prima pagina

  1. L’amicizia tra Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini

    In occasione della visita racconto al quartiere di Testaccio sulle tracce di Elsa Morante e del suo romanzo “La Storia” edito da Einaudi nel 1974, pubblichiamo un articolo di Gloria Albonetti, già pubblicato il 12 novembre 2018 sul blog “Filosofemme”. Ringraziamo la testata e l’autrice.

    Elsa Morante

    L’incontro e le affinità
    Morante e Pasolini furono due scrittori ed intellettuali di enorme sensibilità, due anime creative, ma instabili: due anime affini, nel bene e nel male. L’amicizia tra i due nacque per una comune appartenenza a coloro che avevano «come ideale della vita, quello di svuotare con un ditale il mare» (W. Siti, Elsa Morante nell’opera di Pier Paolo Pasolini, in Vent’anni dopo La Storia. Omaggio a Elsa Morante, Pisa, Giardini Editori e Stampatori p. 134).
    Essi si incontrarono verso la metà degli anni Cinquanta attraverso Alberto Moravia. Pasolini rimase molto colpito da Lo scialle andaluso, uscito nel 1953 e tra questo anno e quello successivo si collocò il loro incontro, testimoniato dall’epistolario di Pasolini.

    continua…

  2. I tesori del Celio: Chiesa di Santo Stefano Rotondo

    Il Celio è tra i sette colli di Roma il più affascinante: un lungo e silenzioso promontorio che si distacca da un pianoro dal quale nascono l’Esquilino, il Viminale e il Quirinale. Esso corrisponde a quella porzione di territorio che si distende verso la valle occupata dal Colosseo e dalla basilica dei Santi Quattro Coronati.

    Mosaico di Primo e Feliciano, particolare.

    A partire dal VI secolo, il Celio fu annesso alla II Regione ecclesiastica per la sua vicinanza alla Basilica Lateranense, tanto che per l’intero colle venne spesso utilizzato il toponimo di “Laterano”. Nuove chiese cominciarono a sorgere su antichissimi tituli, i primi luoghi di culto cristiani, il più delle volte ambienti di case private, e sugli xenodochia, centri di accoglienza per pellegrini e ammalati.
    Lungo il colle, tagliato in parte da Villa Celimontana, sta una costellazione di chiese di sublime bellezza, in cui si incrociano e si sovrappongono storie di santi, di martiri, di papi e di sovrani.

    Partendo dalle pendici, si comincia con San Clemente per proseguire, inerpicandosi per il colle, con i Santi Quattro Coronati, Santo Stefano Rotondo, Santa Maria in Domnica, San Tommaso in Formis, la basilica e i luoghi del martirio dei santi Giovanni e Paolo, e la chiesa e del tre cappelle dedicate a San Gregorio Magno: un itinerario da capogiro.
    In tale costellazione di chiese, Santo Stefano Rotondo è la più misteriosa. Le sue origini sono antiche e ricalcano la cronologia di molti luoghi di culto del Celio, primordiali spazi religiosi pagani riconvertiti ad uso cristiano. Santo Stefano non si sottrae a questa sorte. La prima basilica fu edificata per volere di Papa Simplicio tra il 468 e il 483 e in quell’intreccio di anni risultava essere uno dei primi templi cattolici. Trascorsi quasi due millenni mantiene tutt’oggi un record importante, quello di presentarsi come la più grande chiesa a pianta centrale esistente al mondo. Datazione fondamentale per capire quando tutto ebbe inizio è il 415, anno in

    Mosaico di Primo e Feliciano, particolare.

