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  1. Giacomo Balla al Museo Bilotti di Villa Borghese

    Il Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese, situato nel cuore del grande parco romano, è il luogo ideale per accogliere questa mostra

    Villa Borghese dal balcone – Giacomo Balla.

    antologica di Giacomo Balla, incentrata esclusivamente sul tema della Villa Borghese stessa, tema più volte affrontato dal pittore nel suo primo periodo di permanenza a Roma. La mostra permette, quindi, di conoscere, indagare e studiare il pittore forse meno noto, quello che dipinge prima di FuturBalla, ovvero del Balla futurista.
    Giacomo Balla si trasferisce a Roma con la madre Lucia Giannotti nel 1895, allontanandosi dalla sua città natale, Torino. Per il primo anno è ospite dello zio paterno Gaspare Marchionne Balla, residente al Quirinale in quanto Guardiacaccia di Sua Maestà il Re. Di qui va a vivere in via Piemonte 119, entrando in contatto con Alessandro Marcucci, Duilio Cambellotti e Serafino Macchiati. Conosce così Elisa Marcucci, sua futura moglie, che sposa in Campidoglio nel 1904.
    I coniugi Balla andranno a vivere nel quartiere Parioli, in un convento situato tra via Parioli, oggi via Paisiello, e via Nicolò Porpora. All’interno del fabbricato, di proprietà dei Sebastiani, grazie all’interessamento del sindaco Nathan, la famiglia Balla dispone di un appartamento con un lungo balcone che dà direttamente sugli spazi verdi di Villa Borghese, più volte ritratto in dipinti anche successivi al periodo futurista.

    Maggio – Giacomo Balla.

    Sarà proprio dal balcone di questo appartamento che nasceranno una parte cospicua delle opere presentate in mostra, opere che sono indagine sulla natura e sul rapporto natura – città, un tema caro ai pittori italiani degli inizi del Novecento, testimoni della trasformazione che stava subendo il paesaggio urbano. Si può affermare, quindi, che il tema della natura ai confini della città, è per Balla ciò che è per Paul Cézanne la Montagne Sainte-Victoire: materia da indagare, da provare e riprovare, da scarnire fino all’astrazione.
    Ma a Roma in questo momento la natura è ancora fortemente presente nell’orizzonte e nella prospettiva della città, e Balla ne fa oggetto della sua indagine, insieme alla luce. Indagine quest’ultima, a tratti quasi ossessiva. Una luce, analizzata e studiata in ogni suo aspetto a testimoniare l’interesse di Balla per la fotografia, interesse che è un interesse d’infanzia mediato dal padre fotografo dilettante.

    Autoritratto notturno – Giacomo Balla.

    E’ questo interesse a guidarlo e a fargli incontrare prima il mondo del Divisionismo, ancora a Torino incontrerà Pellizza da Volpedo, e a utilizzare in pittura delle luci dal vivo che sono luci fotografiche e che nella mostra al Museo Billotti sono esemplificate, tra le altre, dalle opere a pastello, una delle tecniche utilizzate all’inizio dal pittore, in cui la luce viene rappresentata da tratti istantanei di colore apparentemente fuori

    Alberi e siepe a Villa Borghese – Giacomo Balla.

    contesto, ma che sono utili a Balla per mostrare gli effetti della luce e del colore, nell’interazione naturale di un campo aperto. E lì dove viene usata una tecnica più “convenzionale” come la tela e l’olio, Balla non può esimersi dal rendere l’immediatezza della luce colpendo la tela con il retro del pennello, asportando e graffiando la tela. I graffi sono evidenti e chiari in primo piano, ad esempio, nell’opera Villa Borghese dal balcone del 1907.
    Non è un caso perciò che nel dipanarsi della mostra insieme all’opera di Balla vengano presentati gli scatti del fotografo Mario Ceppi realizzati negli stessi luoghi dei dipinti in mostra. I sei scatti esposti hanno “lo stesso taglio fotografico delle opere realizzate da Giacomo Balla”, spiega la curatrice della mostra, Elena Gigli. “Siamo andati in giro per Villa Borghese per ritrovare le stesse costruzioni, gli stessi momenti, gli stessi alberi che l’artista ha ritratto”. La ricerca è una ricerca importante perché anche la Villa nel tempo si è trasformata, ma ciò nonostante, è stato possibile riconoscere, all’interno del Museo Pietro Canonica, un albero ritratto nei pastelli di Balla esposti in mostra.

