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Monet al Vittoriano
29 Luglio 2018 by Ornella Massa
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Roma dei re. Il racconto dell’archeologia
27 Luglio 2018 by Ornella Massa
La Roma dei Re. Il racconto dell’Archeologia accende riflettori sulla fase più antica della storia di Roma, illustrando gli aspetti salienti della formazione della città e ricostruendo costumi, ideologie, capacità tecniche, contatti con ambiti culturali diversi, trasformazioni sociali e culturali che interessarono Roma nel periodo in cui la città, secondo le fonti storiche, era governata da re. Grazie a lunghe attività di revisione, restauro e studio è possibile mostrare per la prima volta al pubblico dati e reperti archeologici mai esposti prima, talvolta sorprendenti e suggestivi per la loro bellezza e modernità. La mostra è un viaggio affascinante a ritroso dal sesto secolo avanti Cristo fino al decimo. Le sale espositive di Palazzo Caffarelli e l’Area del Tempio di Giove dei Musei Capitolini ci raccontano la fase più antica dell’Urbe. Si attraversano santuari e palazzi della Roma regia e alla memoria tornano i nomi di Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo. Vengono mostrati corredi tombali, deposizioni nelle quali era utilizzato il rito della cremazione, la miniaturizzazione di oggetti di corredo, l’utilizzo di contenitori per le ceneri dalla singolare forma di capanna.
Della prima Roma è possibile ammirare un grande plastico, poi ancora reperti di scambi e commerci tra Età del Bronzo ed Età Orientalizzante. Infine indicano chiaramente diversità tra i ruoli femminile e maschile tanti oggetti di lusso e di prestigio e corredi funerari.La mostra è realizzata con il sostegno di Sapienza Università di Roma, per i materiali degli scavi del Palatino e della Velia, dell’Università della Calabria e dell’University of Michigan,per i nuovi materiali di Sant’Omobono. Si avvale inoltre, sempre in collaborazione con il Mibac, di preziosi prestiti da parte del Museo Nazionale Romano e del Museo delle Civiltà, e da parte della Soprintendenza per l’Area Metropolitana di Napoli.
L’archeologo Filippo Coarelli scrive: «Lo scrittore greco Strabone, che visse all’epoca di Augusto, notava che tra la città di Ostia, alla foce del Tevere, non esistevano centri abitati di qualche importanza. Ma non era stato sempre così: tra la fine dell’età del Bronzo e l’inizio dell’età del Ferro una fitta rete di villaggi aveva occupato quasi ogni collina lungo il fiume: nel sito della futura Roma, sul Campidoglio, un insediamento esisteva fin dal XVI secolo avanti Cristo.
La tradizione afferma che la città sarebbe sorta per “sinecismo”, ovvero per mezzo dell’unificazione di entità politiche precedentemente indipendenti in una città ad organizzazione statale, basato però sull’assoggettamento al più importante centro abitato, quello del Palatino, dei villaggi circostanti.
I primi tentativi di urbanizzazione coincidono con l’incremento della produttività agricola e sono contemporanei all’inizio della colonizzazione greca, che non a caso coincide cronologicamente con la data tradizionale della fondazione di Roma, metà dell’VIII secolo avanti Cristo. L’inizio dei rapporti tra Roma e queste prime colonie, Pithecusa/Ischia, Cuma è praticamente immediato, come dimostra la ceramica greca dell’VIII secolo scoperta nel Foro Boario.Una fase estremamente importante per lo sviluppo della città coincide con la seconda metà del VII secolo avanti Cristo, e cioè, secondo la tradizione, con il regno di Anco Marcio. Questi avrebbe creato il primo ponte di legno sul Tevere, il Sublicio, e provveduto a proteggerne la testata sulla riva destra, occupando il Gianicolo. Contemporaneamente, egli avrebbe costruito il porto alle foci del Tevere, Ostia, assicurandone il collegamento con Roma tramite l’eliminazione di tutti i centri abitati posti nel tratto intermedio, sulla riva sinistra del Tevere. I dati archeologici sembrano confermare la tradizione anche su questo punto.
Il potenziamento del centro urbano, e delle possibilità insite nella sua posizione privilegiata, alla fine del VII secolo avanti Cristo spiega l’immediato intervento degli Etruschi, per i quali Roma era divenuta una posizione chiave.