    cui furono ritrovate a Rappa Gamela, vicino Gerusalemme, le reliquie di santo Stefano, lapidato nel 35 dopo Cristo per la sua attività di predicatore.
    Con una virtuale macchina del tempo dobbiamo scavalcare Simplicio, e fermarci al I secolo dopo Cristo: i resti di un antico mitreo e dei Castra Peregrina, caserma di epoca imperiale che accoglieva e smistava le legioni straniere, ci raccontano che sotto la Chiesa dedicata a Santo Stefano diacono e protomartire vi era un altro tempio, stavolta pagano, e un’area per gli eserciti. Una vicinanza non così sospetta se ci si ricorda del legame quasi imprescindibile che associava il dio Mitra ai militi: questi ultimi infatti si affidavano alla divinità persiana perché garante di protezione della categoria nonché di vittorie nelle battaglie.
    Rintracciate e riconosciute le fondamenta della nostra basilica, la pianta – costituita in passato da tre anelli concentrici e a croce latina – ci suggerisce un’altra evidente suggestione che fece da modello per Santo Stefano: la famosa chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, voluta dall’imperatore Costantino tra il 326 e il 334. Lì un muro esterno e due colonnati anulari circondavano il sepolcro di Cristo. La scelta di tale configurazione non era marginale ma anzi funzionale: in tal modo i fedeli potevano avvicinarsi gradualmente e con movimento continuo all’oggetto della loro visita senza creare “ingorghi” tra chi entrava e chi usciva. Non è un caso che le chiese con santuario hanno corridoi e ballatoi e sono edificate a pianta centrale: tutto ciò segue la precisa logica che permette di girare intorno al sacrario stabilendo una delle usanze tipiche dei pellegrinaggi. Gli antenati di queste strutture religiose circolari risalgono all’Età Imperiale, e infatti come dimenticare i perimetri murari della Villa di Adriano a Tivoli?, ma dobbiamo spingerci geograficamente e

    Mosaico di Primo e Feliciano, particolare.

    cronologicamente più lontano, in quell’Oriente ellenistico – la vasta zona tra Egitto, Siria e Anatolia dopo il 324 avanti Cristo – per ritrovare gli edifici governativi che fecero da esempio ai palazzi dell’Impero romano e che come un filo rosso tessono le trame storiche e artistiche tra la Grecia e Roma. Ma queste sono le radici; noi adesso vediamo ciò che rimane di un tronco e di una chioma fortemente sfoltite dal passaggio dei secoli, ma non per questo prive di fascino e incanto. La chiesa ha subito azioni di spoglio – umane, meteorologiche, ambientali e non ultime culturali – e i conseguenti interventi conservativi e restaurativi ce la restituiscono per ciò che è: un impianto fortemente diverso da quello concepito da Simplicio. Non vediamo più l’anello esterno basso e sopraelevato nei quattro punti contrapposti così da formare la croce greca, ma dalle fonti sappiamo che entrando ci si immergeva in una navata anulare bassa coperta da volte a botte dove si incontravano le cappelle; queste conducevano allo spazio centrale invece molto alto. Per enfatizzare lo stupore del visitatore, secondo alcuni testi, si alternavano nell’anello esterno tratti coperti a zone aperte così da creare un suggestivo gioco di luci e ombre. Gioco ripetuto all’interno dai colonnati circolari che formavano pieni e vuoti luministici per un effetto scenografico garantito. Sappiamo che i papi Giovanni I e Felice IV tra il 523 e il 529 ordinarono dei ricchi ornamenti purtroppo oggi non più visibili, ma possiamo constatare uno dei provvedimenti più significativi di quel momento: la chiusura di molti ingressi che permettevano l’accesso

    Martirio dei Santi Giovanni, Paolo e Bibiana – Pomarancio e Antonio Tempesta – Santo Stefano Rotondo.

