famoso chiusino di fogna, all’ornato portale di Giovanni da Venezia del secolo IX, al sepolcro del citato prelato Alfano, che è il prototipo dei successivi monumenti funebri del due-trecento.
    L’interno a tre navate, le cui absidi hanno la caratteristica di terminare con bifore, ha al centro, tra due file di colonne e pilastri, una grande aula fino al soffitto a semplici lacunari dipinti. Ai lati della porta principale, come nella sagrestia, si trovano le grandi colonne corinzie della loggia del IV secolo, su cui si inserì la iniziale diaconia. Il pavimento è in opus sectile dei marmorari pre-cosmateschi degli inizi del XII secolo.

    Cripta – Santa Maria in Cosmedin.

    Lungo le pareti e sull’arcone trionfale si vedono avanzi della decorazione pittorica a strati sovrapposti dei secoli XI e XII. La pergula o iconostasi, con gli amboni e il candelabro, è ricostruita secondo i suggerimenti forniti dagli avanzi antichi. Sul presbiterio è un ciborio gotico del XIII secolo, opera di Deodato, della famiglia dei Cosmati, con archi trilobati e lucenti smalti di mosaico. Anche il pavimento è cosmatesco. Nel fondo, è la cattedra episcopale.
    Si accede alla cripta, ricavata dal podio di un tempio antico: ha foggia di piccola basilica con due file di colonnine. È del secolo VIII.
    La sagrestia conserva un bel mosaico dell’anno 705, proveniente da un distrutto oratorio che esisteva presso San Pietro: è un frammento di una raffigurazione dell’Epifania.
    Da notare anche la seicentesca Cappella del Coto progettata da Carlo Maratta che eseguì anche le quattro statue delle “Virtù”. Vi è venerata una immagine del secolo XIII della Teotokos, o Madre di Dio, simile a quella di Santa Maria del Popolo.

    Roma, 14 aprile 2019.

  4. Gita di Pasquetta: dall’Isola Tiberina e al Ghetto ebraico

    L’Isola Tiberina, un territorio di modeste proporzioni 300 metri di lunghezza per 80 di larghezza, è tuttavia trasfigurata dalla leggenda: essa sarebbe nata sui depositi di grano dei Tarquini gettati nel Tevere dai Romani in rivolta perché volevano la loro

    Isola Tiberina – Giovan Battista Pitanesi.

    cacciata, o, per la sua forma, da una nave incagliata, prescelta dal serpente di Esculapio, trasformazione animale di Esculapio stesso, per arrivare esattamente in quel punto del Tevere, e far costruire proprio lì ai Romani un tempio dedicato al dio guaritore più importante della cultura greca.
    Sollecitati proprio da questo racconto misterico l’isola, in realtà originatasi dall’azione erosiva esercitata dal Tevere e da due o tre suoi affluenti sulle propaggini più estreme del colle Capitolino, fu foggiata in antico a forma di trireme – se ne vedono alcuni ruderi della poppa sul fianco settentrionale, retrostante alla chiesa di San Bartolomeo – e rimase consacrata al dio della medicina Esculapio, il cui culto fu introdotto a Roma nel 291 avanti Cristo, e a cui fu dedicato un tempio costruito effettivamente proprio sull’isola.
    Il tempio fungeva da vero e proprio ospedale, come testimoniano numerose iscrizioni che parlano di guarigioni miracolose avvenute presso il tempio, i numerosi ex voto e le dediche alla divinità. Gli ammalati venivano curati soprattutto con l’acqua.
    Il tempio di Esculapio non era però l’unico che era stato costruito sull’Isola Tiberina, poiché sono stati identificati i resti del tempio di Veiove, di Fauno e il tempio Tiberino dedicato al dio Tevere.
    Il carattere sacro e quello legato alla cura degli infermi sono due aspetti dell’Isola Tiberina che permangono nel corso del passare del tempo. Così, sul tempio di Esculapio, in epoca cristiana, fu edificato, sin dall’anno Mille, un santuario – ricovero per prestare aiuto e cure ai poveri.

    Moneta antica che ricorda l’episodio del serpente di Esculapio.