    L’ortolano – Giacomo Balla.

    Un altro aspetto che emerge dalla mostra è il rinnovato interesse degli artisti del primo Novecento italiano, e anche di Balla, per il trittico, una modalità compositiva molto in uso in periodo Medievale.
    Balla però non ritrae solo ciò che vede dal balcone di casa. La sua indagine sulla natura e la luce lo porta a scendere e passeggiare per i viali della Villa andando a scovare scorci particolari, reperti archeologici e anche pietre che vengono trattate come se fossero i personaggi principali di una storia. Nel dipinto che mostra una delle fontane di Villa Borghese l’acqua che zampilla è resa asportando il colore con energia utilizzando proprio il manico del pennello.
    A Roma, di fatto, Balla si muove in un ambito culturale che fa riferimento al socialismo umanitario e al positivismo scientifico ed è anche per questo motivo che l’interesse dell’artista non è solo per il paesaggio urbano, ma anche per la condizione umana, indagata a fondo nel ciclo Dei viventi tra il 1902 e il 1905, di cui anche in mostra troviamo alcuni esempi che includono non solo soggetti del mondo comune, ma anche gli affetti familiari, porti al visitatore con un realismo poetico, e i ritratti

    Ritratto di donna e due paesaggi – Giacomo Balla.

    commissionati dal mondo della borghesia romana, a cominciare dal sindaco Nathan. Anche in questi ritratti emerge la ricercatezza delle inquadrature e colpisce la posa dei soggetti che è tipica delle fotografie, ad esempio con la scelta di tagli ravvicinati, o di questa peculiare modalità di utilizzare la luce come nel caso dell’Autoritratto notturno del 1919, in cui la luce colpisce il volto del pittore quasi abbagliandolo e mettendo in risalto gli occhi chiari, che diventano magnetici per chi osserva il dipinto.

    Roma, 25 gennaio 2019

  2. Il Monte de’ Cocci a Testaccio

    È certamente la più curiosa delle alture di Roma. Ai Sette Colli originari, l’espansione edilizia degli ultimi due secoli ha aggiunto molte altre colline;

    Il Monte dei Cocci in una ripresa aerea.

    e a tutte queste vanno aggiunti quelli che si possono definire i «monti archeologici»: modesti dislivelli provocati dall’accumulo di residui di antichi edifici quali il Monte Giordano, Monte Savello, Monte Citorio e Monte Cenci. Tuttavia Monte Testaccio, che è anch’esso un’altura artificiale, ha ben differente origine.
    Infatti, con la sua altezza di 54 metri sul piano circostante e con il suo perimetro di circa un chilometro, il Monte dei Cocci altro non è che un accumulo di anfore abbandonate e sistematicamente ammucchiate in un ben definito luogo di scarico. Dalla fine dell’età repubblicana a quella imperiale, il naturale approdo sul Tevere venne trasformato in un vero e proprio porto mercantile detto Emporium, grazie all’azione di due edili nel 193 avanti Cristo, Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo. Il porto fu dotato di horrea, ovvero di un esteso sistema di magazzini, di cui faceva parte anche la Porticus Aemilia i cui resti oggi possono essere visti tra gli edifici del quartiere Testaccio.

    Una ricostruzione degli horrea.

