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  1. Andy Warhol, quando il quotidiano diventa eterno

    La vera essenza di Warhol in mostra al Vittoriano. Un’esposizione che con oltre 170 opere traccia la vita straordinaria di uno dei più acclamati artisti della storia.

    Autoritratto – Andy Warhol.

    Un’esposizione interamente dedicata al mito di Warhol, realizzata in occasione del novantesimo anniversario della sua nascita che parte dalle origini artistiche della Pop Art: nel 1962 il genio di Pittsburgh inizia a usare la serigrafia e crea la serie Campbell’s Soup, minestre in scatola che Warhol prende dagli scaffali dei supermercati per consegnarli all’Olimpo dell’arte. Seguono le serie su Elvis, su Marilyn, sulla Coca-Cola.
    L’esposizione, con le sue oltre 170 opere, vuole riassumere l’incredibile vita di un personaggio che ha cambiato per sempre i connotati non solo del mondo dell’arte ma anche della musica, del cinema e della moda, tracciando un percorso nuovo e originale che ha stravolto in maniera radicale qualunque definizione estetica precedente.
    Sembra facile organizzare storicamente la vicenda artistica di Andy Warhol. Ma non lo è. Per sintetizzare, si possono rintracciare tre periodi: fino al 1960 c’è un Warhol illustratore; la stagione pop dal 1960 al 1969, segnata dall’attentato subito da Valerie Solanas 3 giugno 1968; la pausa senza pittura; 1972-1987 l’ultima stagione, probabilmente la più grande.
    L’Andy Warhol illustratore è la preistoria. Un affacciarsi al mondo senza ancora avere l’idea su dove e come portare l’affondo. La fase pop è la più radicale e in un certo senso “fondamentalista” nell’azzeramento di qualsiasi soggettivismo espressivo: il colpo che invecchia tutta l’arte del 900 è il ciclo delle zuppe Campbell, esposte nel 1962 a Los Angeles, cui segue l’approdo alla meccanizzazione con le serigrafie dei “200 dollari”.

    Marilyn – Andy Warhol.

    Il terzo Warhol invece sembra liberarsi dall’ossessione di un’artificialità del prodotto artistico. La sua arte torna a respirare, la pittura stesa con grandi spugne torna ad essere stesa sulla tela. Dopo il raggelamento pop si sente un’aria di nuova libertà. L’artista si lascia andare e vengono fuori i capolavori: il ciclo dei Teschi, meravigliosi nei loro preziosismi; le due tele della serie Ladies and gentleman, travestiti neri che sbucano dal meraviglioso calice giallo del loro vestito. Straordinarie anche i due Rorschach, grandi tele a motivo decorativo, che Wharol realizzò equivocando il metodo terapeutico di uno psichiatra svizzero.
    Storicizzare vuol dire anche capire da quale storia si generi ogni opera di Andy Warhol. Purtroppo il compito non è semplice perché l’arte contemporanea è stata monopolizzata dalla “critica”, che gioca ad alzare cortine fumogene sulla storia, e non è mai possibile trovarne invece una storia. Che si capisce dei Mao, se non si percepisce il rovesciamento che Warhol ne fa in coincidenza del viaggio di Nixon a Pechino, quando il simbolo della contestazione dell’Occidente diventa preziosa sponda anti Unione Sovietica? È un ribaltamento simbolico spiattellato in faccia al mondo che i cinesi non hanno ancora digerito, nelle mostre in Cina questa serie non può essere esposta.
    Andy Warhol va aggirato: lui ti fa stare sempre sulla sua superficie, quando invece sta lavorando in profondità. Quindi va sempre scovata questa profondità, senza cadere nell’errore opposto di caricarla di significati. Warhol è pittore nato visivamente sulle icone della chiesa cattolica ortodossa di Saint George di Pittsburg, che per tutta la stagione pop dipinge icone, eternizzando i prodotti simbolo della civiltà consumista. L’icona è per principio piatta, non vuole la profondità, perché la profondità è tutta e solo nel pensiero e nella preghiera accesa in chi la guarda. L’icona non ha nessuno sviluppo narrativo. È solo replica di un prototipo. L’artista degli anni pop segue lo stesso procedimento, ed evita ogni profondità. Eppure nella piattezza delle sue superfici intercetta note profonde. Il tema della morte ad esempio, che affiora plateale nelle Electric Chair, o nei disastri stradali; ma è sempre il tema della morte che rende iconica la sua Marilyn Monroe, non solo perchè la realizza dopo il suo suicidio, ma perché la palpebra semiabbassata sul “sole” biondo del suo volto, è un’implacabile nota tragica, che trova la sua forza nella replica