Il secolo in cui Roma, pur senza perdere il suo carattere etnico e culturale latino, fu governato da una dinastia etrusca coincide con la sua definitiva urbanizzazione. Da un punto di vista amministrativo, la città è divisa in quattro regioni, o tribù territoriali: Palatina, Collina, Esquilina e Suburana, comprendenti una superficie assai più ampia di quella originaria del Palatino e della quale le Mura Serviane, il cui tracciato nel VI secolo avanti Cristo coincide quasi perfettamente con il successivo rifacimento del IV secolo avanti Cristo, possono darci un’idea: la superficie inclusa,anche se non tutta abitata, è di ben 426 ettari, superiore cioè a quella di qualsiasi altra città dell’Italia peninsulare. La ricchezza e la potenza della “Grande Roma dei Tarquini” risultano anche dal numero e dalle dimensioni dei santuari che allora vengono realizzati, principale fra tutti quello di Giove Capitolino, di gran lunga il più grande tempio etrusco a noi noto.
Ma l’attività dei dinasti etruschi non si limita ai santuari: abbiamo già ricordato la grandiosa cerchia di mura, che nella sua fase più antica, in blocchi di cappellaccio, risale molto probabilmente alla metà del VI secolo avanti Cristo. Altrettanto imponente fu il sistema di canalizzazioni e fognature realizzato dai Tarquini, che, risanando i fondovalle paludosi e malsani, ne rese possibile l’urbanizzazione: principale fra tutte la Cloaca Maxima, che bonificò la valle del Foro, allora per la prima volta pavimentata, e l’altro canale che drenò la vallis Murcia, dove, sempre a opera dei Tarquini, sarebbe stato realizzato il primo edificio per gli spettacoli, il Circo Massimo». -
Il Campidoglio, maestà e sacralità dell’Urbe
26 Luglio 2018 by Ornella Massa
Il Campidoglio è il più piccolo e il meno esteso dei sette colli, ma di certo il più augusto. Centro religioso e politico di Roma antica, è tuttora il cuore della maestà
dell’Urbe e sede del governo cittadino. Il suo nome è universalmente riconosciuto come la somma espressione dell’idea di società organizzata in forma di Stato.
La collina, alta 50 metri, presenta due sommità divise da un’insellatura, oggi Piazza del Campidoglio; su quella meridionale si ammirava il Tempio della Triade Capitolina, il più venerato di Roma. Su quella settentrionale – ora occupata dalla Basilica dell’Ara Coeli – s’innalzava la vera rocca, l’Arx, con funzioni difensive per tutto il tempo della Repubblica. Vi sorgeva il Tempio della Virtus e quello di Giunone Moneta, cioè “ammonitrice”.
La conformazione del colle, con ripidi pendii tufacei sulla pianura acquitrinosa del Velabro, e la sua posizione sul Tevere nel punto in cui il fiume aveva dei guadi, giocarono un ruolo fondamentale nelle vicende del Campidoglio. L’accesso avveniva attraverso un’unica strada, il Clivus Capitolinus, attuale via del Campidoglio, che partiva dal Foro Romano come continuazione della Via Sacra e arrivava all’Area Capitolina, dinanzi al Tempio di Giove. Gli altri accessi erano due scalinate:le Scalae Gemoniae che salivano all’Arx, l’attuale scalinata presso il Carcere Mamertino che oggi conduce al Campidoglio, e i Centus Gradus situati sul versante opposto e che all’altezza del Teatro di Marcello conducevano al Capitolium.
La tradizione narra che un centro abitato, forse il più antico sorto nell’area della futura Roma, sarebbe stato fondato da Saturno sopra il colle: l’antichità del villaggio è provata dalla ceramica dell’età del Bronzo, XIV – XIII secolo avanti Cristo, scoperta proprio ai piedi del Campidoglio. Le leggende tramandano il ricordo di fondazioni antichissime e di lotte feroci tra Sabini, insediati sul Quirinale, e Romani, che invece abitavano il Palatino, per assicurarsi il controllo del colle capitolino, che culmineranno nel celebre episodio del tradimento di Tarpea, la figlia del comandante della guarnigione del Campidoglio, che avrebbe aperto le porte agli invasori sabini in cambio di monili.Questi, per tutto compenso, l’avrebbero uccisa, seppellendola sotto gli scudi. Tarpea, in origine, era la divinità tutelare del colle, Mons Tarpeius è il nome di una delle due cime del Campidoglio, e il nome di Rupe Tarpea fu sempre attribuito al precipizio meridionale del colle: da qui, in ricordo del misfatto di Tarpea, venivano gettati i rei di tradimento e di altri gravi delitti contro lo Stato. La statua della divinità, sorgente da una catasta di armi, a mo’ di trofeo, deve essere all’origine della leggenda. Secondo i Mirabilia Urbis Romae, racconti medioevali tra fantasia e verità equivalenti alle nostre guide turistiche diffusi dal XII al XVI secolo, si dice che sul colle sorgesse un’altissima torre che emanava luccichii d’oro di giorno e balenii di lampada ardente di notte, per additare ai nocchieri del mar Tirreno che lì era Roma.