    Le operazioni di smistamento avvenivano nei pressi del porto. Le merci che potevano essere conservate venivano inviate ai magazzini, altre raggiungevano le botteghe della città dopo essere state spostate in anfore di dimensioni ridotte che potevano essere caricate sui carri, rispetto a quelle che venivano utilizzate sulle imbarcazioni provenienti dalle diverse aree di produzione.
    In particolare subivano questo trattamento le merci come l’olio, il vino e il pesce. Le anfore contenenti vino potevano essere riutilizzate in città, ad esempio per la raccolta delle urine necessarie per il funzionamento delle fulloniche, ma quelle contenenti olio e pesce no, e per questo le testae, anfore in latino, di risulta dovevano venivano accantonate con una particolare tecnica che prevedeva un regolare accatastamento dei cocci, frapponendo ai vari strati di materiale abbandonato degli strati di terreno e soprattutto calce che dessero consistenza alla costruzione, ed eliminassero il cattivo odore che si sarebbe generato dalla decomposizione dei residui organici.

    Zone di produzione di olio e grano nell’antica Roma.

    Un accumulo di tale entità e altezza fu reso possibile dalla presenza di una strada principale e di due stradelle che potevano essere percorse da carri trainati da muli ricolmi di cocci e di anfore frammentate. Funzionari chiamati curatores supervisionavano la rottura delle anfore e il loro trasporto fino alla cima della collina.
    Ma questa, che è a tutti gli effetti una enorme discarica, conserva al suo interno moltissime informazioni archeologiche, che investono diversi ambiti della ricerca storica. Ad esempio, attraverso i tituli picti, note scritte a pennello o a calamo con il nome dell’esportatore, indicazioni sul contenuto, i controlli eseguiti durante il viaggio, la data consolare, e che si ritrovano sulle anse, è stato possibile ricostruire non solo le vie dei commerci, ma anche la struttura stessa della catena commerciale e le relative regole. Le informazioni contenute nei tituli picti hanno, quindi, contribuito a scrivere la storia del commercio nell’antica Roma.

    Bollo betico del III secolo dopo Cristo con riferimento ad una famiglia che commerciava in olio.

    Altre informazioni ricavate dagli studi, ancora in corso, sui cocci riguardano i cultivar di olivo che venivano utilizzati in epoca romana e la provenienza dell’olio, con una predominanza dell’olio spagnolo, soprattutto dalla regione della Betica, e dell’olio di origine africana.
    Ogni anfora conteneva circa 70 litri di olio importato dalla Spagna meridionale o dall’Africa del Nord e si è stimato che con le anfore accumulate a formare il Monte Testaccio siano stati trasportati a Roma circa 1,75 miliardi di litri di olio d’oliva, che veniva poi distribuito gratuitamente ai cittadini romani come parte del sussidio alimentare.
    E’ stato calcolato che il consumo di olio di oliva fosse di circa 50 litri pro capite all’anno, e bisogna immaginare che in ogni villaggio, città o accampamento dell’impero esistesse una montagnola di cocci di anfore d’olio simile a quella del Monte dei Cocci.
    I Romani furono i primi che fecero dell’olio un prodotto agricolo destinato alla vendita internazionale e alcun autori latini, come Catone e Columella, scrissero dell’olivo e della sua coltura, arrivando a identificare 20 cultivar diverse e a distinguerne i livelli di qualità: così l’oleum viride,

    Olive carbonizzate ritrovate a Pompei.

    l’olio verde preparato da olive acerbe era il migliore, seguiva poi l’oleum maturum, ovvero quello ricavato da olive mature, e infine c’era l’oleum cibarium preparato a partire da olive ormai guaste e che corrisponde al nostro olio lampante.
    Vasti oliveti vennero piantati dai Romani nell’Africa del Nord e accanto a questi sorsero enormi frantoi in grado di trattare enormi quantità di olive.
    Furono istituite borse merci in ciascun porto per fissare il prezzo dell’olio e si formare delle corporazioni per la sua commercializzazione. Si distinguevano: gli olearii, che erano dei venditori al dettaglio, i diffusores e i mercatores che invece operavano su scala più vasta.
    Un prodotto di tale importanza venne utilizzato come merce di scambio. Ad esempio Giulio Cesare volendo punire la città fenicia nell’attuale Libia Leptis Magna per aver preso parte alla resistenza contro  l’invasione romana, le inflisse di versare a Roma una quantità di olio di oliva pari a 1.067.800 litri.