    Andy Warhol. Copertine che hanno fatto epoca.

    ossessiva, martellante, seriale di quel prototipo. Così si capisce che la serialità di AW non è solo esito di un’arte che si è adeguata come tutto ai processi di produzione meccanica. La serialità è il dispositivo che nella ripetizione produce un effetto equivalente alla profondità.
    Senza recinti. Disse Keith Haring: «Era lui che aveva mosso le cose in modo da rendere possibile anche a me di essere artista Era il primo che dava la possibilità di essere artista pubblico nel vero senso della parola, un artista della gente». La funzione di Warhol è in questo enorme allargamento del “recinto” dell’arte. Un qualcosa di molto simile all’abbattimento di quei recinti. In modo molto americano, diceva che c’è una chance per tutti. “Intanto falla” (l’arte), è il suo slogan. Poi, dopo di lui, sono stati alzati altri recinti protettivi, architettati in alleanza tra mercato e intellettualismo critico. Un nuovo accademismo à la page. Warhol non ci sarebbe stato: non era uno da selezioni preventive.

    Roma, 29 ottobre 2018

  2. Il genio di Pietro da Cortona e la Cortona di Palazzo Pamphilj

    Scrive lo storico dell’arte Rudolf Wittkover: «Il genio di Pietro Berrettini, chiamato di

    Galleria Cortona – Veduta d’Insieme – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    solito Pietro da Cortona, fu secondo solo a quello del Bernini. Come lui fu architetto, pittore, decoratore e disegnatore di tombe e di sculture, per quanto non scultore egli stesso. I suoi successi in tutti questi campi devono essere collocati fra i più notevoli del XVII secolo. A Bernini e Borromini è stata restituita la posizione eminente a loro dovuta. Non così al Cortona… Invero, il nome del Cortona è il terzo del grande trio di artisti romani del barocco e la sua opera rappresenta un aspetto di questo stile nuovo e assolutamente personale» (Arte e Architettura in Italia 1600-1750, Einaudi 1993, Torino, pp. 533).
    Date le autorevoli premesse dello storico dell’arte tedesco, non c’è dubbio che una delle opere più rappresentative di questo genio del Seicento romano sia la Galleria di Palazzo Pampilj di Piazza Navona, sede dell’Ambasciata del Brasile. Palazzo appartenuto alla famiglia Pamphilj dal 1470 e completamente rinnovata dal cardinal Giovan Battista Pamphilj che, a partire dal 1644, chiamò i più importanti artisti e architetti dell’epoca, quali Bernini e Borromini per progettare l’intero isolato. La facciata, caratterizzata da linee molto sobrie, fu realizzata da Girolamo Rainaldi mentre Borromini fu responsabile del progetto della chiesa, della Sala Palestrina e della Galleria Cortona, affrescata da Pietro da Cortona con le storie di Enea. Prima di allora, l’artista aveva già realizzato per papa Urbano VIII Barberini, il suo maggior sostenitore, gli affreschi raffiguranti le Storie di santa Bibiana, santa Demetra e san Flaviano, per la parete sinistra della navata della chiesa paleocristiana di Santa Bibiana, restaurata in quegli stessi anni da Gian Lorenzo Bernini.
    A introdurre il Berrettini nella cerchia barberiniana fu quasi certamente Marcello Sacchetti, nominato nel 1623 depositario generale e tesoriere segreto della Camera Apostolica. Per lui l’artista stava eseguendo le grandi tele con il Sacrificio di Polissena e il Trionfo di Bacco, Roma, Pinacoteca Capitolina.
    Nel 1628 viene assegnata al Cortona la commissione per la pala d’altare della Cappella del Sacramento in San Pietro, opera in un primo tempo affidata a Guido

