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  1. Necropoli Ostiense

    Nell’area compresa tra la Rupe di San Paolo e l’ansa del Tevere si addensava una grande Necropoli le cui tombe si disponevano lungo la via Ostiense. L’area

    Lavori di sbancamento della Rupe di San Paolo. Si ringrazia Roma Sparita.

    sepolcrale era molto vasta e oggi resta in gran parte inesplorata, almeno per le zone che non sono andate perse nel passaggio tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento. Alcuni archeologi ritengono che quest’area andasse a fondersi con le poco distanti catacombe di Comodilla, dove oltre alla cappella dedicata alla patrizia romana, è presente la chiesetta dedicata ai due santi martirizzati proprio all’inizio di Via delle Sette Chiese, Felice e Adautto, qui sepolti.
    L’esteso sepolcreto assume poi una grande rilevanza, e successiva enorme espansione, dal momento in cui qui viene sepolto l’apostolo Paolo. Intorno a questo sepolcro, infatti, non solo i cristiani ci tenevano ad essere sepolti, ma si articolò pure una importantissima area di culto, che successivamente, in epoca costantiniana, portò alla costruzione della Basilica di San Paolo Fuori Le Mura.
    Le prime tombe vennero in luce nel 1700 con una delle prime sistemazioni dell’area di pertinenza della Basilica. Altri momenti di scavo furono nell’Ottocento, quando sulla Rupe di San Paolo venne realizzato un vero e proprio sbancamento necessario per collocare un collettore. Durante questo scavo ottocentesco moltissimi reperti sono andati perduti e non fu realizzata nemmeno una documentazione fotografica. Questi scavi furono seguiti da quelli condotti in occasione dell’allargamento della Via Ostiense tra il 1917 e il 1919, quando riemersero non solo nuove tombe, ma anche le decorazioni a stucco e ad affresco, i pavimenti a mosaico in ottimo stato di

    La necropoli Ostiense alla base della Rupe di San Paolo. Si ringrazia RomaSparita.

    conservazione, e anche alcuni oggetti di uso quotidiano. I reperti archeologici più significativi entrarono nelle collezioni archeologiche dei Musei Capitolini. Tali ritrovamenti costituirono un’importante testimonianza della popolazione che abitava questo settore della città dalla tarda età repubblicana al IV secolo dell’impero.

    Nel 2017 per decisione della Sovrintendenza capitolina lo studio dell’area archeologica è ripresa in collaborazione con gli antropologi del dipartimento dell’Università di Valencia, ed è stato avviato un nuovo programma di ricerca scientifica per scoprire, analizzare e catalogare i resti ossili combusti conservati ancora intatti all’interno delle olle cinerarie. La necropoli romana, infatti può ancora restituire importanti informazioni poiché copre un arco temporale che va dal II secolo avanti Cristo al IV secolo dopo Cristo e permette di leggere in maniera continua il passaggio dalla pratica della sepoltura per incinerazione a quella per inumazione.
    Il sepolcreto si sviluppa su tre piani principali con le tombe più antiche che occupano gli strati più profondi, costituite da una cella in blocchi squadrati di tufo, a quelle più recenti poste sopra alle prime, risalenti all’epoca imperiale, e costruite in laterizio. E’ identificabile anche un colombario.
    Le numerose iscrizioni funerarie rinvenute nell’area documentano l’appartenenza dei defunti a un ceto medio di artigiani e mercanti, spesso di origine servile, con nomi orientali o greci. Così, oltre a Giulia Fortunata, ricorrono nomi più orientaleggianti quali Selene e Cleopatra. E passeggiando tra i resti si notano affreschi colorati d’ogni tipo, dai più semplici ai più particolari. Si tratta di un’area interessantissima dal

    La necropoli di San Paolo

    punto di vista archeologico, forse una delle meglio conservate in tutta Roma.
    Dietro le grate emergono una gran quantità di loculi, edicolette, sarcofagi e casse. Un percorso accidentato tra spoglie e cinerari di schiavi e liberti. Stanno accanto ai loro gentilizi, con le loro età e mestieri. E invocano i Mani per scongiurare un trapasso funesto. Si affacciano su vicoli e stradine, vantando una certa dignità architettonica ed eleganza. Si tratta, perlopiù di tombe individuali e di corporazioni, le cui epigrafi implorano l’aldilà.