    Torchio per olive del II secolo dopo Cristo – Volubilis – Marocco.

    L’olio divenne l’equivalente del petrolio di oggi. Settimio Severo, ad esempio, apparteneva ad una famiglia di Leptis Magna che si era arricchita proprio producendo e commercializzando olio, e poco dopo la sua ascesa al trono, chiese ai cittadini di Lepis Magna una donazione volontaria annua di un milione di libbre di olio di oliva, che poi egli distribuì gratuitamente al popolo della città di Roma.
    Si ritiene che il monte abbia funzionato come discarica per un lungo periodo di tempo, almeno dal 140 dopo Cristo fino alla metà del III secolo. Poi, nel corso dei secoli successivi, il motivo dell’accumulo dei cocci fu dimenticato, tanto da far sorgere intorno al colle numerose leggende per giustificare la sua origine: chi sosteneva fossero i risultati degli errori di lavorazione delle vicine botteghe di vasai, chi asseriva fossero i resti delle urbe cinerarie traslate dai colombari della via Ostiense, mentre una leggenda raccontava che la collina fosse stata formata dei resti del grande incendio di Roma nel 64 dopo Cristo. Per secoli il monte fu ignorato dall’iconografia urbana probabilmente poiché a causa del suo utilizzo come discarica non era ritenuto meritevole di particolare menzione. Il nome mons Testaceum appare per la prima volta in un’iscrizione databile al VII secolo circa, conservata nel portico della chiesa romana di Santa

    Una bottiglia di olio e un pane carbonizzato provenienti da Pompei.

    Maria in Cosmedin mentre l’originario nome di epoca romana è ignoto.
    Sfruttate per secoli sono state le proprietà isolanti dell’argilla di cui il monte risulta costituto. Così lungo le pendici del colle artificiale sono state scavate numerose grotte al cui interno la temperatura si attesta tutto l’anno intorno ai 10°C. I locali scavati tra i cocci vennero adibiti a cantine, dispense e stalle e successivamente, a partire dal Medioevo, furono sede di osterie. In epoca più moderna i grottini furono adibiti a ristoranti e locali notturni.
    Probabilmente per la sua posizione decentrata rispetto alla città il Monte dei Cocci venne, sin dal Medioevo, utilizzato quale scenario per alcuni momenti del Carnevale Romano, costituiti da giochi crudeli e cruenti a carico di animali. Si allestivano qui infatti delle vere e proprie tauromachie, di cui la più popolare era la così detta “ruzzica de li porci”.

    La Ruzzica de li porci a Monte Testaccio.

    In questa occasione carretti di maiali vivi venivano lanciati giù dalla collina e quando si sfracellavano in basso il popolo dava la caccia ai frastornati animali. Dal XV secolo, trasferito il carnevale in via Lata per volontà di papa Paolo II, il monte divenne il punto di arrivo per la Via Crucis del Venerdì Santo, trasformandosi in un vero e proprio Golgota. Il corteo in questo caso partiva da una casa oggi scomparsa a Via Bocca della Verità, che ancora nell’Ottocento conservava il nome di “Locanda della Gaiffa”, quindi passava per la casa dei Crescenzi che diveniva la casa di Pilato, proseguiva per Santa Maria in Cosmedin, e attraversando l’arco di San Lazzaro, arrivava sulla cima del monte dove veniva simulata la crocifissione di Cristo e dei due ladroni.
    Più tardi sarà meta privilegiata delle “ottobrate romane”, le tipiche feste romane, che vedevano sfilare verso le osterie e le cantine del Testaccio i carretti addobbati a festa delle “mozzatore”, le donne che lavoravano

    Il poeta improvvisatore a Testaccio nel mese di Ottobre – Bartolomeo Pinelli.