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    Reni. La pala, raffigurante la Trinità, una grandiosa macchina di nuvole e di angeli, tuttora in loco ma poco visibile perché parzialmente nascosta dal tabernacolo del Bernini, sarà terminata nel 1631. La cifra pagata, mille scudi, dimostra la posizione raggiunta dall’artista che, solo tre anni dopo, sarà nominato Principe dell’Accademia di San Luca. La commissione della pala d’altare per San Pietro aveva, naturalmente, una grande importanza per la carriera dell’autore. Subito dopo Urbano VIII gli affida la decorazione di alcuni ambienti del nuovo Palazzo Barberini.
    Nel 1633 iniziano i lavori della volta del salone, certamente l’opera più importante del Cortona, il manifesto della nuova pittura barocca, in qualche modo contrapposta al classicismo di Andrea Sacchi. Tra il 1633 e il 1639 Berrettini lavora, con alcune interruzioni, all’immenso soffitto nel quale dovrà affrescare, secondo le precise indicazioni del soggetto dettate dal poeta Francesco Bracciolini, il Trionfo della Divina Provvidenza e il compimento dei suoi fini attraverso il potere spirituale e temporale del papato ai tempi di Urbano VIII. Concluderà quell’opera grandiosa – concepita come una visione unitaria, per essere abbracciata con un unico sguardo – in soli due anni: il 10 dicembre 1639 il Trionfo della Divina Provvidenza, che celebra soprattutto il trionfo dei Barberini, sovrani con potere assoluto, verrà inaugurato da Urbano VIII. Le due distinte personalità del Cortona, pittore sapiente e architetto, si erano riunite per creare quella straordinaria e aerea costruzione di spazi, scene e personaggi che forma la perfetta struttura d’invenzione e realtà del soffitto barberiniano. Qui, tutto ciò che è immaginato come finto è contenuto nei limiti della cornice marmorea, mentre il resto è immaginato come vero, come scrosciante apparizione: cielo, nuvole, rocce, fiamme, alberi, fontane e la folla innumerevole delle figure che scavalcano la cornice. Tra un viaggio a Firenze e l’altro, l’artista lavora al progetto architettonico per la chiesa dei Santi Luca e Martina, sede dell’Accademia di San Luca, progetto al quale il Cortona, in

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    quanto Principe dell’Accademia, si dedica fin dal 1634-1635 e che si conclude nel 1650, e ai diversi interventi pittorici a Santa Maria in Vallicella, la chiesa degli Oratoriani. Qui egli lavora, a più riprese, con uno spirito quasi caritatevole fin dal 1633, quando affresca, in contemporanea con il soffitto Barberini, “con buonissima conditione”, quindi a buon prezzo, la volta della sacrestia, poi, nel decennio successivo, tra il 1647 e il 1651, la cupola, più tardi la tribuna e i pennacchi e, infine, negli ultimi anni della sua vita, tra il 1664 e il 1665, la volta della navata, un intervento di grandi dimensioni che in qualche modo conclude la carriera artistica del Cortona. Dopo il soggiorno fiorentino durato dal 1641 e il 1647 dove realizza, a Palazzo Pitti affreschi alla Sala della Stufa e per altre cinque stanze, le Sale dei Pianeti al primo piano di Palazzo Pitti, Pietro da Cortona torna a Roma dove compra casa in via della Pedacchia, nei pressi del Campidoglio (edificio distrutto alla fine dell’Ottocento per la costruzione del monumento a Vittorio Emanuele II). Negli anni successivi, tra il 1651 e il 1654, papa Innocenzo X Pamphilj gli commissiona la decorazione della galleria costruita dal Borromini nel palazzo di famiglia a piazza Navona. È questa la prima commissione affidata dal nuovo papa al Berrettini, che era stato il pittore dei Barberini. Il palazzo Pamphilj di piazza Navona a Roma si configurava come un esempio estremamente significativo di cantiere barocco e della vita sociale che vi si svolgeva. Il suo passaggio da palazzo cardinalizio a palazzo papale, le lunghe vicende architettoniche che si conclusero con un unicum straordinario, la Galleria progettata da Francesco Borromini con una posizione inedita rispetto alla pianta, la complessa decorazione che vede una evoluzione del sistema del fregio ad affresco e la realizzazione del capolavoro degli anni Cinquanta di Pietro da Cortona, lo rendono uno dei complessi più interessanti per lo studio del palazzo barocco romano. Diversamente dalla decorazione della volta del salone barberiniano, vero dispiegamento di immagini allegoriche, qui i soggetti prescelti, tratti dall’Eneide e legati all’origine della famiglia Pamphilj, rivelano una forte componente narrativa che inizia con l’arrivo di Enea nel Lazio e giunge fino alla discesa dell’eroe agli inferi. Sui lati brevi della galleria si trovano due eleganti finestre, uniche fonti di luce e, al di sopra, lo stemma di Innocenzo X con il motto latino Sub Umbra Alarum Tua, proteggimi all’ombra delle tue ali. Il disegno dell’ambiente e delle decorazioni in stucco si deve alla mano del Borromini. La decorazione della volta con il Ciclo di Enea fu iniziata da Pietro da Cortona nel 1651 e la concluse nella primavera del 1654, ricevendo un compenso di 3.000 scudi.
    Come luogo privilegiato del palazzo, la galleria doveva essere uno spazio che

