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  1. Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

    Villa Giulia, splendido esempio di villa rinascimentale suburbana, fu fatta edificare da Papa Giulio III tra il 1550 e il 1555.

    Villa Giulia

    Come sempre in questi casi la parte residenziale dell’edificio ha dimensioni relativamente modeste e strettamente connessa con il giardino costituito da terrazze collegate da scalinate scenografiche, ninfei e fontane adorne di sculture.
    La villa è il risultato dell’interazione tra tre dei più grandi artisti dell’epoca: Giorgio Vasari, l’architetto Jacopo Barozzi da Vignola e lo scultore e architetto fiorentino Bartolomeo Ammannati. Anche la decorazione pittorica ad affresco è di notevole pregio, e a essa avevano contribuito pittori diversi tra i quali Taddeo Zuccari.
    L’elemento caratteristico della villa era il ninfeo, in origine ricchissimo di decorazioni, alimentato da una canalizzazione dell’Acquedotto Vergine che corre in profondità e si manifesta nella fontana bassa, e che costituisce il primo “teatro d’acque” di Roma.
    L’edificio fu ampliato una prima volta nel 1912 e poi di nuovo nel 1923.
    Il Museo di Villa Giulia nacque nel 1889 per iniziativa di Felice Barnabei, un archeologo e politico italiano.

    Ninfeo di Villa Giulia

    Il primo nucleo di reperti esposti proveniva da Falerii, l’odierna Civita Castellana, capoluogo dei Falisci, un popolo che si era insediato nel territorio compreso fra i Monti Cimini ed il Tevere, territorio che era stato oggetto già nel 1880 di attente indagini topografiche e di scavi. Alle antichità di Falerii si aggiunsero via via quelle provenienti da altri centri dello stesso territorio (Corchiano, Narce, ecc.), materiali da abitati, santuari e necropoli del Lazio meridionale (Gabii, Alatri, Satricum, più tardi Palestrina), dell’Etruria (Cerveteri e in seguito Veio), dell’Umbria (Todi, Terni).
    Nella prima metà del ‘900 si vennero ad intensificare le attività di scavo nella zona di Veio e Cerveteri. I reperti archeologici qui portati alla luce, confluiscono nel museo di Villa Giulia che accentua così il carattere etrusco dei materiali raccolti ed esposti.
    Il museo diviene così il Museo Nazionale Etrusco e ancora oggi raccoglie reperti relativi ad alcune delle città etrusche più importanti, quali Vulci, Cerveteri e Veio.

    Apollo – Veio

    Gli Etruschi furono un popolo dell’Italia antica di lingua non indoeuropea e di origine incerta affermatisi in un’area geografica indicata con il nome di Etruria, che si estendeva, grosso modo, dalla Toscana all’Umbria fino al fiume Tevere e al Lazio settentrionale. Successivamente le popolazioni etrusche si espansero in Emilia Romagna e in Lombardia, arrivando fino al Veneto, e al sud raggiunsero la Campania.
    La civiltà etrusca influenzò notevolmente la civiltà romana con la quale si fuse al termine del primo secolo avanti Cristo. L’inizio della fusione è convenzionalmente posto con la conquista della città di Veio da parte dei Romani nel 396 avanti Cristo.
    Ancora oggi resta poco conosciuto il processo che ha portato alla formazione della civiltà etrusca così come essa si è venuta organizzando nell’Etruria, processo di formazione che va tenuto distinto dalla questione relativa alla provenienza di questo popolo, altro aspetto relativamente al quale esistono diverse teorie.
    Dagli studi condotti sui reperti giunti fino a noi, si può evincere che gli Etruschi sono probabilmente il risultato dell’interazione di popoli diversi visto che nella loro cultura compaiono elementi greci, sirio – fenici, italici, egizi, mesopotamici, urartei e indoiranici.
    E’ interessante notare che l’influenza degli antichi Grci sugli Etruschi detreminò la comparsa nella cultura di questi ultimi di una fse storico – culturale definita orientalizzante, che corrisponde circa all’VIII secolo avanti Cristo. I contatti avvennero soprattutto attraverso le colonie della Magna Grecia, ovvero con le colonie greche nell’Italia meridionale. Tra i diversi ambiti nei quali si osserva l’influenza greca certamente va annoverata la ceramica. Vi furono infatti csambi di vasellame tra Etruschi e Greci, ma anche scambi di tecniche produttive ed artistiche, con un miglioramento tecnologico nella civiltà etrusca dei forni e dei torni.