L’incendio dell’83 avanti Cristo devastò il Campidoglio: in conseguenza di ciò il colle fu sottoposto a importanti lavori di ricostruzione, in occasione dei quali fu edificato i Tabularium. Altri incendi lo devastarono: nel 69 dopo Cristo durante la battaglia tra i partigiani di Vespasiano e i sostenitori di Vitellio e nell’80 dopo Cristo. Toccò a Domiziano, divenuto imperatore nell’81, l’onore della ricostruzione.
Esauritasi la funzione difensiva dell’Arx in epoca imperiale, il Campidoglio rimase unicamente come sede delle più solenni cerimonie celebrative e rituali, teatro dei trionfi militari. Fu poi progressivamente abbandonato alla fine del mondo antico tanto da essere denominato Monte Caprino perchè ridotto a pascolo per le capre o Colle di Fabatosta perché, nel mercato che vi si svolgeva, si vendevano le fave, secche o fresche che fossero, un cibo povero per una popolazione povera.La sacralità delle antiche funzioni lasciò comunque al colle un’eredità affascinante: gli imperatori germanici vennero qui a sottoporre formalmente il loro potere all’avallo del popolo romano. Poi vennero i poeti a ricevere la corona d’alloro come gli antichi trionfatori. Petrarca, su tutti, che ne fu cinto nel 1341.
La ripresa del Campidoglio avvenne all’inizio dell’età moderna fino alla definitiva rinascita nel XVI secolo con la sistemazione michelangiolesca. La bellezza della Piazza del Campidoglio, un unicum urbanistico e architettonico che reca evidente il suggello del genio di Michelangelo, si manifesta di colpo salendovi dalla monumentale rampa: grandiosa e armoniosa per l’impianto architettonico, la giustezza delle proporzioni e la coerenza stilistica dei tre palazzi – dei Conservatori, Senatorio e Museo Capitolino – che la limitano senza chiuderla. Una terrazza permette di apprezzare tutta la vista sul Foro Romano e sul Palatino, cuore e origine di Roma. Da lì templi, basiliche, archi monumentali ci rimandano alle tre funzioni che caratterizzavano la più antica piazza di Roma: funzione religiosa, politica e di mercato.Alla destra del Campidoglio si erge la Basilica dell’Aracoeli, denominata anticamente Santa Maria in Capitolio. Il nome attuale si impose nel 1323 per via di una leggenda tratta dalle Mirabilia Urbis Romae che vuole la chiesa sorta là dove l’imperatore Augusto avrebbe avuto la visione di una donna con un bambino in braccio e avrebbe udito una voce che diceva: «Questa è l’ara del Figlio di Dio». Essa sorse sulle rovine del tempio di Giunone Moneta attorno al VII secolo.
L’imponente scalea fu commissionata dal libero comune di Roma nel 1348 e inaugurata da Cola di Rienzo come voto alla Madonna affinché ponesse fine alla peste che imperversava in tutta Europa, e realizzata con i marmi di spoglio ricavati da ciò che rimaneva del Tempio di Serapide al Quirinale. Per questo l’Aracoeli è stata sempre considerata la chiesa del popolo romano e delle sue istituzioni civiche, in particolare il vicino Senato. Sempre qui si svolse il trionfo di Marcantonio Colonna dopo la battaglia di Lepanto del 1571, a ricordo del quale fu costruito lo splendido soffitto ligneo con profusione d’oro.Roma, 26 luglio 2018
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Duilio Cambellotti. Mito, sogno e realtà
22 Luglio 2018 by Ornella Massa
La mostra a cura di Daniela Fonti, responsabile scientifico dell’Archivio dell’Opera di
Duilio Cambellotti di Roma e Francesco Tetro, ideatore e direttore del Civico Museo “Duilio Cambellotti” di Latina [1], raccoglie circa duecento opere del pittore, scultore, incisore, designer, ceramista e scenografo romano Duilio Cambellotti, 1876-1960, provenienti da ambedue gli istituti regionali [2], apportando un nuovo, imprescindibile contributo alla conoscenza della sua poliedrica produzione.