    Nella seconda metà del Cinquecento, la struttura fu trasformata in “fabbrica della salute” ovvero in un’organizzazione basata sull’opera non più meramente assistenziale ma in cui operavano medici e infermieri. Nel 1585, fra Pietro Soriano grazie all’intervento di papa Gregorio XIII, vi fondò una confraternita di soccorso ai malati secondo la regola di San Giovanni di Dio, chiamati popolarmente Fatebenefratelli, che introdusse innovazioni sanitarie particolarmente rivoluzionarie al tempo, come ad esempio l’allettamento di ciascun paziente in un singolo letto a lui riservato e la suddivisione dei malati in relativi reparti specializzati a seconda della loro patologia. La struttura fu già molto importante durante l’epidemia a Roma della peste del 1558, ma lo fu in particolare durante l’epidemia di colera, nel 1832, per l’efficacia delle cure prestate alla popolazione. Nonostante l’ospedale avesse mantenuto la sua autonomia anche sotto la dominazione francese, a seguito degli eventi dopo la breccia di Porta Pia, nel 1878 fu sottratto all’ordine religioso dei Fatebenefratelli, per tornarvi nel 1892. Alla fine dell’Ottocento l’ospedale fu rinforzato contro le piene del Tevere con una serie di muraglioni di contenimento. Ma è soprattutto dopo gli ammodernamenti e gli ampliamenti del 1992 che l’ospedale acquisì le caratteristiche di una moderna struttura sanitaria. Il nome “San Giovanni Calibita Fatebenefratelli” è stato assegnato all’ospedale nel 1972.
    La vocazione medica dell’Isola è confermata anche dalla presenza dell’Ospedale Israelitico, proprio accanto alla chiesa di San Bartolomeo. Le origini di questo secondo ospedale risalgono al 1600 e il suo scopo fu di provvedere un minimo di assistenza sanitaria agli ebrei di Roma, privati, dalle norme sulla reclusione nel ghetto, dell’accesso agli ospedali di allora. Dopo il 1884 l’amministrazione comunale decise di dare in concessione alla comunità ebraica per un ospedale, il vecchio convento vicino alla chiesa di San Bartolomeo.
    Nel 1834 durante l’epidemia di colera le autorità del tempo, temendo la diffusione del contagio, concessero solo temporaneamente l’istituzione di un lazzaretto per gli ebrei di Roma, sito nel Palazzo Cenci.

    Mappa Lanciani, 1983. In alto a sinistra si vede l’altra isola che si trovava accanto all’Isola Tiberina.

    L’Isola Tiberina in antico era accompagnata da un’isola più piccola, più vicina al Ghetto Ebraico, ancora presente nella mappa di Rodolfo Lanciani tracciata nel 1893 poco prima della costruzione dei muraglioni che la faranno sparire.
    L’Isola Tiberina ospitò le prime popolazioni italiche che si attestavano sui colli della Riva Sinistra del Tevere e ne condivise le sorti. Essa fu perciò da subito inclusa in questa parte della città, rimanendo ancora oggi esclusa dal Trans Tiberim, visto che anche amministrativamente essa appartiene al Rione Ripa che, all’altezza del Teatro di Marcello, prosegue lungo la sponda tiberina fino all’Aventino e ai limiti del Testaccio.
    La forma di nave trireme fu accentuata ponendo un obelisco al centro dell’isola con funzione di albero maestro, successivamente sostituita da una colonna con la croce. Dell’obelisco sono conservati dei frammenti al Museo Nazionale di Napoli.
    La colonna invece fu detta “infame” perché ad essa era affissa, il 27 agosto di ogni anno, una tabella nella quale venivano indicati i nomi di coloro che non partecipavano alla messa nel giorno di Pasqua.
    L’uso perdurò fino al 1870 e tra i nomi illustri che finirono sulla colonna infame ci fu, nel 1834, quello del pittore di Trastevere Bartolomeo Pinelli. Questi si offese molto non tanto perché il suo nome era apparso nella lista dei miscredenti, quanto perché nella medesima lista egli era indicato quale “miniaturista” e non quale “incisore”.
    Un po’ di tempo dopo un carro andò a sbattere contro la colonna che per questo si spezzò in più parti. Solo nel 1869, per volere di Pio IX, la colonna fu sostituita con quella attuale.
    Per accedere all’Isola Tiberina, si attraversano due antichissimi ponti: il Fabricio e il Cestio. I due ponti sono i più antichi di Roma che giungono non modificati e ancora in uso fino a noi. Il Ponte Fabricio è il più antico ponte di Roma giunto fino a noi. L’attuale, costruito nel 62 avanti Cristo da Lucius Fabricius, curator viarum come è detto dalle due iscrizioni poste sulle due grandi arcate, sostituì uno in legno che lo precedette. Esso è detto anche “dei Quattro Capi”, grazie alle erme quadricipiti inserite nella balaustra, simulacri di Giano Quadrifronte, e che probabilmente