    Latona – Veio

    Un altro ambito in cui è chiara l’influenza greca è nella religione. Molte delle divinità etrusche in questo periodo vennero infatti reinterpretate e fatte corrispondere a divinità greche ad esempio Tinia venne associata a Zeus, Uni ad Era, Aita ad Ade.
    Dal litorale e dall’entroterra toscano, dove praticavano l’agricoltura ancge grazie ad opere di bonifica delle zone paludose, gli Etruschi si espansero veso nord nella Pianura Padana.
    Svilupparono sia le tecniche di estrazione che di lavorazione dei metalli, soprattutto il ferro.
    La lavorazione dei metalli fu uno degli elementi che spinse la crescita dei commerci via mare di città quali Cerveteri, Vulci e Tarquinia.
    E’ possibile che fossero di origine etrusca anche i Reti, un popolo che occupava il Trentino alto Adige.
    Se così fosse gli Etruschi oltre a controllare i traffici sul Mar Tirreno controllavano anche quelli che avvenivano verso il Nord Europa.
    In Umbria gli Etruschi fondano la città di Perugia che diviene una delle dodici lucumonie etrusche.
    I primi villaggi etruschi erano costituiti da capanne con tetto molto spiovente in paglia o argilla. Le città si distinguevano dagli insediamenti italici perché non erano disposte a caso ma seguivano una logica economica o strategica ben precisa. Ad esempio alcune città erano poste in cima ad alture così da poter controllare ampie zone sottostanti terrestri o ampi bracci di mare, oppure sorgevano in territori fertili ed estreamente adatti all’agricoltura, come nel caso di Veio e Tarquinia.
    La città sorgeva intorno ad una coppia di assi viari orientati nord – sud (cardo) ed est – ovest (dcumano), un assetto urbanistico che risultò rivoluzionario rispetto a quello adottato dai greci e che successivamente divenne modello per molte altre civiltà tra cui quella romana.

    Ercole – Veio

    Le città erano spesso protette da mura ciclopiche in argilla o tufo o pietra calcarea in cui si aprivano porte.
    Moltissime delle informazioni sulle abitazioni e sulla vita quotidiana degli Etruschi sono state ricavate dallo studio delle necropoli, le “città dei morti” sempre poste al di fuori della cinta muraria. Le necropoli sono sempre composte da sepolture ipogee, ovvero da ambienti sotterranei sovrastati da un tumulo, che riproducevano la disposizione delle abitazioni con arredi, vasi, stoviglie, armi, gioielli, ecc…. Ognuna di queste tombe si articolava in diverse camere sepolcrali di dimensioni proporzionali alla ricchezza e alla notorietà del defunto o della famiglia del defunto. Gli affreschi alle pareti delle tombe riproducevano scene di vita quotidiana.
    Gli Etruschi credevano nell’esistenza di una vita dopo la morte che era una prosecuzione della vita terrena.
    Altre tombe erano ricavate all’interno di cavità naturali preesistenti. Le tombe a edicola erano costruite completamente a livello della strada. Erano a camera unica ed avevano la forma di un tempio in miniatura, ma in pratica avevano una forma molto simile a quella delle abitazioni con tetto a doppio spiovente.
    Nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia sono esposti i reperti tra i più famosi provenienti dalle città etrusche quali il Sarcofago degli Sposi proveniente da Cerveteri e risalente al VI secolo avanti Cristo. Il Sarcofago degli Sposi, capolavoro dell’arte etrusca in terracotta, fu trovato nel 1881 in una tomba della Banditaccia, allora di proprietà dei Principi Ruspoli, dai quali Felice Barnabei, il fondatore del Museo, lo acquistò rotto in più di 400 frammenti. Formato da una cassa a forma di letto da convito (kline) e da un coperchio con la rappresentazione di una coppia coniugale semidistesa a banchetto, alla moda orientale, il sarcofago è in realtà un’urna cineraria destinata ad accogliere le ceneri di due defunti.