    Enea sulla sua nave accompagnato da Nettuno – Galleria Cortona – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    suscitasse meraviglia. Qui il padrone di casa conduceva gli ospiti più raffinati, principi, prelati e intellettuali, e li invitava ad ammirare i suoi capolavori. La galleria doveva essere quindi uno spazio autonomo, edificato allo scopo di stupire l’ospite attraverso le trovate degli artisti di maggior ingegno. E Pietro da Cortona riesce nell’intento: risolve la difficoltà di affrescare uno spazio così lungo suddividendolo in diversi scomparti, e al tempo stesso riesce a fondere insieme le diverse scene, senza creare una cesura tra una e l’altra. La volta risulta formata da un grande riquadro centrale, affiancato da due grandi medaglioni laterali, secondo l’idea del “quadro riportato”. Le cornici degli ovali sono arricchite da ghirlande e sostenute da figure femminili e maschili in finto marmo. Le scene narrate alle estremità risultano prive di cornica e sono collocate sotto un unico cielo che rende fluido l’insieme creando un effetto atmosferico e naturalistico tipico della pittura barocca. Ma, prima di interpretare il tema degli affreschi, va sottolineato che la scelta delle storie cadde sul tema mitologico legato alla figura di Enea perché lo stemma Pamphilj ha al suo interno una colomba bianca. E la colomba era simbolo di Venere, dea dell’amore e madre di Enea, il mitico fondatore di Roma. Era questo, quindi, un motivo sufficiente a ispirare un affresco che avesse come tema centrale alcune vicende tratte dalla storia di Enea.
    Le vicende di Enea cominciano dal lato della volta verso la piazza, dove troviamo il primo grande ovale. Qui si vede Giunone che, giunta in Eolia, patria dei venti, supplica Eolo, riconoscibile dalla corona, affinché scateni venti e tempeste contro l’armata capitanata da Enea che si stava dirigendo verso le coste italiche. La storia continua sul lato destro dove si vede Nettuno, dio dei mari, che, irato, minaccia i venti che hanno reso il mare burrascoso. I venti vengono mandati nei loro anfratti e il mare torna a essere tranquillo e calmo. Nettuno appare assiso sopra un carro trainato da cavalli marini e attorniato da putti, ninfe e tritoni, consueti

    Nettuno sul carro placa i venti – Galleria Cortona – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    accompagnatori del dio dei mari.
    Giunti presso la grande finestra, si nota una medaglia dipinta a chiaroscuro che raffigura Enea, in un bosco, che cerca il ramo d’oro o d’ulivo, da portare in dono a Proserpina. Il ramo avrebbe consentito a Enea di entrare e uscire dagli inferi. Durante la ricerca del ramo gli appaiono due colombe che gli indicano dove trovarlo e poi volano via. Enea, dopo aver trovato il ramo, fa ritorno in Sicilia.
    Sotto la medaglia si vede Enea che, accompagnato dalla Sibilla Cumana, a sinistra, incontra Cerbero, a destra, il cane a tre teste addetto a sorvegliare le porte degli inferi. Il terribile cane viene addormentato dalla Sibilla con un pane di mele affinché non emetta il triplice latrato. Finalmente Enea, entrato nell’aldilà, può vedere l’anima del padre Anchise.
    Continuando in senso orario si vede Enea sulla sua nave, accompagnato da Nettuno che, con i suoi tritoni, spinge le navi dei Troiani affinché non passino nei pressi della spiaggia della maga Circe, la quale avrebbe tramutato gli uomini di Enea in orsi, cinghiali, leoni e lupi. Enea giunge finalmente a un bosco dove vede il fiume Tebro e, alla sua vista., sembra quasi che voglia saltare e toccare terra.
    Ora, percorrendo l’intera lunghezza della galleria fino a raggiungere l’altra grande finestra, si può vedere sopra lo stemma una grande medaglia: vi è rappresentato un gioco che si teneva ogni anno in Sicilia per commemorare Anchise. In tale occasione, Enea fece innalzare un albero di nave, sulla cui sommità fece legare una colomba. I concorrenti dovevano colpirla con una freccia.
    Nel grande riquadro centrale della galleria si trova un medaglione, in cui è narrata la scena di come Enea trovò la troia bianca, con trenta piccoli, accovacciata vicino al fiume Tebro. In precedenza, il Tebro gli era apparso in sogno dicendogli che il luogo dove avesse trovato l’animale era quello in cui avrebbe dovuto fermarsi e fondare il suo regno. Enea avrebbe dovuto sacrificare l’animale e tutti i suoi piccoli a Giunone, per attirare la sua benevolenza.