    Isola Tiberina – Caspar van Wittel – 1685.

    avevano il ruolo di sorreggere la balaustra in bronzo fatta rimuovere dal papa Innocenzo XI. Nel Medioevo il ponte Fabricio fu anche detto “Pons Judeorum” perché prossimo alla riva abitata dagli ebrei e sulla quale venne in seguito delimitato il Ghetto.
    Il ponte Cestio che oggi può essere attraversato è invece stato costruito nel 370 dopo Cristo e ne sostituisce uno a due fornici che risaliva al 46 avanti Cristo. Nel Seicento il ponte Cestio era detto “ponte ferrato” a causa delle numerose catene di ferro che tenevano ancorato i molini presenti sul fiume.
    Sulla sinistra de ponte Fabricio si leva la tozza torre che fu prima dei Pierleoni – quando vi stette Matilde di Canossa – per passare, in seguito, i Caetani che vi risiedettero fino al XV secolo.
    In fondo ad una piazzetta tranquilla si innalza la chiesa di San Bartolomeo, eretta alla fine del X secolo dall’imperatore germanico Ottone III e rimodernata nel 1624, dopo la piena rovinosa del 1557. La facciata è notevole per la ricerca di movimento mediante la contrapposizione di una zona inferiore a una superiore con finestre sormontate da un timpano molto pronunciato. All’interno, va segnalata la Cappella dell’Università dei Mugnai: si riferisce all’attività dei mulini fluviali a ruota che, fino al 1870, si addensavano soprattutto nei pressi dell’Isola Tiberina. E, nella navata destra, la Cappellina di San Carlo decorata da Antonio Carracci. Il bel campanile del 1113 è uno dei più armoniosi campanili romanici di Roma.

    Ghetto di Roma.

    Attraversato il Ponte Fabricio e un tratto del Lungotevere de’ Cenci, ci s’immette nel Ghetto ebraico, luogo di vicende dolorose degli ebrei romani.
    A Roma, come altrove, gli ebrei avevano vissuto sempre in una comunità riunita in ambito ristretto: nell’antichità risiedevano a Trastevere e, successivamente, nel XIII e XIV secolo si erano raccolti al Rione Sant’Angelo, presso l’Isola Tiberina, ricca allora di attività mercantili.
    Il 12 luglio del 1555 il papa Paolo IV Carafa, con la bolla Cum nimis absurdum, revocò tutti i diritti concessi agli ebrei romani e ordinò l’istituzione del ghetto, chiamato anche “serraglio degli ebrei”: Identificò a questo scopo una regione sempre nel rione Sant’Angelo, accanto al Teatro Marcello. Nella bolla papale oltre a specificare che gli ebrei dovevano risiedere nel ghetto e che nel ghetto non ci potesse essere più di una sinagoga, veniva anche deciso che essi dovessero portare un distintivo di “colore glauco” che li rendesse facilmente riconoscibili. Per gli uomini questo segno di riconoscimento fu un cappello giallo, per le donne una pezza di stoffa da portare sopra gli abiti. Molte delle restrizioni fissate dalla bolla di Paolo IV saranno poi riprese dalle leggi razziali emanate in Italia durante il Governo Fascista nel 1938. Inoltre l’obbligo a risiedere dentro il quartiere che, fino al 1848, possedeva delle vere e proprie mura con porte che erano aperte al mattino e richiuse la sera, fece sì che gli edifici nel tempo divenissero sempre più alti, collegati tra loro da ponti che facilitavano la fuga in occasione delle “incursioni” dei gentili, come ad esempio quelle che avvenivano durante il Carnevale romano. Il ghetto aveva quindi per lati maggiori il Tevere e il Portico d’Ottavia, mentre uno dei lati minori attraversava la piazza Giudea e l’altro raggiungeva dal fiume la Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria.