    A nord della necropoli, le tombe più antiche hanno le facciate in tufo accanto a quelle in laterizio di età imperiale. Nel piccolo ambiente sottostante la scala, ecco un pavone e accanto un Ercole nerboruto che riporta Alcesti fuori dalla morsa dell’Ade. Si tratta di un piccolo ambiente dipinto, nascosto nascosto tra le tombe del sottoscala. A pochi passi, si estende un’ampia area sepolcrale in opus reticolatum, tecnica muraria che si presenta in superficie con una disposizione di bozze e mattoni a reticolo in diagonale, dell’inizio dell’Impero.
    Al muro di recinzione sono addossati sepolcri di varia epoca. Quasi tutti – a fossa o terragni – appartenenti a schiavi e liberti, eccetto due a forma di edicola, una in marmo e l’altra in laterizio.
    Dalla parte opposta, due aree rettangolari con le pareti forate da nicchie sono riferibili a colombari. Il primo, vicino all’ingresso, è caratterizzato da un’elegante edicola che, sulla fronte incorniciata di serti di margherite, reca l’immagine di due leonesse che si avventano su una gazzella. Accanto, un piccolo pozzo.
    Alla gens Pontia, I secolo dopo Cristo, appartengono le olle funerarie con le relative iscrizioni.

    La necropoli Ostiense.

    Affacciati al tratto di collegamento con la via Ostiense si trovano altri colombari disposti in sequenza del I secolo dopo Cristo: tra di loro, colpisce quello di Livia Nebris, figlia di Marco, qui sepolta insieme con gli altri membri della famiglia. A fianco, una stanza trapezoidale è circondata da sepolcri a fossa, identificata come sede della famiglia che aveva costruito quei sepolcri per i propri congiunti.
    Purtroppo poco visibili i resti di riquadri pittorici con figurine volanti – grifi, pegasi e un’aquila – che si librano in fondali bianchi.

    Roma, 16 novembre 2018.

  2. Chiesa di San Giovanni a Porta Latina, la pittura medievale romana e la memoria dell’apostolo Giovanni

    Atmosfera rarefatta, verde diffuso, silenzio. Via di Porta Latina è tutto questo: un’area di Roma incantata, salvaguardata dalle costruzioni che invece sono cresciute

    San Giovanni a Porta Latina in una foto di fine Ottocento. Si ringrazia RomaSparita.

    al di là delle mura Aureliane, che in questo tratto – tra le porte Metronia, Latina e San Sebastiano – si sono conservate splendidamente.
    L’antica porta che dà il nome alla strada fu ristrutturata dall’imperatore Onorio, 384-423, ampliando quella originaria di Aureliano. Nell’elemento centrale dell’arco esterno si nota il monogramma di Cristo. In quello dell’arco esterno, la croce greca inscritta in un cerchio. Siamo in un’area di grande fascino, a due passi dal Sepolcro degli Scipioni, dalla Casa del Cardinal Bessarione e dal colombario di Pomponio Hylas.
    Appena oltrepassata Porta Latina, si erge, un elegante tempietto ottagonale isolato: è l’Oratorio di San Giovanni in Oleo, eretto dal prelato francese Beniamino Adam, auditore della Sacra Rota per la Francia al tempo di Giulio II, 1509, restaurato sotto Alessandro VII per cura del cardinale Francesco Paulucci, 1658, e sotto Clemente XI,1716. Sorge sul luogo ove, secondo tradizione, l’evangelista Giovanni uscisse illeso dal supplizio dell’olio bollente, il che gli valse salva la vita con l’esilio a Patmos. Una notizia trasmessa da Tertulliano, dice:
    «Quando gli apostoli dopo la Pentecoste si separarono, lui [Giovanni Evangelista] andò in Asia, dove fondò molte chiese. Quando l’imperatore Domiziano venne a conoscenza della sua fama, lo fece venire a Roma e lo fece buttare in un recipiente di olio bollente, immediatamente davanti alla porta Latina: ma Giovanni ne uscì illeso, come era rimasto estraneo alla corruzione della carne. L’imperatore, visto che anche così non desisteva dalla predicazione, lo mandò in esilio nell’isola di Patmos dove nella completa solitudine scrisse l’Apocalisse».