    Sarcofago degli Sposi – Cerveteri

    L’uomo con il busto nudo e il resto del corpo coperto dal mantello cinge con gesto amoroso le spalle della donna, abbigliata con cappello e calzature con la punta rialzata; entrambi nelle mani tenevano vasi o altri oggetti da mensa, non conservati. Nella rappresentazione della coppia a banchetto, tema tanto frequente nei monumenti funerari, è colto un momento importante della vita aristocratica etrusca, che esaltava il rango e l’opulenza e rifletteva antichi ideali e forme rituali derivate dal mondo greco omerico. L’opera, modellata in un unico momento, ma tagliata verticalmente in due metà per evitare danni durante la cottura, in origine doveva essere ravvivata da forti colori di cui resta traccia sulle gambe del letto conviviale, colori che in parte si conservano nel sarcofago gemello, anch’esso da Cerveteri, al Museo del Louvre di Parigi dal 1863. L’attenzione dello scultore è concentrata sulle teste dalla nuca molto arrotondata, sui volti dall’ovale sfinato con gli occhi allungati, mentre la struttura dei corpi è nascosta da un panneggio dalle linee fluide, di grande raffinatezza anche nei dettagli. Datato tra il 530 e il 520 a.C., il sarcofago mostra caratteri stilistici propri di quella corrente artistica cosiddetta ionica che, avviata da artigiani provenienti dalle città greche dell’Asia minore, domina in Etruria nella seconda metà del VI secolo.
    Da Veio, in terracotta policroma risalente anch’essa al VI secolo avanti Cristo provengono la statua di Apollo e quella di ercole, affrontati nella contesa per la cerva cerinite dalle corna d’oro sacra ad Artemide/Diana, che costituisce una delle dodici fatiche di Ercole.

    Sette Contro Tebe (frammento) – Pyrgi

    Le statue facevano parte dell’apparato decorativo del tempio di Apollo. Di questo complesso decorativo facevano parte anche una statua di Hermes/Mercurio di cui giunge una splendida testa, e Latona con il piccolo Apollo in braccio, rappresentata forse nell’atto di colpire il serpente pitone per allontanarlo da Delfi.
    Da Pyrgi, l’antico porto di Cerveteri, proviene l’altorilievo in terracotta con la raffigurazione dei mito dei Sette contro Tebe, risalente al V secolo avanti Cristo e facente parte della decorazione del così detto tempio A dedicato a Leucotea – Ilizia, ovvero l’etrusca Uni.
    Dal così detto tempio B di Pyrgi provengono anche le lamine d’oro risalenti alla fine del VI secolo avanti Cristo, che costituiscono la più antica fonte storica dell’Italia preromana. Due delle lamine sono in lingua etrusca, mentre la terza è in fenicio. Il testo etrusco più lungo e quello fenicio hanno lo stesso contenuto pur non essendo l’uno la traduzione letterale dell’altro. Questa coppia di lamibe è un documento importante per la comprensione dell’etrusco.

    Lamine d’oro – Pyrgi

    Le due lamine riportano la dedica di un “luogo sacro” alla dea fenicia Astarte, assimilata alla dea etrusca Uno, da parte di Thefarie Velianas, che il testo fenicio designa re di Caere. Segue nell’iscrizione fenicia la motivazione della dedica: in ringraziamento dell’aiuto ricevuto dal donatore tre anni prima, in occasione della sua ascesa al potere. Nell’iscrizione etrusca più breve è ricordato lo stesso personaggio per alcune azioni rituali nel medesimo luogo sacro.

    Roma, 9 febbraio 2019

  2. Articolo

    Quelle piccole, grandi storie popolari

    di Paolo Mattei

    Tratto dal mensile “30Giorni” pubblichiamo il dialogo che Paolo Mattei realizzò con padre Virgilio Fantuzzi, critico cinematografico della “Civiltà

    Don Pietro Pellegrini (Aldo Fabrizi) con Marcello (Vito Annichiarico) figlio della Sora Pina.

    Cattolica”, che parla dei luoghi in cui fu girato ”Roma città aperta”, e che ricostruisce quella realtà brulicante di vita e di racconti che ispirò il film capostipite del neorealismo italiano. L’articolo fu pubblicato nel numero 07/08 del 2001.

    Tre amici, nel luglio 1944, si ritrovavano abitualmente a mangiare in una trattoria nei pressi di via del Tritone, al centro di Roma. Si raccontavano storie della vita, storie di guerra e di resistenza. Da qualche giorno nella capitale erano giunti gli Americani e il cammino dei liberatori proseguiva verso il Nord, dove i combattimenti e la resistenza continuavano.

    continua…
  3. Il bello dell’architettura

    L’architettura tra funzionale, bello, utile e visione. Dalle piramidi al bosco verticale ce lo racconta Federico Cellini, architetto.