    alla Chiesa. Questo perché pochi erano i credenti che gravitavano intorno alla zona del Celio – nel Medioevo progressivamente abbandonata – e perché la basilica non possedeva un ordine clericale stabile. Di quegli interventi rimane l’antico trono, proveniente forse dal Colosseo, che sulla sinistra dell’ingresso approva la nostra entrata. I restauri del XIII ci restituiscono un trono muto e monco nelle sue parti più caratteristiche, i braccioli e la spalliera. Un secolo più tardi, tra il 642 e il 649 ricopre il soglio pontificio Teodoro I che si lancia in una decisione piuttosto intraprendente, quella di spostare le reliquie dei martiri Primo e Feliciano a Santo Stefano. Cosa c’è di così ardito in tale provvedimento? Per la prima volta le spoglie inizialmente depositate nel cimitero di Via Nomentana e quindi fuori dalle mura urbane, entrano in città. Si erge una cappella, proprio di fronte all’altare maggiore, in uno dei bracci della croce iscritta e si cambia la conformazione del muro retrostante l’altare sostituito da un’abside sporgente. Visibile ai nostri occhi di visitatori moderni è la sistemazione dell’XI secolo quando si restringono i volumi della cappella per ricavare la sagrestia e un coro secondario. Gli affreschi raffiguranti il martirio dei santi eseguiti da Antonio Tempesta nel 1586 sembrano avvolgere e dialogare cromaticamente con l’altare scolpito da Filippo Barigoni nel 1736. Elemento che più di tutti caratterizza la cappella è la preziosa testimonianza dell’arte musiva nel catino absidale: qui un seppur rovinato mosaico del VII secolo ci frena davanti le composite ed eterogenee tessere che perfettamente si armonizzano tra loro grazie a un intonaco che trattiene bene i materiali ed evita la formazione di fessure intermedie.

    Martirio di San Vito, San Modesto e Santa Crescenza – Pomarancio – Santo Stefano Rotondo.

    Una tale abilità è attribuibile solo a un artista bizantino attivo a Roma e coadiuvato da maestranze locali. Al di là dei tecnicismi, ciò che stupisce è la soluzione adottata per rappresentare i due Santi che prima di divenir tali erano stati gettati in pasto ai leoni e agli orsi per poi essere decapitati. Non si sceglie di raffigurare il momento dell’atroce martirio, ma quello della piena serenità della Trasfigurazione, quando i due sono assunti ormai in Paradiso. Se prima di ammirare il mosaico si lambisce con gli occhi la parete circolare, soffermarsi nello spazio intimo e racchiuso della cappella non può che rincuorare l’animo. Infatti nei trentaquattro riquadri affrescati dal Pomarancio – al secolo Nicolò Circignani – nel 1583, troviamo la più truce rappresentazione dei supplizi che in ordine cronologico iniziano con la crocifissione di Cristo, primigenio atto di feroce violenza persecutoria. I colori vividi, i visi trasformati dal dolore o, dipendentemente dal ruolo, dal sadismo, restituiscono episodi drammaticamente realistici e raccapriccianti. La chiarezza didascalica, seppur cruenta ed enfatizzata dalle scritte in latino e italiano, di questa prova pittorica si deve ricondurre alla funzione che dal 1580 in poi assolve la basilica di Santo Stefano: in quell’anno, infatti, papa Gregorio XIII consegna la chiesa al Collegium Germanicum, un convitto diretto dai Gesuiti. La basilica si ritrova, così, ad essere punto di raccolta e di studio dei futuri ecclesiastici e ciò spiega la necessità educativa dell’apparato decorativo, adeguata alla nuova vocazione didattica della Chiesa. Ricordiamoci che siamo in piena Controriforma, che i gesuiti erano gli affidatari del verbo tridentino e che sull’arte grava adesso più che mai l’urgenza di coinvolgere e quasi sconvolgere il fedele in un’esperienza religiosa che rasenta il misticismo.