    San Giovanni a Porta Latina. Interno.

    L’attuale costruzione, rifatta sull’antica, è ritenuta di Bramante, ma l’elegante coronamento, con decorazione classicheggiante, e la sistemazione dell’interno è di Borromini. Sopra la porta che guarda verso Porta Latina è inserito emblema araldico di Alessandro VII Chigi; la porta del lato opposto reca lo stemma del prelato francese, col motto: AU PLAISIR DE DIEU, 1509.
    Di fronte, al di là del muro del Collegio Missionario dei padri Rosminiani, ecco un grosso nucleo di sepolcro antico. Dietro il collegio sorge, preceduta da un pittoresco e raccolto sagrato ombreggiato da un grande cedro e con un pozzo medievale tra due colonne, l’antica chiesa di San Giovanni a Porta Latina fondata da Gelasio I nel V secolo: la tradizione trova conferma nelle tegole del vecchio tetto, che portano stampigli dell’epoca di Teodorico, 495-526.
    Riedificata da Adriano I nel 772, fu restaurata nel 1191, anno in cui, sotto Celestino III, furono traslate qui le reliquie dei Ss. Gordiano ed Epimaco. Dei tempi di Adriano I è il parapetto esterno del pozzo che si trova nel sagrato, ornato di una rozza decorazione formata da due serie di infiorescenze che corrono orizzontalmente per tutto il corpo del pozzo. Sull’orlo, tutto intorno, appare un’iscrizione latina, certamente di epoca posteriore all’VIII secolo, che recita: «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». E le parole del profeta Isaia: «O voi tutti che avete sete venite alle acque». E contrassegnata dal nome dell’incisore: «Io Stefano».
    Originariamente la chiesa era tenuta da una congregazione spirituale dedita alla povertà ma nel tempo passò sotto diverse amministrazioni. Nei primi anni del Novecento, quando veniva amministrata dalle suore di clausura, le Suore Turchine della Ss. Annunziata, furono rinvenuti affreschi medioevali che diedero l’impulso ad un’opera generale di ripulitura.

    San Giovanni aPorta Latina, oggi.

    Un restauro fortemente voluto negli anni Quaranta dai Missionari Rosminiani, che hanno tuttora in carico sia la chiesa che il tempietto, ha ridato alla chiesa il suggestivo aspetto medioevale. Sul fronte, un portico a cinque arcate su antiche colonne marmoree e di granito con capitelli ionici, è addossato alla facciata, su cui, in alto si aprono tre finestre ad arco; incluso nel portico, a sinistra, si alza lo slanciato campanile romanico a sei piani con trifore. Sotto il portico e nell’interno del campanile, sono esposti lapidi e frammenti romani, lastre paleocristiane di recinto presbiteriale e resti di affreschi medioevali.
    L’interno conserva la semplice ed antica armonia di forme originaria, diviso in tre navate da due file di cinque colonne ciascuna di marmo diverso, sulle quali poggiano archi semicircolari. Intorno all’altare sono conservati avanzi di un pavimento cosmatesco a disegno geometrico mentre nella predella dell’altare stesso spicca in lettere capitali romane l’antico “titolo” della Chiesa, ritrovato durante gli ultimi restauri: “TIT. S.IOANNIS ANTE PORTAM LA(TINAM)”.
    Il ciclo di affreschi del XII secolo che decorano la navata centrale, rinvenuti durante il restauro del 1940, rappresentano 46 differenti scene del Vecchio e del Nuovo Testamento e rivestono una straordinaria importanza per lo studio dell’arte medioevale a Roma. Insieme con il salone gotico nel Monastero dei Santi Quattro Coronati, il ciclo di San Giovanni a Porta latina rappresenta uno degli esempi maggiori di pittura medievale a Roma, realizzati precedentemente all’importante periodo del Cavallini e della sua Scuola Romana.
    Al centro dell’arco trionfale è raffigurato il Libro dei Sette Sigilli, indice dei segreti nascosti di Dio, che doveva essere sorretto da una cattedra sormontata da croce gemmata; ai lati, due angeli in atteggiamento riverente e, dietro di essi, i simboli dei quattro Evangelisti. Sui peducci dell’arco sono dipinte due figure santi, identificate con Giovanni Evangelista, a destra, e Giovanni Battista. Il personaggio sulla destra sorregge un volume con l’iscrizione in principio erat Verbum, l’incipit del Vangelo di Giovanni. In alto corre una greca multicolore e prospettica interrotta da riquadri, nei quali si affacciano busti di angeli dalle mani velate. Una ghirlanda avvolta da un nastro chiude verticalmente i lati corti dell’arco. Le pareti laterali del presbiterio