    Una “passeggiata” commentata nel tempo e nello spazio alla ricerca di motivazioni estetiche. Un’arte difficile quella dell’Architettura, in cui “Bello” e “Brutto” si intrecciano a funzioni destinate a tutti. Diventando di volta in volta luogo delle meraviglie o “ecomostro”.
    Da che la storia è tale, gli architetti hanno cercato di ottenere la perfezione dandosi delle regole spesso con la presunzione di renderle assolute, legandole a variabili indipendenti: la geometria, gli elementi costruttivi, la tecnica, i materiali, il colore e poi ancora la tradizione, la religione, il potere, l’universo e il corpo umano. Da Vitruvio a Le Corbusier passando attraverso Leon Battista Alberti e Palladio, il successo di un’opera architettonica, in quanto artistica, ha una componente irrazionale che investe non solo il gusto e la cultura dell’osservatore, pittura e scultura, o l’attitudine all’armonia sonora dell’ascoltatore, musica, ma anche la corretta risposta alla destinazione d’uso. La soddisfazione come opera d’arte non necessariamente è di chi osserva l’edificio ma anche di chi usufruisce dei suoi spazi e del committente, sovente non riuniti in una unica entità. Mostrare al mondo il proprio successo era imperativo per la famiglia Rucellai commissionando il palazzo fiorentino all’Alberti. Come pure cinquecento anni dopo farà il regime del Ventennio obbligando spesso con scarso successo ad architetti recalcitranti il linguaggio aulico dell’impero. L’evoluzione tecnica ha permesso soprattutto negli ultimi centocinquanta anni di rispondere ad esigenze nuove: l’automobile, con spazi e servizi a essa connessi, ha portato a nuove forme. Ad esempio, il raggio di sterzata ha dato spunto a Le Corbusier per modellare la pianta di Villa Savoy. La struttura a telaio, grazie al calcestruzzo armato e

    Palazzo Ruccellai – Leon Battista Alberti – Firenze.

    all’acciaio, ha svincolato le piante dagli alzati e le facciate dalle aperture. Permettendo aggetti, curve e superfici vetrate; lo sviluppo economico che ha permesso l’ingresso del televisore in ogni casa ne ha determinato una nuova distribuzione funzionale diventando, il video, il moderno caminetto attorno al quale ruotano stanze da letto di dimensioni essenziali. Le superfici ad armadio sono decuplicate in cento anni e oramai si è arrivati al rapporto “uno” tra stanze da letto e bagni; la telematica sta portando alla creazione di postazioni lavoro domestiche mentre i costi dei terreni, anche in termini ecologici, saranno tali che si dovranno pensare case con vani “multifunzione”. Le Architetture fantastiche dei collages di Archigram saranno da rivalutare all’interno di città semoventi…. Oppure, gli architetti cercheranno di inserirsi – se non addirittura sovrapporsi – a un tessuto edilizio esistente in cui la funzione nuova sarà sviluppata in linguaggi tradizionali. Dove le forme saranno riconoscibili in quanto frutto di evoluzioni “dialettali”. Nel momento in cui si cala un’opera architettonica in un contesto, si agisce su una scala maggiore dell’edificio stesso, come un sasso in uno stagno e la scelta è sempre tra il “piegarsi” o il “piegare”: come Antonio da Sangallo il Giovane fa il vuoto attorno a Palazzo Farnese creando una piazza ad esaltazione de “il dado”, così

    Villa Savoy – Le Corbusier.

    soprannominato dai romani. Pressochè in contemporanea, Baldassarre Peruzzi modella la facciata di Palazzo Massimo alle Colonne su una curva creando un prospetto dinamico e modernissimo. Il movimento, la velocità, il rapporto tra spazio tempo non è solo appannaggio della relatività einsteiniana o dei futuristi ma è pane che quotidianamente mangiamo e che gioco forza ci porterà a rivedere concetti estetici. I cui semi, gettati dai Maestri dell’Architettura, stanno già germogliando.

    Roma, 2 febbraio 2019

  4. Santa Prassede. Il Giardino del Paradiso.

    Parallela a via Merulana, corre, prossima a Santa Maria Maggiore, via di Santa Prassede. Sulla destra, un muro e una porta anonima costituiscono l’ingresso alla chiesa di Santa Prassede, che conduce direttamente alla navata destra di un luogo di indicibile bellezza.

    Santa Prassede – Interno.