    come raccoglitrici d’uva nel periodo della vendemmia: tra canti, balli, gare di poesia, giochi e chiacchiere, ci si rinfrancava dal lavoro e soprattutto si “innaffiava” il tutto con il vino dei Castelli Romani, conservato nelle cantine scavate alle pendici del monte. Un esplicito riferimento a monte Testaccio è contenuto nella novella El licenciado Vidriera dello scrittore Miguel de Cervantes raccolta nell’opera Novelle esemplari pubblicata nel 1613. «Cosa volete da me ragazzi, testardi come mosche, sporchi come cimici, coraggiosi come pulci? Sono forse io il Monte Testaccio a Roma che mi gettate contro cocci e tegole?»
    Occorre tuttavia attendere fino al settecento perché al monte e ai reperti lì accatastati venga riconosciuto valore archeologico: l’abitudine dei romani di prelevare materiale dalle pendici del colle stava mettendo in pericolo l’abitabilità dei locali sottostanti tanto da muovere le autorità, nel 1742, a emettere un editto a tutela «…di un’antichità così celebre». A tale divieto, per le stesse motivazioni, si aggiunse due anni dopo la proibizione di pascolare armenti sul monte Testaccio.

    Ottobrata a Testaccio – Bartolomeo Pinelli.

    Le prime organiche ricerche archeologiche sul monte furono condotte a partire dal 1873 da Heinrich Dressel cui si deve la valorizzazione storica del sito e un imponente lavoro di catalogazione dei cocci e di classificazione delle anfore, sulla base dei bolli e dei tituli picti rinvenuti su alcuni di essi.
    Durante l’assedio di Roma del 1849, su monte dei cocci fu posizionata una batteria di artiglieria che da tale altezza prendeva agevolmente e insistentemente di mira i francesi accampati vicino alla Basilica di San Paolo fuori le Mura. Similmente, durante la seconda guerra mondiale, sulla cima del colle fu installata una batteria antiaerea posizionata su basamenti di cemento, i cui resti sono ancora visibili.

    Roma, 20 gennaio 2019

  3. Il Pigneto tra sviluppo industriale e neorealismo

    Il Pigneto è un quartiere di forma triangolare incuneato tra le due vie consiliari,

    Saracinesche - Pigneto

    Saracinesche – Pigneto

    la Casilina e la Prenestina, e serrato tra due bracci della linea ferroviaria, che ha inizio poco fuori da Porta Maggiore, nel quadrante Sud Est della città. Alla fine dell’Ottocento l’area, di circa 200 ettari, era ancora totalmente agricola e utilizzata per il pascolo con solo alcuni casali e qualche villa. Il terreno, fertile ma paludoso e ricoperto di fitti canneti, era per lo più costituito da una pineta abbastanza estesa da cui il quartiere trarrà il suo nome.
    Una volta diventata capitale, Roma ha la necessità di allinearsi alle grandi città europee e di dotarsi di una nuova scenografia architettonica e urbanistica, che comporterà sventramenti e abbattimenti di interi quartieri cresciuti su se stessi nel corso dei secoli, ma ha anche la necessità di identificare nuove aree adatte allo sviluppo industriale. Tra queste ultime il Pigneto sarà una di quelle fortemente investite dalla trasformazione.
    Prima lo Stabilimento Omnibus e Tramways, poi lo Scalo di San Lorenzo, quindi l’Istituto Farmaceutico Serono e la SNIA VISCOSA sono alcune delle tante realtà che andranno a posizionarsi in questo quadrante della città decretandone lo sviluppo urbanistico e il carattere, fortemente industriale e operaio.

    Alcune di queste realtà industriali saranno seriamente messe in crisi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e finiranno per scomparire dallo scenario produttivo della città e dell’Italia, come la SNIA VISCOSA. Altre giungeranno, adattandosi alle trasformazione dettate dai tempi, fino ai giorni nostri come l’Istituto Farmaceutico Serono e lo Stabilimento Omnibus e Tramways.