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    Ritornando nei pressi della finestra opposta alla piazza si vede Pallante, a sinistra, figlio di Evandro, re degli Arcadi, che con due navi sta attraversando il fiume. Enea gli mostra il ramo d’ulivo in segno di pace, cosicché viene accolto e condotto alla presenza di Evandro.
    Sul lato sinistro della volta è rappresentato il momento in cui Enea giunge al cospetto di Evandro in compagnia di Pallante e qui il re dei Troiani chiede a Evandro aiuto per combattere i Rutili. L’aiuto viene concesso e, al termine del dialogo, Evandro invita Enea alla festa che tutti gli anni si tiene in onore di Ercole per ricordare Caco, famoso ladro di armenti. La statua di Ercole è collocata sullo sfondo.
    Nell’altro grande ovale si vede Venere che cerca di convincere Vulcano, suo marito, a forgiare armi per Enea, suo figlio. Venere giace su una nuvola con accanto Cupido che gli mostra alcune armi già forgiate. Vulcano appare in basso, appoggiato a una corazza, mentre accanto i ciclopi continuano il loro lavoro. Nell’altra medaglia, collocata accanto al riquadro centrale, si vede Venere che appare al figlio Enea, che stava camminando, e gli mostra le armi avute da Vulcano. Enea si ferma per ammirarle.
    Nell’affresco centrale viene rappresentato il momento in cui Giove, re dell’Olimpo, chiama intorno a sé tutti gli dei per cercare un accordo di pace. Venere, affiancata da Cupido, si lamenta del pericolo che i Troiani corrono e dell’odio che Giunone nutre nei loro confronti. Giunone, al contrario, attribuisce ai Troiani colpe e disgrazie. Giove si rimette alla decisione della giustizia; quest’ultima appare al centro della composizione, vestita di azzurro con la bilancia in mano. Contemporaneamente la furia, in basso a sinistra, discende verso gli inferi e l’odio viene quindi annientato. Tra le altre divinità si riconoscono Mercurio con la tromba e il doppio serpente intrecciato, Bacco con la coppa e un grappolo d’uva, e Pan, la divinità dei boschi, con il flauto.

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    L’ultima scena, collocata a destra della volta – guardando la finestra che affaccia su via dell’Anima – rappresenta Turno che sfida Enea sotto le mura della città di Laurento. Turno viene sconfitto e ferito e, pur di avere salva la vita, si sottomette al volere di Enea. Il vincitore sta per accordargli il perdono quando vede addosso a Turno la cinta del suo amico Pallante, segno della sua morte. Enea, colto allora da un moto d’ira, uccide Turno per vendicare Pallante.
    L’opera di palazzo Pamphilj suscitò grande consenso e ammirazione poiché rispecchiava appieno il gusto estetico del tempo e consacrava Cortona come uno dei massimi pittori del Seicento. Se infatti nella volta dei Barberini, una delle sue imprese più impegnative, l’artista aveva seguito la sua vena più irruente, utilizzando uno spazio completamente aperto che sovrasta e schiaccia lo spettatore, nella volta pamphiljana l’artista ha preferito una partizione ritmica dello spazio, offrendo al visitatore la possibilità di “leggere“ le singole scene. Anche l’uso del colore risponde a una tavolozza chiara e leggera, che conferisce alla narrazione un tono aggraziato e mai cupo. Cortona, con gli affreschi di palazzo Pamphilj, raggiunge un grado di maturità sorprendente e si pone come punto di riferimento per la pittura del secolo successivo.

    Roma, 28 ottobre 2018

  3. Case d’artista: Wolfgang Goethe e Hendrik Christian Andersen

    Nato a Francoforte sul Meno, Johann Wolfgang von Goethe, 1749 – 1832, fu avviato dal padre, uomo di legge, consigliere imperiale ed erudito collezionista, agli studi

    Goethe nella campagna romana – J. H. W. Tischbein.

    letterari, artistici e scientifici. In giovane età seguì a Lipsia corsi di letteratura, giurisprudenza e tecniche grafiche, sposando sin dal principio i dettami del Classicismo Winckelmanniano, allora di gran voga. La conoscenza di Wagner a Strasburgo lo portò negli anni Settanta del Settecento a indirizzare i propri interessi verso la concezione “anticonvenzionale” dell’estetica maturata dal movimento culturale dello “Sturm und Drang”. Nello stesso decennio avviò importanti collaborazioni con riviste letterarie, e iniziò a stendere di proprio pugno alcuni tra i numerosi brani della sua illuminata carriera, pregna dei modelli popolari, omerici e shakespeariani da lui tanto amati. (1). Dal 1775, a Weimar, ricoprì la carica di Consigliere Segreto di legazione presso la corte del duca Carl August, divenendo quindi membro di diverse commissioni speciali, per le miniere, per le costruzioni statali, per la guerra, come pure del consiglio di amministrazione dell’erario. (2).
    Gravato dalle responsabilità politiche e da tormentati rapporti personali, primo fra tutti quello con la duchessa Charlotte von Stein, sua amica, sul finire del 1786 il poeta partì per il Bel Paese, direzione Roma, fingendosi commerciante e adottando lo pseudonimo di Jean Philippe Möller. (3). Nel nono decennio del Settecento, l’Urbe era divenuta meta prediletta di una fitta schiera di viaggiatori tedeschi, spinti, come altri d’ogni angolo d’Europa, dal desiderio di compiere il “grand tour”, un viaggio di formazione tra i tesori artistici italiani che avrebbe garantito loro la massima