    Questa straordinaria testimonianza dell’ecclesia romana dell’Alto Medioevo si annuncia con un protiro a due colonne e timpano nella stretta e buia via di San Martino ai Monti, che è una parte dell’antica via Suburra. Vicina alla chiesa è pure l’alta casa – ogni secolo l’aggiunta di un piano – dove visse il secentesco pittore bolognese Domenico Zampieri, detto Domenichino.
    Pur rimaneggiata, la chiesa conserva il suo splendore di linee e colori: mosaici del secolo IX, pitture del XVI, cassettoni policromi del soffitto, bellissimo pavimento rifatto alla maniera dei Cosmati.
    E’ vero che si entra da un ingresso laterale, ma conviene portarsi subito al fondo della chiesa dove si apre un quadrato cortile che fece parte della navata principale della basilica paleocristiana e che divenne atrio nel rifacimento generale dell’edificio curato da papa Pasquale I nel secolo IX. La semplice facciata in mattoni è proprio quella che disegnò il papa Pasquale I e qui si trovano le colonne superstiti che probabilmente facevano parte della basilica sorta nel V secolo dopo Cristo e vi si apre uno scuro voltone che corrisponde all’ingresso principale.
    La tradizione vuole che proprio qui, dove oggi sorge la chiesa, la martire Prassede raccogliesse il sangue dei martiri caduti per la fede, in un pozzo. Il luogo è oggi indicato da una rota, un grosso disco, di porfido rosso, incastonato nel pavimento in stile cosmatesco. Questo pozzo cadeva nella estesa proprietà della famiglia di Prassede, e oggi gli studiosi tendono a collocare la casa di famiglia vera e propria in corrispondenza della vicina chiesa dedicata a Santa Pudenziana.

    Santa Pudenziana raccoglie il sangue dei martiri.

    La chiesa dedicata a santa Prassede ha origini molto antiche. E’ attestato che attorno alla basilica di Santa Maria Maggiore sorsero molte chiese, tra cui, come riportato da una lapide del 491, un titulus Pudentis, temine con cui si indica il fatto che la casa del senatore cristiano Pudente, che si convertì tra i primi al cristianesimo grazie a San Pietro, fosse stata, in tutto o in parte, trasformata in luogo di culto cristiano. Sempre la tradizione vuole che, proprio qui trovasse ospitalità San Pietro, e che fu proprio quest’ultimo a somministrare il battesimo alle due figlie di Pudente: Prudenziana e Prassede.
    Pudente subì il martirio sotto Nerone, e, in seguito a ciò, Prassede e Pudenziana, con il consenso di Papa Pio I, fecero costruire, 142 – 145, un battistero per i nuovi cristiani all’interno della loro proprietà di famiglia. Le due sorelle, Pudenziana e Prassede, operarono, quindi, durante la persecuzione di Antonino Pio, e fu proprio questa loro attività a causare il loro martirio. Alla morte di Pudenziana, Prassede utilizzò il patrimonio della sua famiglia per costruire una chiesa sub titulo Praxedis. Nascose molti cristiani perseguitati, quando questi, furono scoperti e martirizzati, raccolse i corpi per seppellirli nel cimitero di Priscilla, sulla Via Salaria, dove anche lei trovò sepoltura insieme alla sorella e al padre. Il Liber pontificalis ci informa che papa Adriano I verso il 780 rinnovò completamente ciò che restava del titulus Praxedis.

    Il pavimento in stile cosmatesco della chiesa di Santa Pudenziana.

    La chiesa attuale venne completamente ricostruita nell’822 da papa Pasquale I, in occasione della traslazione dei resti di duemila martiri dalle catacombe, ormai definitivamente esposte alle impunite incursioni saracene nella campagna romana.
    Una scalinata portava all’atrio; qui si alzava la semplice facciata romanica quale ci appare oggi, salvo l’aggiunta dell’equilibrato portale collocato nel 1560 da san Carlo Borromeo, titolare della basilica.
    L’interno conserva sostanzialmente la foggia della chiesa del secolo IX, con le tre navate basilicali divise da antiche colonne di granito che reggono un architrave di spoglio, con l’arcone trionfale e l’abside luccicante di mosaici. Coppie di pilastri intercalati alle colonne sorreggono tre grandi archi trasversali aggiunti per rinforzo nel secolo XII e irrobustiti nel XVI, mentre sulle pareti della navata mediana grandi pannelli manieristici dal festoso colore raccontano le storie della Passione.
    Interessante è il pavimento in stile cosmatesco, realizzato nel corso di restauri condotti da Antonio Muñoz nel 1917. La fredda levigatezza del marmo segato a macchina e l’estrema precisione dei bordi delle pietruzze denunciano l’opera moderna, che è comunque di ottimo gusto per quanto attiene al disegno e alla scelta dei colori.