    Il lavoro in fabbrica - Cyop&Kaf

    Il lavoro in fabbrica – Cyop&Kaf

    Ma il Pigneto non è solo industria e operai. Nell’immediato Dopoguerra il Pigneto diventerà infatti vera e propria scenografia cinematografica: qui nascerà il neorealismo italiano.
    Quella forma espressiva cinematografica che si nutrirà disperatamente della realtà di una Roma capitale, e di un’Italia, emersa da una guerra che l’ha completamente devastata dal punto di vista sociale ed economico e che quasi senza accorgersene si troverà nel così detto boom economico, che forse altri tipi di devastazione compirà.
    Il primo film girato tra mille difficoltà economiche, pochissima pellicola, quasi nessuna risorsa tecnica subito dopo la liberazione con l’Italia del Nord ancora in mano ai nazi-fascisti è “Roma Città Aperta”. Le sue scene più significative, quelle che resteranno maggiormente nell’immaginario degli spettatori di mezzo mondo, saranno girate proprio al Pigneto.
    Quel cinema neorealista che parlerà con vigore della realtà emersa dalla guerra e di ciò che la guerra stessa ha significato per Roma e per l’Italia intera, muoverà i suoi primi passi proprio qui, avrà i volti degli abitanti di via Montecuccoli e dei passanti della Circumvallazione Casilina.
    Una manciata di anni dopo anche Pasolini, considerato a ragione il “cantore delle borgate”, colui che nel bene e nel male ha dato visibilità e voce a una vasta parte della popolazione che dopo la guerra si trovava a vivere ai margini sociali e politici di una Roma post bellica, utilizzerà il Pigneto, ma anche la vicina Borgata Gordiani, come set per il suo primo film “Accattone”.
    La passeggiata ci permetterà di raccontare la storia dell’Istituto Serono e della lungimiranza e modernità del suo fondatore Cesare Serono.

    Maria - Mr Klevra

    Maria – Mr Klevra

    Ci darà modo di confrontare i luoghi di ieri, così come ce li restituisce il ricordo non sempre vivo di film come “Roma Città Aperta” ed “Accattone”, con quelli di oggi e ci offrirà anche la possibilità di raccontare la storia di un altro film di Pasolini: “Il Vangelo Secondo Matteo”.
    Il film del 1964, trasposizione puntuale del Vangelo dell’apostolo Matteo, trova sui muri del Pigneto un piccolo omaggio, realizzato in occasione del cinquantennale.

    La passeggiata si concluderà al Parco delle Energie, ovvero alla ex SNIA VISCOSA dove la storia della realtà industriale si salda con la realtà di oggi: un parco urbano difeso dalla speculazione edilizia anche grazie alla presenza del Centro Sociale che è stato ed è uno dei più importanti baluardi anche del laghetto riemerso nel 1990 proprio all’interno dell’area di 14 ettari dell’ex stabilimento industriale.

    Per una galleria fotografica…..

  4. Pietro Canonica: l’artista degli “umili eroi” della guerra.

    Dopo quelle di Goethe e dello scultore Hendrik Christian Andersen, è la volta del Museo Pietro Canonica a Villa Borghese, detta anche La Fortezzuola, un’altra bellissima casa d’artista a Roma.

    Pietro Canonica nel suo studio.

    Pietro Canonica può essere considerato, senza dubbio, uno dei maggiori rappresentanti dell’estetica post unitaria italiana, figlio di un Piemonte che aveva mosso verso Roma per contribuire a trasformare, per molti, “a sfigurare”, il volto dell’Urbe.
    La casa-atelier di Canonica è un singolare edificio che deve il nome de La Fortezzuola alla sua particolare foggia: una sorta di cittadella di ispirazione medievale, risultato della trasformazione architettonica operata sul finire del secolo Diciottesimo, da Antonio Asprucci per volere di Marcantonio IV Borghese, che portò il così detto Terzo Recinto della villa barocca ad essere uno dei primi giardini neoclassici della città di Roma. Il Gallinaro seicentesco, dove Scipione Borghese esibiva la sua collezione di pavoni, struzzi e anatre, già citato nella guida di Jacopo Manilli, diviene quindi la Fortezzuola che, nell’Ottocento, è adibita a sede di uffici amministrativi e, dopo l’acquisizione della Villa da parte del Comune e la sua conseguente apertura al pubblico all’inizio del

    La Fortezzuola, l’Umile Eroe e l’Alpino.