    Via Rua – Ghetto di Roma – Ettore Roesler Franz.

    Dall’emissione della bolla papale l’atteggiamento dei papi fu altalenante; alcuni papi cercarono di alleviare le condizioni di vita degli ebrei romani, altri papi inasprirono l’atteggiamento nei confronti della comunità. Gregorio XIII, che fu papa alla fine del Cinquecento, ebbe un atteggiamento ambivalente: se da un lato cercò di alleviare la pressione sulla comunità ebraica dall’altro la vessò istituendo le “prediche coatte”. Queste si svolgevano di sabato e avevano l’obiettivo di indurre gli Ebrei di Roma alla conversione. Le prediche coatte si tennero su di un arco molto lungo, erano tenute in luoghi diversi tra i quali la chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, la chiesa di San Gregorio al Ponte Quattro Capi e nel Tempietto del Carmelo.
    Sisto V, Felice Peretti, fu un papa che cercò di alleviare la pressione sulla comunità ebraica permettendo anche un ampliamento del ghetto, che arrivò a occupare una superficie di tre ettari. Un simile atteggiamento di maggiore disponibilità fu assunto anche da Paolo V Borghese, papa nella prima metà del 1600, il quale per sancire in qualche maniera il rispetto che la chiesa di Roma avrebbe portato alla comunità ebraica fece collocare nella piazza delle Scole una fontana nella quale il motivo araldico del drago alato dei Borghese si univa al candelabro con i sette bracci. Altri papi come Pio V e Clemente VIII furono decisamente più intransigenti.
    Uno spiraglio alle condizioni di estrema povertà della comunità ebraica si aprì una prima volta a seguito dell’occupazione francese di Roma del 1798 e la conseguente proclamazione della Prima Repubblica Romana, quando le porte del ghetto furono finalmente aperte e gli ebrei poterono uscire. In piazza delle Cinque Scole per sancire questo momento fu eretto un “albero della libertà”, ma la libertà durò veramente poco visto che meno di due anni dopo, con la cacciata delle truppe francesi, le condizioni di vita tornarono ad essere quelle di sempre. Di nuovo nel 1848 sembrò che le cose per la comunità ebraica potessero cambiare. Infatti Pio IX

    16 ottobre 1943. Rastrellamento nel Ghetto di Roma.

    per un certo periodo del suo pontificato sembrò ispirarsi alle idee repubblicane, e questo per gli ebrei si tradusse nel fatto che le mura del ghetto vennero abbattute. La libertà sembrò diventare ancora più concreta durante la Repubblica Romana del 1849, ma il ritorno del papa dopo la sconfitta della Repubblica spense di nuovo le speranze. Pio IX inasprito da quanto era accaduto, considerando la comunità ebraica in parte responsabile dell’esperienza della Repubblica, emanò leggi repressive nei confronti della comunità che riguardarono anche la libertà con cui gli ebrei potevano muoversi all’interno della città, sebbene le mura del ghetto non esistessero più. Si dovrà attendere l’unità d’Italia e la proclamazione di Roma capitale per avere un’equiparazione reale tra gli ebrei e gli altri romani. Ma anche questa sarà una parentesi che dal 1871 durerà in buona sostanza fino al 1938, quando Mussolini sceglierà di seguire Hitler sulla scelta discriminatoria nei confronti degli ebrei. L’episodio certamente più grave della storia della comunità ebraica a Roma sarà quello che si compirà il 16 ottobre del 1943 durante l’occupazione nazista della città. In questa data i Tedeschi, al comando di Kappler, in poche ore alle prime luci del mattino rastrellarono e deportarono ad Aschwitz milleduecentocinquantanove Ebrei di tutte le età. Di questi ritornarono a Roma in sedici di cui quindici uomini e una sola donna Settimia Spizzichino, che da subito scelse di testimoniare l’orrore che aveva vissuto.
    Dalla storia tragica degli Ebrei romani alla lieta nota del restauro di uno dei

    Veditori di pesce al Portico di Ottavia – Ettore Roesler Franz.