    Casa di Goethe in Via del Corso.

    istruzione possibile. Gli stranieri arrivati a Roma prendevano alloggio nel Campo Marzio, e nel corso dei loro soggiorni s’inoltravano alla scoperta delle meraviglie antiche, medioevali e moderne della città, guidata dallo Stato Pontificio, che era irrimediabilmente vessata da una crisi politico-economica e sociale. (4).
    «In verità, negli anni più recenti era diventata una specie di malattia, dalla quale solo la visita e la presenza immediata potevano guarirmi» dice Goethe nei suoi diari di Viaggio il 1 novembre 1786, una volta giunto nella Città Eterna dove risiederà con brevi interruzioni sino al 1788. Qui, alla mano il Volkmann, guida d’Italia, studia le “arti maggiori”, visita siti e monumenti, colleziona calchi di antichi capolavori, disegna e scrive Elegie, Ifigenia, Faust, Tasso, prendendo fissa dimora presso il pittore Johann Heinrich Tischbein in via del Corso 18, dove conosce altri pittori, incisori e critici d’arte suoi compatrioti. (5).
    Nel 1833 la casa fu innalzata di un piano e modificata in facciata (6); nel 1973 fu invece riorganizzata negli ambienti interni per iniziativa dell’Associazione degli Istituti Autonomi di Cultura di Francoforte, e trasformata nell’unico museo tedesco all’estero, aperto ufficialmente dal 1997. (7). La mostra permanente è dedicata al soggiorno italiano del poeta e offre stralci della quotidianità romana dell’epoca mediante opere grafiche, disegni, dipinti, sculture, istallazioni e libri, protagonisti anche di esposizioni temporanee. (8). Le otto stanze, in particolare, presentano:

    Casa di Goethe in Via del Corso.

    una carrellata delle tappe essenziali della vita del poeta, ritratti, composizioni letterarie, documentazione di varia natura; il viaggio sino a Roma passi del diario e relativi schizzi; il Campo Marzio, con disegni di Tischbein che illustrano la dimora dello scrittore; il rapporto con il Meridione, dal quale Goethe rimase affascinato nei soggiorni successivi a quello romano, con opere dei colleghi Hackert e Kniep suoi compagni di viaggio; la teoria goethiana dei colori, nata dall’osservazione dei fenomeni naturali e della componente cromatica nell’arte; il rapporto con l’antichità, trattati, vedute antiquarie, fogli del Piranesi; l’atelier sul Corso, i rapporti con artisti e studiosi; gli esiti poetici e letterari dell’avventura italiana (9).
    Attualmente la Casa ospita anche conferenze, letture, concerti e proiezioni di film.
    Il Museo intitolato a Hendrik Christian Andersen, 1872-1940, «nasce con l’idea

    Andersen nella sua casa di Roma.

    dell’artista che progetta e costruisce la “palazzina con annesso studio di scultura”» (10). Norvegese emigrato in America in tenera età, lo Andersen si recò in Europa per apprendere l’arte antica e rinascimentale, insediandosi nell’Urbe dal 1897.
    A partire dai primissimi anni del Novecento iniziò a dedicarsi all’«utopico progetto di una Città Mondiale, fatta di monumentali palazzi beaux-arts, fontane allegoriche, stadi sportivi, torri, giardini, viali, musei, conservatori di musica, teatri e cattedrali, sul modello delle esposizioni universali (Londra 1851, Parigi 1855 e Parigi 1900)». (11). Costruito nel triennio 1922 – 1924, nel 1940 l’edificio passò per volontà testamentaria allo Stato italiano, assieme all’intera collezione. Sotto tutela della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma dal 1978, venne restaurato nel 1998 ed aperto al pubblico nel cinquantanovesimo anniversario della morte dell’artista. (12).
    Il patrimonio del museo è costituito da oltre seicento dipinti, sculture e manufatti grafici opera di Hendrik e del fratello Andreas, ordinati e allestiti secondo lo schema dello “studio d’artista” (13): al pianterreno sono la sala-studio, laboratorio per la modellazione delle forme scultoree e la galleria di rappresentanza con le “megalomaniche” sculture, in gesso ed altri materiali, concepite per quell’ipotetica Città Mondiale, “centro mondiale di comunicazione”, immaginata tra il 1901 e il 1911 assieme all’architetto Ernest Hébrad. Il primo piano, ex dimora del norvegese, è uno spazio espositivo per le raccolte permanenti di piccolo formato e per le mostre temporanee, generalmente incentrate sulle relazioni artistiche tra il Bel Paese e l’estero a cavallo tra Otto e Novecento. (14).