    La creazione della donna – San Giovanni a Porta Latina.

    ospitano i ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse, genuflessi in direzione dell’abside e disposti su due file di sei. Tutti reggono corone gemmate sulle mani velate. In basso quattro edicole, estremamente lacunose, inquadravano gli Evangelisti. Di esse rimangono solamente i tituli e i simboli inseriti in timpani. Le iscrizioni consentono l’identificazione di Marco e Matteo a sinistra e di Luca e Giovanni a destra. I lati corti sono bordati dallo stesso motivo decorativo dell’arco absidale, mentre il fregio che in alto delimita la decorazione, è costituito da mensoloni abitati da elementi zoomorfi, fitomorfi e da esseri mostruosi. L’iconografia delle pitture dell’arco e del presbiterio è basata sull’Apocalisse (4-5), i cui prototipi figurativi sono da riconoscere nella pittura romana di V-VI secolo.
    A Porta Latina, la traduzione figurata del tema è però caratterizzata da una contaminazione tra fonti diverse, rintracciabili non solo in esempi di pittura monumentale paleocristiana, ma anche nella produzione miniata di VI-X secolo. Inoltre, l’ipotesi di Richard Krautheimer, che vuole la chiesa fondata nel V-VI secolo, e la notizia di un suo rifacimento nell’VIII, inducono a ritenere che i soggetti apocalittici dell’Adorazione dei Viventi e dei Vegliardi, dei due Giovanni e degli Evangelisti, fossero già stati illustrati sulle pareti del presbiterio prima del XII secolo. Del tutto innovativa è la presenza degli evangelisti nelle pareti del presbiterio, in prossimità dell’altare. Lungo le pareti della navata centrale le scene vetero e neotestamentarie si succedono con un andamento anulare che consente una lettura continua dei cicli scena dopo scena, senza ‘percorsi ciechi’ che obblighino a ritornare, passando da un registro all’altro, al punto di partenza. La sequenza delle scene della Genesi ha inizio sulla parete destra con la Creazione del Mondo, e

    Abele e Caino – San Giovanni a Porta Latina.