    Novecento, ospita ancora uffici, e rimesse. Questo è il suo utilizzo fino al 1919, quando viene abbandonata a seguito dei danneggiamenti subiti a causa di un incendio. Nel 1927 l’edificio è concesso in uso allo scultore Pietro Canonica, il quale, sistemandolo e decorandolo a proprie spese, si impegna a donare alla città le sue opere, primo nucleo dell’attuale museo.
    Canonica passerà in questa casa studio gli ultimi ventidue anni della sua vita, alla morte verrà seppellito nella piccola chiesa di Santa Maria Immacolata, proprio quella che si trova di fronte alla Fortezzuola, sempre all’interno della Villa Borghese.
    Canonica è poi una sorta di bambino prodigio: aiutante a soli dieci anni di Luca Gerosa, a undici iscritto all’Accademia Albertina di Torino, allievo di Enrico Gamba e di Odoardo Tabacchi, lo scultore intraprende precocemente un’attività artistica che sarà lunga e prestigiosa. Egli, infatti, sarà presente a importanti esposizioni nazionali e internazionali, Torino, Milano, Parigi, Venezia, Londra, Berlino, Monaco, Dresda, Roma, Bruxelles, Pietroburgo, riceverà riconoscimenti ufficiali e si affermerà negli ambienti dell’alta aristocrazia italiana e straniera.

    Modello del monumento a Nicola Nicolajevich – Pietro Canonica.

    Abile modellatore della materia, lavora con passione a monumentali opere celebrative, ma scolpisce anche ritratti per l’aristocrazia di tutta Europa che lo apprezza e lo impegna continuamente. In questo filone di opere la sua fama si consolida quando realizza per lo zar Nicola II e la zarina Alexandra Feodorovna ritratti e opere monumentali per tutta la famiglia. Nicola II commissiona a Canonica due grandi opere celebrative: il monumento al granduca Nicola Nicolajevich e il monumento allo Zar Alessandro II. Entrambe le opere verranno distrutte durante la Rivoluzione Bolscevica del 1917 – 1918, e ne rimane traccia solo grazie a due modelli a dimensione naturale conservati proprio presso il museo di Villa Borghese.
    Analoga sorte toccherà alla statua Re Faysal d’Iraq, di cui rimane il bozzetto esposto al museo, poiché l’opera venne distrutta durante la rivoluzione in Iraq del 1958.
    Da suonatore amatoriale di pianoforte compose pure delle opere liriche tra le quali La Sposa di Corinto, da una ballata di Goethe, Medea, dalla tragedia omonima di Euripide, Sacra Terra ispirata all’Eneide di Virgilio, Miranda, ispirata a La Tempesta di Shakespeare.
    Il Museo Canonica conserva studi, bozzetti, modelli, originali e repliche; il percorso espositivo, organizzato in sette sale al piano terreno, offre una completa immagine dell’evoluzione creativa dell’artista e una esaustiva informazione sulle tecniche della scultura.

    L’Abisso – Pietro Canonica.

    Al pian terreno è anche lo studio, sul cui tavolo Canonica lascia gli arnesi del mestiere tra cui le spatole ancora sporche di creta e il Bozzetto del Monumento a Giovanni Paisiello, utilizzato per l’ultima opera, realizzata per la città di Taranto poco prima della morte.
    Muovendosi tra i tanti bozzetti esposti si può notare come Canonica fosse capace di adattare il suo linguaggio al soggetto da rappresentare: mentre i ritratti e i monumenti funerari mostrano, attraverso l’uso di linee flessuose, una chiara partecipazione emotiva, nella ritrattistica ufficiale e monumentale il gesto si fa più rigoroso e fermo, si potrebbe dire ufficiale.
    Al primo piano è visitabile l’appartamento, aperto al pubblico dal 1988, dopo la morte della moglie Maria Assunta Riggio; arredi di pregio, oggetti d’arte, un’interessante raccolta di dipinti, soprattutto dell’ottocento piemontese, in particolare Enrico Gamba, Giovan Battista Quadrone, Antonio Fontanesi, Vittorio Cavalleri, avvicinano al mondo privato di Pietro Canonica.
    Ad accogliere i visitatori all’esterno de La Fortezzuola due statue