    Museo Hendrik Christian Andersen – Roma.


    Bibliografia
    1)
    U. Horstenkamp, Johann Wolfgang von Goethe-Breve biografia, in “…finalmente in questa Capitale del mondo!”. Goethe a Roma. Catalogo per l’inaugurazione della casa di Goethe a Roma, a cura di K. Scheurmann, U. Bongaerts-Schomer, vol. 2, Roma 1997, pp. 208-219 (in part. pp. 208-209).
    2) V. Wahl, Il viaggio di Goethe in Italia come cesura nei suoi impegni ufficiali a Weimar, in Ibidem, vol. 1, pp. 60-71 (in part. p. 61).
    3) U. Bongaerts-Schomer, Troppo era maturata in me la sete di vedere questo paese. Il viaggio in Italia di Goethe, in Ibidem, vol. 2, pp. 7-15 (in part. p. 7).
    4) H. Claussen, “Nessuna delle località abitate dai popoli primitivi era mal situata come Roma…”. Roma e il “Campo Marzio” alla fine del XVIII secolo, in Ibidem, vol. 1, pp. 106-119; A. Esch, L’esperienza tedesca di Roma tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo: Winckelmann-Goethe-Humboldt, in Ibidem, pp. 72-77.
    5) M.F. Apolloni, La casa di Goethe a Roma. La Roma del giovane Werther, in “Art e Dossier”, Firenze 1997, 12, 126, pp. 12-16.
    6) T. Venuti, La casa di Goethe (con sei illustrazioni), Roma 1908, pp. 9-10.
    7) G. Scarfone, La casa abitata da J. Wolfgang Goethe in Via del Corso, in “L’Urbe”, Roma 1984, 47, pp. 200-203.
    8) http://www.casadigoethe.it/mostra-permanente.:“…finalmente in questa Capitale del mondo!”, op. cit., vol. 2, pp. 17, 53, 75, 91, 113, 137, 151, 183.
    9) M. Amaturo, La vocazione al contemporaneo del museo Hendrik C. Andersen, in Italia Ora, catalogo della mostra (Roma, Museo Hendrik Christian Andersen, 8 ottobre-13 novembre 2011), a cura di A. Bonito Oliva, Napoli 2011, pp. 29-33 (in part. p. 29).
    10) E. Di Majo, La Casa Museo di Hendrik Christian Andersen. Uno scultore americano a Roma, in Gli ateliers degli scultori, “Atti del secondo convegno internazionale sulle gipsoteche” (Possagno, Fondazione Canova, 24-25 ottobre 2008), a cura di M. Guderzo, Possagno 2010, pp. 227-237 (in part. p. 229)
    11) http://www.artwave.it: Casa Museo Hendrik Andersen – Un luogo segreto nel cuore di Roma, a cura di V. Caporilli, 1 maggio 2017.
    12) E. Di Majo, La Casa Museo di Hendrik Christian Andersen, op. cit., p. 232.
    13) http://www.artwave.it, op. cit.

    Roma, 28 ottobre 2018

  4. La chiesa di San Saba e i monaci di Gerusalemme

    Il Rione San Saba, detto comunemente “Piccolo Aventino”, costituisce, sin dall’antichità, una sorta di appendice del destino urbanistico del Grande Aventino.

    Piazza Gian Lorenzo Bernini e i giardini pubblici. Si ringrazia Romasparita.