    Roma, 30 marzo 2019

  3. Donne. Corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione

    Immagine angelica, impalpabile ed eterea o minaccia tentatrice, fonte di peccato e perdizione, creatura rinchiusa nella solitudine domestica o

    Le vergini savie e le vergini folli – Aristide Sartorio.

    rivoluzionaria consapevole della propria identità? Come sono state rappresentate nel corso di questi due ultimi secoli le donne dagli artisti? A raccontarne la trasformazione nella visione degli artisti, dalla fine dell’Ottocento alla contemporaneità, è la mostra “Donne. Corpo e immagine tra simbolo e rivoluzione”. Attraverso circa 100 opere la rassegna intende indagare questa evoluzione rappresentativa, in costante rapporto con i cambiamenti storici, sociali e culturali. La mostra, partendo dalle immagini di fine Ottocento di una donna sospesa tra il suo essere allo stesso tempo ninfa gentile e crudele seduttrice, Musa e Sfinge, si sofferma anche sull’impatto che le teorie freudiane ebbero su tutta la cultura occidentale del Novecento, andando a scardinare l’immagine armonica della famiglia tradizionale. Le contestazioni degli anni Sessanta produssero poi un ulteriore cambiamento nella percezione di sé, delle proprie possibilità e potenzialità nei vari ambiti, compreso quello dell’arte. Contemporaneamente alla contestazione sociale dei modelli patriarcali, la consapevolezza di una nuova identità femminile fu al centro della ricerca di molte artiste ed anche il ruolo predestinato di “madre”, passando dalla condizione di scelta obbligata, divenne il fulcro del dibattito sulle libertà della donna e sulla riappropriazione del proprio corpo. Idealizzata nelle

    Venere – Mario Ceroli.

    antiche civiltà fino all’avvento del cristianesimo. Sublimata a figura angelica nell’ambito letterario d’epoca medievale. Perseguitata e condannata al rogo dall’Inquisizione perché ritenuta capace di adorare il demonio. La figura femminile ‒ simbolo di fecondità, nascita e nutrizione ‒ inizia il suo lento processo di emancipazione solo dalla seconda metà dell’Ottocento, nell’alveo di quella ambivalenza che ne ha sempre contraddistinto il percorso. La mostra proposta dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma ruota intorno alla controversa questione dell’identità femminile e della sua evoluzione, ma paradossalmente langue della presenza di autrici donne. Infatti, Sissi con i suoi Nidi come metafora della maternità e Giosetta Fioroni, fotografata da Marco Delogu per L’altra Ego, sono due delle sei donne in mostra a fronte degli ottanta artisti di sesso maschile.
    Allestita per tematiche a partire dalla fine dell’Ottocento, l’esposizione è introdotta dal trittico Le vergini savie e le vergini folli del protagonista del Simbolismo italiano Giulio Aristide Sartorio, i cui canoni estetici idealizzati sono legati a doppia mandata al mito. Dall’amore sacro, fondato sulla perfezione fisica e sull’aspetto simbolico della femminilità, si passa all’amor profano della femme fatale. Donna vampiro partorita dall’immaginario di una società maschilista che trova la sua massima espressione in ambito cinematografico, dove assume una valenza positiva poiché legata alla figura della diva. Simbolo d’indipendenza fino agli Anni Venti per immolarsi ad angelo del focolare in epoca fascista. In mostra anche una serie di pellicole, tra cui I sette peccati capitali, alcuni

    Il dubbio – Giacomo Balla.

    cinegiornali dell’Istituto Luce e antiche matrici fotografiche. Nella sala dei ritratti, tra sorrisi abbozzati, sguardi timidi e una diffusa fissità quasi innaturale delle modelle, emergono dipinti come Il dubbio, opera di Giacomo Balla ancora legata al realismo, che ritrae la moglie mentre si volta all’improvviso sferzando il buio con uno sguardo enigmatico e accattivante; Donna alla toletta di Antonio Donghi, che al Realismo magico e straniante unisce un’atmosfera sospesa e silenziosa; e Nel parco, opera fondata su discordanze cromatiche, di Amedeo Bocchi, artista difficilmente collocabile in una determinata tendenza. Nelle altre sezioni sono da citare La Gravida di Pino Pascali, Le spose dei marinai di Massimo Campigli, la Venere in chiave pop di Mario Ceroli e un piccolo focus sulle donne di Fausto Pirandello. Conclude l’allestimento un settore dedicato alla documentazione cartacea e a quella video, che ripercorre le fasi del movimento femminista e la genesi del corpo femminile che diventa protagonista dell’espressione artistica attraverso la performance.