    Arcone dell’abside di Santa Praseede.

    Nel Settecento, il cardinale Ludovico Pico della Mirandola fece trasformare e ampliare il presbiterio occupando lo spazio del transetto e portando avanti l’ingresso della “confessione”. Questa ha nel fondo un antico affresco della Madonna Regina fra le Sante Prassede e Pudenziana, e un paliotto cosmatesco; un corridoio d’accesso è affiancato da quattro bellissimi sarcofagi strigilati e sovrapposti a coppie, contenenti reliquie di martiri, uno è dedicato alle spoglie delle due sorelle martiri. Una scritta racconta come qui Giovan Battista De Rossi, il padre dell’archeologia cristiana, avvertì l’ispirazione a dedicarsi al recupero dei cimiteri sotterranei.
    Dai due lati della confessione si sale al livello del presbiterio mediante ampie scale con gradini in splendido marmo rosso antico, tanto apprezzato che, al tempo del Dipartimento del Tevere, si era progettato di asportarlo per utilizzarlo a Parigi nel trono di Napoleone.
    Nel presbiterio si notano le due transenne laterali che reggono le cantorie, costruite da tre colonne ciascuna, il cui fusto è suddiviso in rocchi da corone d’acanto. Tutta la sistemazione del presbiterio è settecentesca, come lo è il mosso baldacchino di Carlo Fontana, che riutilizzò le quattro colonne di porfido di quello originario.
    Nell’abside, gli apostoli Pietro e Paolo presentano le due sorelle al Cristo dominante al centro, mentre Pasquale I offre il modellino della chiesa. L’intera composizione è ispirata da quella dell’abside dei Santi Cosma e Damiano.

    Giulio Bargellini in Santa Prassede.

    In basso, con il motivo del fiume Giordano, c’è una teoria di pecorelle. Nell’arco absidale una serie di “seniori” dell’Apocalisse tendono all’Agnello mistico le loro corone di gloria. Nell’arco trionfale torme di eletti sullo sfondo dei cieli sono accolti dagli angeli nella Città celeste.
    Tuttavia le più alte emozioni sono riservate dalla Cappella di San Zenone detta anche Giardino del Paradiso che Pasquale I eresse a metà della navata destra come mausoleo della madre Teodora: si tratta della più significativa testimonianza della cultura artistica bizantina che sia rimasta a Roma, come documento della lunga fase di predominio politico e culturale dell’Oriente.
    Introduce alla cappella un arco con decorazione musiva cui si sovrappongono due colonne di granito nero sorreggenti un meraviglioso architrave. Su di esso poggia una grande e pregevole urna funeraria.

    Cappella di San Zenone – Soffitto.

    L’interno è degno del nome “Paradiso” che si dà alla cappella. Idealmente poggiando su quattro colonne collocate negli angoli del piccolo vano quadrato, quattro angeli in mosaico con le braccia alzate reggono al centro della volta tutta d’oro un tondo col volto di Cristo. Altri mosaici sono nelle lunette e sull’altare dove è collocata l’antica immagine di Santa Maria liberaci dalle pene dell’inferno. Molto interessante è il pavimento, coevo alla costruzione della cappella e quindi esempio di transizione tra l’antico opus sectile marmoreum e i lavori che i marmorari romani cominciarono ad eseguire nel secolo XI.
    In una attigua piccola cappella, viene conservata la colonna detta della Flagellazione, un piccolo tronco di diaspro sanguigno che il cardinale Giovanni Colonna portò da Gerusalemme nel 1223. In un’altra cappella, pure vicina a quella di San Zenone, si trova una bella tomba quattrocentesca della scuola di Andrea Bregno; in un pilastro di fronte è il primo monumento funebre realizzato dal giovanissimo Gian Lorenzo Bernini.
    Interessanti sono le Cappelle Borromeo e Olgiati che si aprono nella navata di sinistra. In fondo alla navata destra, tombe e marmi della chiesa preesistente. In sagrestia, belle tele di cui una Flagellazione già attribuita a Giulio Romano e una impressionante Deposizione di Giordano De Vecchi.

    Roma, 2 febbario 2019