    L’Aventino è il colle più meridionale della città e il più vicino al Tevere, con pendici molto scoscese e una sella profonda che da sempre divide le due sommità dette Piccolo e Grande Aventino. Popolatosi in ritardo nella Roma antica, ebbe prima un carattere popolare, poi – a seguito dell’allontanamento del porto, trasferito ai nuovi impianti imperiali oltre Ostia – e servito da un ramo dell’acquedotto, fu ricercato per residenze di lusso. Completamente abbandonato nel Medioevo, restò del tutto ai margini della città, coltivato a vigne, ma senza splendore di ville. Sul Piccolo Aventino l’unico presidio furono i complessi conventuali, cinti da mura come fortilizi: San Saba e Santa Balbina.
    Ancora all’inizio del Novecento la chiesa e il monastero di San Saba erano ancora in aperta campagna, ma con il primo piano regolatore approvato dalla giunta Nathan nel 1909 la zona diviene una sorta di quartiere operaio satellite di Testaccio e vi viene edificata, tra il 1907 e il 1914, una città – giardino. Il progetto è di Quadrio Pirani e prevede la realizzazione su dieci lotti di villini bifamiliari con e palazzine alte quattro piani. Il giovane architetto scelse di coprire le facciate esterne dei villini e delle palazzine con piccoli mattoni rossi per poter armonizzare le nuove architetture con quelle del monastero e delle mura. Ancora oggi il quartiere è immerso del verde e in questo verde risultano ancora incastonati il monastero e la chiesa di San Saba.
    Probabilmente è proprio l’isolamento anche fisico di cui ha goduto nei secoli il colle che ha favorito l’isolamento conventuale che ancora oggi caratterizza l’atmosfera della piccola chiesa di San Saba e le ha consentito di arrivare ai nostri giorni sostanzialmente ben conservata e ricca di testimonianze.

    La chiesa di San Saba – Ettore Roesler Franz. Si ringrazia Romasparita.

    La tradizione parla di un cenobio in cui sarebbe vissuta Silvia, madre di san Gregorio Magno, la quale avrebbe inviato giornalmente al proprio figlio, residente sul Celio, un magro pasto di verdure, anche se fragranti e da lei stessa raccolte negli orti vicini. La storia e l’archeologia ci accertano della venuta nel VII secolo, in questo posto, di monaci orientali desiderosi di rinnovarvi il loro convento di Gerusalemme, che era stato fondato da san Saba nel secolo V ed era stato distrutto dalla conquista araba. I monaci fondarono altri monasteri a Roma – ad esempio quello alle Tre Fontane – e costituirono qui un oratorio che, nel corso del X secolo, si trasformò nella chiesa attuale. Questa però fu opera dei benedettini che avevano, in quel periodo, sostituito gli orientali. E, nel XII, a rimpiazzare i benedettini arrivarono i cluniacensi. Costoro restaurarono a fondo l’edificio, quasi ricostruendolo, e lo fecero ornare dai marmorari romani. Un altro intervento si ebbe verso il 1463 a cura del cardinale Francesco Piccolomini che fece sopraelevare il portico e costruire la tipica ampia loggia che riveste la facciata. Alla chiesa, che è sul punto più alto del colle e che si annuncia con un protiro del Duecento, si arriva con una breve gradinata che porta a uno spiazzo erboso – certo l’antico atrio – chiuso da muri, dove, in un’atmosfera di grande pace, il tempo si ferma. Il portico a pilastri che precede la chiesa è ricchissimo di sarcofagi antichi e di altro materiale archeologico. Una scaletta in un angolo scende al livello della chiesa primitiva, assai più piccola dell’attuale. Un bel portale del 1205 è opera di Giacomo, padre di quel Cosma che dette nome alla dinastia dei marmorari-mosaicisti cosmateschi. Il campanile, sulla sinistra della facciata, è tozzo ed emerge di poco perché è quel che avanza dopo un crollo di epoca remota. L’interno, ripristinato a seguito degli scavi condotti nel 1909 e delle successive sistemazioni, è a tre navate, divise da quattordici colonne di spoglio assai variate e da archi. La navata centrale, sulla quale si distende un soffitto moderno a capriate in vista, è ricoperta, a modo di tappeto, da un bel lavoro cosmatesco.

    La carità di San Nicola – Chiesa di San Saba.

    Altro lavoro cosmatesco è una parte della schola cantorum ritrovata negli scavi del 1909 firmata dal “magister” Vassalletto, ricomposta sulla parete della navata destra: affascinante per le lucenti riquadrature a mosaico e per la pezzatura di marmi raffinati, quasi un campionario di pietre rare. Sulla sinistra, si trova una cosiddetta “quarta navata” che deve essere in realtà un locale conventuale aggiunto successivamente alla chiesa. Vi sono resti di affreschi del XIII secolo. Altri affreschi della chiesa primitiva si trovano lungo il corridoio che conduce alla sagrestia. L’abside centrale deve aver perduto una decorazione musiva e ha invece una modesta decorazione ad affresco del 1575, anche se conserva una drammatica Crocefissione di un trecentista. Un’Annunciazione del secolo XV si trova sull’arcone dell’abside. Il presbiterio conserva, poi, una cattedra marmorea con un magnifico tondo cosmatesco e un ciborio ricomposto con quattro belle colonne di marmo e una copertura ottagonale a colonnine. Al di sotto è la confessione. Accessibile dal portico esterno è l’antico oratorio con frammenti di pitture dei secoli IX e X.

    Roma, 13 ottobre 2018