    prosegue – dall’abside verso la controfacciata – con le Storie dei Progenitori, di Caino e Abele, di Noè, di Abramo e di Giacobbe, per terminare con il Sogno di Giuseppe. Il ciclo continua sulla controfacciata e, successivamente, sulla parete sinistra fino all’abside.
    Il programma neotestamentario segue lo stesso percorso, ma si sviluppa lungo i due registri inferiori delle pareti della navata centrale senza interessare la controfacciata. Comprendeva originariamente 30 scene a partire dall’Annunciazione per concludersi con l’Apparizione sul lago di Tiberiade. Dal momento che il ciclo delle storie veterotestamentarie scorre parallelo a quello delle storie neotestamentarie che occupa i due registri più bassi, vengono a crearsi degli accoppiamenti che non sembrano affatto casuali. Emblematico è quello tra la scena della Cacciata dal Paradiso e la Crocefissione correlate dal titulus che corre al di sotto dell’episodio veterotestamentario e al di sopra di quello neotestamentario: «Inmortalem decus per lignum perdidit hoc lignum». Dove la perdita dello splendore del Paradiso, la parola “decus”, splendore, sottintende “coeli”, a causa del legno dell’albero della Conoscenza verrebbe riscattata dal legno salvifico della croce.
    Il primo registro della controfacciata ospita le seguenti scene veterotestamentarie: Il Lavoro dei Progenitori, Il sacrificio di Caino e Abele, l’Uccisione di Abele, La condanna di Caino. Nel registro inferiore, separata dalle sovrastanti scene bibliche da una larga cornice a fasce ondulate, è una versione abbreviata del Giudizio con Cristo Giudice tra gli angeli. Ai lati del Salvatore, assiso entro un clipeo, stanno gli arcangeli con globo e cartigli, sui quali gli storici dell’arte leggono versi rivolti ai beati e ai dannati, rispettivamente “Venite benedicti fratres” e “Ite maledicti”. Due angeli per parte chiudono il registro. In basso, sotto i piedi del Cristo, è posto un altare con gli Strumenti della Passione. Nel catino absidale si trova un affresco realizzato nel 1715 da Antonio Rapreti sulla base di cartoni preparatori lasciati dal cavalier d’Arpino. L’affresco – che raffigura San Giovanni trascinato in giudizio dinanzi all’imperatore Domiziano – è stato riportato alla luce soltanto nel 2007 giacchè era stato ricoperto per proteggerlo dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale e se ne era persa la memoria.

    San Giovanni a Porta Latina – Adamo ed Eva.

    Il portico medioevale e le navate della basilica sono sostenuti da colonne di spoglio appartenenti, probabilmente, ad un tempio di Diana, parzialmente spogliate a favore del Laterano alla fine del 1700.
    Al bel sito è legato un episodio dell’ Inquisizione:  varie notizie riportano la storia di un gruppo di portoghesi che verso il 1578 aveva fondato una sorta di confraternita, e usava questa chiesa – all’epoca in stato di quasi abbandono, con il titolo lungamente vacante, per essere stata praticamente espropriata del proprio patrimonio dall’arcibasilica di San Giovanni in Laterano – per celebrare i propri riti. Secondo una versione si trattava di marrani rifugiati in Italia. Quel che è certo è che per questa storia furono eseguite, a Porta Latina, non meno di sette condanne a morte per rogo. Così riportano Ludwig von Pastor, nella Storia dei Papi e Michel de Montaigne nel suo Journal de Voyage en Italie par la Suisse et l’Allemagne (en 1580 et 1581).

     

    Roma, 28 ottobre 2018

  3. Il quartiere Coppedé. Il quartiere nascosto.

  4. Vittoriano o Altare della Patria: i due volti di un monumento

     

    Che immagine ha il romano e più in generale l’italiano dell’Altare della Patria?

    Vittoriano sotto la neve

    Vittoriano sotto la neve

    Probabilmente, la convinzione più diffusa è che esso sia il monumento di auto-celebrazione del regime fascista per eccellenza, quello che maggiormente stigmatizza l’aspetto architettonico del Ventennio e la realizzazione plastica delle sue ambizioni imperialistiche.
Un monumento che da sempre suscita sentimenti alterni: da un lato profondo amore e rispetto, e dall’altro, se non proprio odio quanto meno fastidio, perché vissuto come sopruso e distruzione di un’area di Roma di immensa bellezza. Abbattimenti che se da un lato apriranno la via alla Roma capitale, cancelleranno per sempre, in grandissima parte, la città medievale che oggi può essere apprezzata forse solo negli acquerelli di Ettore Roesler Franz.