Appresi i rudimenti dell’arte sin dall’età di dieci anni, dal padre scultore in legno, tra il 1893 e il 1895 Cambellotti frequentò il Museo Artistico Industriale sotto la guida di Alessandro Morani e Raffaello Ojetti. Tra la seconda metà degli anni novanta e il primo decennio del Novecento si affermò quale disegnatore di manifesti, lampade, specchi e cornici per ditte italiane e straniere, iniziando a collaborare con celebri riviste, quali Novissima, Il Tirso e La Casa, e autori di opere illustrate, come De Fonseca e Amantea, e a realizzare scenografie e costumi per spettacoli teatrali, tra cui La nave di D’Annunzio.
Interessato alla xilografia a partire dal decennio seguente, sino agli anni cinquanta prese parte a una serie di esposizioni nazionali e internazionali, Vetrata Artistica, Internazionale di Arti Decorative di Monza, Società Amatori e Scultori di Roma, e offrì il suo contributo alla decorazione e all’arredamento di chiese e palazzi pubblici, mantenendo sempre saldo il suo legame con il mondo del teatro, come testimoniato dalla progettazione e realizzazione delle scenografie e dei costumi per gli spettacoli classici del Teatro greco di Siracusa [3].
Se i rapporti con l’architetto e archeologo Giacomo Boni lo avvicinarono allafotografia, alla grafica pubblicitaria, ma anche alla realtà sociale della campagna romana e dell’Agro pontino, gli insegnamenti del Morani lo resero sensibile al recupero delle tecniche più antiche, dall’affresco, alla vetrata, al mosaico, all’encausto [4]. E se nella produzione ceramica si percepiscono influenze dalla tradizione popolare italiana e dal Medio e Vicino Oriente [5], nei rilievi, nei cofanetti in legno, nei vasi, nelle medaglie e nelle altre opere plastiche emerge quell’ispirazione classica, contaminata dalle teorie dell’“Arts and Crafts” inglese, che riflette la sua concezione dell’arte quale “mezzo per la diffusione della cultura presso le masse contadine”, in accordo con la funzione sociale dell’arte secondo Morris. [6].
Le opere in mostra consentono di ripercorre le tappe dell’evoluzione creativa di uno dei maggiori esponenti italiani dell’Art Nouveau, analizzandone “l’ossessione per la tecnica e l’ambizione verso l’opera d’arte totale” [7]: dalle sculture in terracotta, gesso e bronzo; ai costumi, modellini e manifesti per il teatro; ai mobili, alle oreficerie e ceramiche; agli elementi d’arredo e alle vetrate artistiche; agli schizzi, bozzetti e studi per film; sino alle stampe e illustrazioni, ad esempio per la Divina Commedia. Del Liberty, in particolare, Cambellotti condivideva «la ricerca della bellezza nella funzione dell’oggetto utile, le ragioni del rapporto che lega le arti cosiddette maggiori e le applicate in una visione unitaria di stile che sia lo specchio di una civiltà umanistica, rispettosa del valore dell’individuo e della collettività» [8].
Una costante nella produzione di Duilio Cambellotti, le vetrate policrome,rappresentano il principale traît-d’union con l’affascinante contesto dell’esposizione: oltre infatti a quelle per la Prima Mostra della Vetrata, 1912, e per il santuario di Montevergine, 1957-59, l’artista mise a punto tra il 1914 e il 1921 le celebri vetrate delle “Due civette” e dei “Tre ovali di edera” e il “Vetratone a soggetto: l’uva”, assieme ad altre disperse, alcune delle quali rinvenute ed esposte in mostra, prodotte nel laboratorio del vetraio Cesare Picchiarini e installate nella Casina delle Civette, la Capanna Svizzera a cui è stato dato il nome attuale proprio grazie alle vetrate con il soggetto della civetta disegnate da Cambellotti, insieme alle prove di Umberto Bottazzi, Vittorio Grassi e Paolo Paschetto [9]. Dimora del principe Giovanni Torlonia Jr. sino alla sua morte nel 1938, la Casina è il risultato di trasformazioni e integrazioni alla Capanna ottocentesca, realizzata ai margini del parco e pertanto considerata un luogo di evasione dagli impegni ufficiali. Edificata nel 1840 da Giuseppe Jappelli per Alessandro Torlonia, dal 1908 quest’ultima subì la radicale trasformazione che le fece assumere l’aspetto di un Villaggio Medioevale, per via delle logge, dei porticati e delle variopinte decorazioni in maioliche e vetrate.