    L’Umile Eroe – Pietro Canonica.

    particolarmente significative: il monumento all’ Umile Eroe, del 1940, e quello all’Alpino, che dal 1957 andò a far compagnia al primo.
    L’Umile Eroe è probabilmente l’unico monumento dedicato ad un mulo che un artista abbia mai realizzato. L’opera ricorda Scudela un mulo che faceva servizio sulle Alpi durante la Prima Guerra Mondiale, insignito della medaglia d’oro al valor militare. Scudela era il più resistente e coraggioso dei muli di una batteria di montagna che combatteva sulle Alpi nel 1915-18 e ogni giorno, per anni, aveva portato sulla groppa il suo cannoncino per gli aspri sentieri di montagna, sotto la neve e sotto il fuoco nemico, fedele compagno del suo alpino da cui era inseparabile e di cui sapeva comprendere al volo ogni gesto e ogni parola. Una mattina, durante un durissimo scontro, la batteria fu costretta alla ritirata e Scudella e il suo compagno umano vennero dati per dispersi. Al calar della notte il mulo raggiunse i resti del reparto, ma senza il suo compagno, di cui restava solo il cappello con la penna nera che riportò in dietro.
    Queste due sculture, insieme a molti dei bozzetti esposti e delle opere effettivamente realizzate, tra le quali i monumenti all’Artiglieria di Torino, ai caduti di Bene Vagienna, all’Alpino di Courmayeur, all’Arco della Vittoria di Bolzano, testimoniano la grande sensibilità dell’artista nei confronti della crudeltà della guerra.

    Monumento all’Artiglieria – Pietro Canonica.

    La partecipazione emotiva di Canonica all’ “inutile strage” è stato di recente approfondito per mezzo di una mostra intitolata “Realismo e Poesia. Lo sguardo di Pietro Canonica sulla Prima Guerra Mondiale”, organizzata nel 2017 presso la casa museo, è che ha permesso di anche nuove acquisizioni. Nell’ambito della mostra una sezione della mostra era dedicata ai muli, “umili eroi” dei conflitti mondiali, costituita da un’esposizione fotografica dal titolo “Muli e conducenti! Tutti presenti! 1872-1991: il legame tra muli e alpini attraverso 120 anni di storia”. L’intento di questa sezione era quello di arricchire il percorso espositivo con materiale che documentasse oltre al sacrificio degli uomini anche quello degli animali, silenziose vittime innocenti della Grande Guerra.
    Come si può dedurre guardando i tanti bozzetti dei diversi monumenti ai caduti realizzati da Canonica, la cruda realtà della guerra, con il suo carico di sangue e di dolore, la fatica delle marce nei ripidi sentieri alpini innevati, sono rappresentati dall’artista con uno sguardo più poetico che

    La Presa di Smirne – Pietro Canonica.

    retorico, nonostante la forte valenza celebrativa che i monumenti ai caduti dovevano comunque avere. Nel monumento all’Artiglieria, accanto al cavaliere che avanza impavido con sguardo terribile e consapevole, un misto di coraggio e di orrore, marciano gli ‘umili eroi’, i fedeli muli degli alpini, carichi di armi e provviste, protagonisti in prima linea al fronte. Ai soldati caduti, rappresentati nello scomposto abbandono della morte, Canonica proietta come sfondo il faro di Trieste, città simbolo dell’irredentismo anti austriaco, con il sole nascente, promessa di un nuovo domani.

    Roma, 15 gennaio 2019