    Torre di Paolo Terzo - Ettore Roesler Franz

    Torre di Paolo III – Ettore Roesler Franz


    Chi passa oggi davanti all’Altare della Patria e prova fastidio lo chiama in tante maniere diverse: “scrivania” o “ferro da stiro”, forse sono gli appellativi meno ingiuriosi.
    La sua mole svetta ed è visibile da molti punti diversi della città, diventando attrazione cui è impossibile sottrarsi. Almeno una volta bisogna calcare le sue scale e sottostare al rito. Anche gli stranieri fanno di tutto per poterlo visitare, forse senza capirci gran che e solo per godere della magnifica vista sulla città da una delle sue terrazze.
    Parte della pessima fama, come si è detto, trova le sue radici nel fatto che furono necessari tanti abbattimenti e sventramenti per realizzare quest’opera, la maggior parte dei quali viene imputata per intero al regime fascista che, in realtà, procedette solo ad una sorta di “appropriazione indebita”: utilizzare il monumento come enorme manifesto di propaganda del regime. Ancora oggi la vulgata comune riconosce nell’Altare della Patria un monumento voluto da Benito Mussolini. Ma quando nel 1922, i fascisti arrivano al potere, l’imponente mole bianca era già in costruzione dal primo gennaio del 1885, anzi da una decina di anni il monumento era stato inaugurato ufficialmente, anche se non completato in tutte le sue parti.
    In origine avrebbe dovuto chiamarsi “Vittoriano”, perché edificato per celebrare la morte di Vittorio

    Statua di Vittorio Emanuele II

    Statua di Vittorio Emanuele II

    Emanuele II di Savoia, l’amatissimo re dell’Unità d’Italia, ma anche per ricordare gli ideali risorgimentali e gli uomini che si erano sacrificati in nome dell’Unità d’Italia.
 Ma i lavori del più grande cantiere di Roma di fine Ottocento si dilatarono nel tempo per difficoltà strutturali non previste in fase progettuale. Il monumento si ingigantì allontanandosi via via dall’idea architettonica e celebrativa iniziale.
    La partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra Mondiale con il suo enorme numero di morti ebbe poi un gran peso sul significato e sul ruolo del monumento. Molti di quei morti erano rimasti “ignoti” e la Patria sentì il bisogno di celebrarli tutti insieme. Fu così che il Vittoriano divenne l’Altare della Patria, e la Patria si auto-celebrò con qualche anticipo rispetto all’ascesa del fascismo.
    Quando il partito fascista arrivò al governo, il monumento era quindi già lì con tutta la sua retorica. Non restava altro che appropriarsi della sua immagine pubblica e del suo significato nell’immaginario comune e sfruttare il tutto a beneficio del regime.
    Nel passaggio dal 1800 al 1900 intanto, lo stile, la sensibilità artistica, il gusto subirono un cambiamento: il neoclassicismo italiano si tinse di verismo e contemporaneamente emersero nuovi fenomeni artistici di derivazione europea come il liberty. È il momento de La Belle Epoque, il movimento artistico e di costume che si afferma in Germania e in modo particolare in Austria, dove il nuovo sentire assume la definizione di “Secessione Viennese”. Klimt, che è l’esponente di maggior spicco della Secessione Viennese, non manca di far sentire la sua influenza anche in Italia.

    Vittoria alata

    Vittoria alata

    Forse potrà sembrare un po’ strano, ma molte di queste novità artistiche e culturali trovano la loro citazione all’interno dell’arte decorativa del Vittoriano/Altare della Patria.
Ad esempio, le “Vittorie alate”, che con profusione sono utilizzate come elemento decorativo e di celebrazione in molti punti del monumento, perdono le loro fattezze classiche, per assomigliare alle donne borghesi della Bella Epoque: stessa maniera di pettinarsi, una simile maniera di vestire.
    La stessa Dea Roma sta, maestosa e fiera, davanti ad un mosaico tutto d’oro assolutamente inconcepibile se il vento della Secessione Viennese non fosse spirato fino in Italia.
    Il passare inesorabile del tempo non cambia quindi solo il significato intimo del monumento che celebra la Patria e non più un re e gli ideali risorgimentali, ma fa si che nell’apparato decorativo del monumento si possa trovare citato il Michelangelo della Cappella Sistina accanto a Klimt.

    Roma, 28 maggio 2018