Il Casino Nobile non è che l’esito della ristrutturazione ed estensione dell’antica Vigna Colonna, eseguite da Giuseppe Valadier tra il 1802 e il 1806 per volontà di Giovanni Torlonia, che aveva acquisito la struttura sul finire del secolo precedente; concepito quale palazzo principale, doveva espletare le funzioni di rappresentanza. Il Casino dei Principi deve egualmente il suo aspetto attuale alla ristrutturazione, in stile neocinquecentesco, operata da Giovan Battista Caretti tra il 1835 e il 1840 sul piccolo, settecentesco, edificio rurale della Vigna Abati; in maniera speculare alla Casina delle Civette, l’edificio fu adibito dallo stesso Alessandro alle attivitàmondane [10]. Dispiegandosi nei tre Casini della Villa, la mostra stabilisce tra i principali edifici storici del complesso un inevitabile filo conduttore attraverso la figura del Cambellotti: un «genio realistico e visionario», che combinando «mito, fiaba e realtà contemporanea» [11] aveva inteso «rovesciare» la tradizionale «gerarchia delle arti» prendendo le distanze dalla «bellezza decorativa fine a se stessa» e restituendo all’arte uno spessore morale e sociale [12].
Note
[1] http://www.museivillatorlonia.it
[2] Prof. Avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele in Duilio Cambellotti. Mito, sogno e realtà, catalogo della mostra (Roma, Musei di Villa Torlonia, Casino dei Principi, Casino Nobile e Casina delle Civette, 6 giugno-11 novembre 2018), a cura di D. Fonti e F. Tetro, Cinisello Balsamo 2018, s.n.
[3] Duilio Cambellotti. Pitture, sculture, opere grafiche, vetrate, scenografie (Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma), catalogo a cura di M. Manzella, F. Bellonzi, M. Quesada, Roma 1983, pp. 11-12
[4] F. Tetro, Ideologia e iconografia. Paesaggio e storia, culto del “Miles Agricola”, in Duilio Cambellotti. Mito, sogno e realtà… (cit.), pp. 28-43 (in part. p. 29)
[5] E. Longo, Cambellotti, la ceramica e le fonti di ispirazione, in Duilio Cambellotti. Mito, sogno e realtà… (cit.), pp. 110-117 (in part. p. 111)
[6] M. Quesada, Introduzione alla scultura di Cambellotti, in Id., Duilio Cambellotti scultore & l’Agro Pontino. Ceramiche, bronzi, gessi, opere, progetti, frammenti, Roma 1984, pp. 13-22 (in part. p. 15)[7] Prof. Avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele (cit.)
[8] F. Bellonzi in Duilio Cambellotti. Pitture, sculture, opere grafiche, vetrate, scenografie… (cit.), p. 8
[9] A. Campitelli, Grafica e luce: bozzetti, cartoni, vetrate, in Duilio Cambellotti. Mito, sogno e realtà… (cit.), pp. 60-67
[10] http://www.museivillatorlonia.it
[11] N. Muratore, I. De Stefano, Realtà e fantasia: la produzione grafica di Duilio Cambellotti, in Duilio Cambellotti. Mito, segno e immagine, catalogo della mostra (Roma, Galleria d’Arte F. Russo, 18 novembre-16 dicembre 2006) a cura di D. Fonti, N. Muratore, I. De Stefano, Roma 2006, pp. 79-83 (in part. p. 80)
[12] A.M Damigella, Caratteri e temi dell’arte di Cambellotti, in Cambellotti (1876-1960), catalogo della mostra (Roma, Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, 24 settembre 1999-23 gennaio 2000), a cura di G. Bonasegale e A.M. Damigella, Roma 1999, pp. 11-20 (in part. pp. 12-13).Roma, 22 luglio 2018