    Roma, 23 marzo 2019

  4. Alla scoperta della Roma francese

    La devastante occupazione da parte dei regnanti francesi, che sin dalla metà del XVI secolo interessò i ducati limitrofi di lingua francofona,

    Trinità dei Monti – Claude Lorrain – 1632 ca.

    assieme alle conseguenze provocate dalla Guerra dei Trent’Anni, 1618-1648, conflitto durante il quale la Francia incrementò il suo controllo sui territori confinanti sino ad annetterli al proprio regno, spinsero una vasta compagine di artisti, artigiani, commercianti, a intraprendere il viaggio in direzione del Bel Paese, viaggio in cui la Città Eterna costituiva una tappa imprescindibile. Nel periodo a cavallo tra il Cinque e il Seicento, Roma manteneva il primato di Capitale europea dell’Arte, rappresentando non solo un museo a cielo aperto, ma anche il luogo d’incontro e commistione per eccellenza delle maggiori correnti artistiche allora in voga. Numerose comunità straniere, prime fra tutte quelle fiamminghe, francofone e spagnole, giungevano da ogni angolo d’Europa per insediarsi nell’Urbe e integrarsi con la comunità romana. I luoghi di culto, localizzati in differenti rioni, si configuravano all’epoca quali punti di raccolta, condivisione e preghiera dei membri delle rispettive minoranze e, al contempo, quali poli simbolici e identitari delle diverse comunità. Roma infatti, era anche e soprattutto la capitale papale, meta prediletta, sin dal Medioevo, dei pellegrini e dei fedeli provenienti da tutto il mondo. Già nel Quattrocento, in effetti, alcune “nazioni” avevano visto sorgere, grazie all’intervento pontificio, le loro specifiche “congregazioni”: negli anni

    La scalinata della Trinità dei Monti – Giovanni Paolo Panini – 1756-1758 ca.

    Settanta il privilegio spettò a quella francofona, formata, in particolare, da francesi, savoiardi, borgognoni e lorenesi, che di lì a poco avrebbe visto sorgere i primi edifici cattolici a essa riservati. A seguito della fondazione di San Luigi, e via via sino al Settecento, si sarebbero dunque interamente costituiti tutti i cosiddetti “Pii Stabilimenti della Francia a Roma”. L’itinerario alla scoperta delle chiese francofone dell’Urbe, tra i rioni Campo Marzio, Sant’Eustachio, Parione e Trevi, per questo motivo, abbraccia un vasto arco temporale compreso tra il Rinascimento e il tardo Ottocento. A partire dalla celebre Trinità dei Monti,1502-1585, coprendo uno spazio breve si raggiunge San Luigi dei Francesi, 1518-1589, e poi ancora San Nicola dei Lorenesi, 1588-1632, e Sant’Ivo dei Bretoni, la chiesa medioevale, concessa alla comunità bretone intorno alla metà del Quattrocento, andò distrutta e fu ricostruita nel Cinquecento, per essere a sua volta sostituita dall’attuale struttura ottocentesca. Il percorso alla ricerca della Roma Francese può ritenersi concluso con la chiesa dei Santi Andrea e Claudio dei Borgognoni, di matrice seicentesca, ma riedificata nel 1728-1731. Protagonisti del percorso, assieme ai capolavori primo-seicenteschi di Caravaggio e Domenichino, sono le opere manieriste di Daniele da

    San Luigi dei Francesi – Giovanni Battista Falda – 1667-1666.

    Volterra, Perin del Vaga, Taddeo e Federico Zuccari, gli affreschi di scuola romana tardo-barocca di Antonio Bicchierai, le prove classiciste di Placido Costanzi e le splendide commistioni barocco-rococò-neoclassiche di Corrado Giaquinto. Senza dimenticare alcune testimonianze pittoriche francesi, come quelle di Charles Mellin e François Nicolas de Bar del XVII secolo.