    monumenti più importanti che proprio al Ghetto fanno bella mostra di sé: il Portico di Ottavia, restituito da poco tempo all’ammirazione dei romani e dei visitatori. Si tratta del grandissimo portico quadrato che Augusto fece ricostruire, tra il 33 e il 23 avanti Cristo sul portico di Quinto Cecilio Metello Macedonico dedicandolo alla sorella Ottavia. All’interno del portico sorgevano due templi, quello di Giunone Regina e di Giove Statore, mentre facevano parte del portico stesso la biblioteca, che raccoglieva testi latini e greci, dedicata alla memoria di Marcello, figlio di Ottavia e la Curia Octaviae.
    Nell’80 dopo Cristo il complesso subì danni in seguito ad un incendio e fu probabilmente restaurato da Domiziano. Ancora nel 203 dopo Cristo, il portico e i templi furono ricostruiti e nuovamente dedicati da Settimio Severo e Caracalla, dopo le distruzioni dovute a un altro incendio. A seguito del terremoto del 441 dopo Cristo le colonne del propileo d’ingresso vennero sostituite dall’arcata tuttora esistente. Intorno al 770, a partire dal propileo d’ingresso, fu edificata la chiesa di “San Paolo in summo circo”, detta poi Sant’Angelo in Pescheria.
    La visita si conclude al Teatro di Marcello, i cui imponenti resti mostrano l’affascinante stratificazione di successive edificazioni nelle varie epoche. Il teatro, iniziato da Cesare, fu compiuto da Augusto tra il 13 e l’11 avanti Cristo e dedicato alla memoria dell’amatissimo Marco Claudio Marcello, suo nipote e genero prediletto, quest’ultimo era infatti figlio della sorella Ottavia e marito di sua figlia Giulia, morto non ancora ventenne nel 23 avanti Cristo e per il quale Virgilio scrisse i suoi famosi versi di rimpianto: «[…] Ohi, ragazzo degno di pianto: se mai rompessi i tuoi fati, tu resterai Marcello. Gettate gigli a piene mani, che io sparga fiori purpurei e colmi l´anima del nipote almeno con questi doni e faccia un inutile regalo […]».

    Ricostruzione del Portico di Ottavia.

    L’imponente e severo monumento, che non di rado fu preso a modello dagli artisti del Rinascimento, era costituito da due ordini di quarantuno arcate ciascuno, coronati da un attico; la cavea, che si apriva ove attualmente è il giardino di Palazzo Orsini, poteva contenere circa quindicimila spettatori.
    Nell’era cristiana molti dei teatri romani caddero in disuso e questa sorte toccò anche al teatro Marcello, tanto che nel 370 parte del travertino della facciata che guardava verso il Tevere sembra che fu utilizzato per un restauro del ponte Cestio, mentre altro materiale di pertinenza della facciata si accumulava e veniva poi ricoperto dalle piene del Tevere stesso, dando origine a quello che oggi si chiama Monte Savello.
    Nel Medioevo ciò che era ancora in piedi del teatro veniva trasformato in una fortezza che appartenne prima ai Pierleoni, poi ai Faffo e quindi ai Savelli che tra il 1523 e il 1527 vi fecero costruire da Baldassarre Peruzzi i due piani del palazzo, il quale acquistò così forma definitiva e nel 1712 passò agli Orsini.
    Nell’area compresa tra il teatro di Marcello e il portico di Ottavia svettano le tre colonne angolari del tempio di Apollo Sosiano, eretto nel 433 avanti Cristo e rifatto nel 179 quando lo stesso dio viene indicato con l’appellativo di Apollo Medicus. Il nome Sosiano deriva invece dal nome del console Gaio Sosio che lo ricostruì, nel 34 avanti Cristo, forse a causa di un suo trionfo. I lavori furono interrotti a causa tra Ottaviano e Antonio, per riprendere l’anno dopo quando Augusto si riconciliò con Sosio.

    Portico di Ottavia – Giovan Battista Piranesi.

    Accanto a questo tempio infine sorgeva quello di Bellona, dea della guerra italica a cui fu dedicato il tempio nel 296 avanti Cristo. Il tempio si trovava fuori dal pomerium e in vicinanza delle mura, per questo motivo ospitò diverse riunioni del Senato quando a queste partecipavano personaggi stranieri, appartenenti ad ambascerie di altri popoli, o comandanti militari qualora essi fossero in armi ad esempio perchè dovevano partire per la guerra.

    Roma, 26 marzo 2018