Il luogo più caro all’imperatore Adriano non fu Roma, e neppure la sua amata Atene, bensì Tivoli, dove Adriano fa costruire, probabilmente almeno in parte sulla base di
propri progetti, la monumentale villa che porta il suo nome, e i cui resti coprono un’area di oltre 100 ettari. A Villa Adriana la grande tradizione romana della villa di otium, una tradizione peraltro assai presente nel mosso paesaggio tiburtino, con esempi anche significativi, ampia, fantasiosa, lussuosa fino all’eccesso, si incontra con i prestigiosi modelli delle architetture d’apparato delle regge ellenistiche, trovando formulazioni originali tramite l’applicazione delle acquisizioni della tecnica costruttiva di età neroniana e flavia, che favoriscono lo sviluppo di quelle tendenze imposte da Adriano in ambito architettonico anche nell’Urbe, come la predilezione per le formule planimetriche curvilinee e per gli ambienti voltati a cupola.
La complessità e l’infinita varietà dell’insieme non è tuttavia riducibile a mero sfoggio esteriore di magnificenza e di sfarzo, perché Villa Adriana è molto di più di una residenza imperiale: è forse la più sincera, la più diretta creazione di un uomo dalla complessa personalità, profondamente colto e che conosce il mondo, della cui infinita ricchezza e bellezza intende fare un compendio nel luogo in cui ha scelto di vivere. Sparziano, nell’Historia Augusta, Adriano – 26, ricorda come Adriano avesse riprodotto nella propria villa i luoghi visitati nel corso dei suoi viaggi, come il Liceo e l’Accademia di Atene, templi della filosofia, o il Pecile, che ad Atene conservava
opere di alcuni tra i più grandi pittori greci, Polignoto e Micone, o il celebre canale di Alessandria, il Canopo, o ancora la Valle di Tempe in Tessaglia, celebre per le sue bellezze naturali; e sulla base di questo passo per secoli si è cercato di ricostruire questa topografia miniaturizzata tra i resti di Villa Adriana, anche allo scopo di avere informazioni planimetriche sugli edifici originali. Ma non è certo una riproduzione fedele dei monumenti e dei luoghi visitati ciò a cui Adriano mira, quanto piuttosto la costruzione di una geografia ideale, del cuore e dell’intelletto, che sia un serbatoio di ricordi personali e di memorie erudite, ma che sia anche la rappresentazione enciclopedica, onnicomprensiva, del mondo su cui Roma domina. C’è un continuo gioco tra microcosmo e macrocosmo, a Villa Adriana, di cui costituisce un esempio rappresentativo il cosiddetto Teatro Marittimo, l’isolotto artificiale, delimitato da un euripo circolare, che è una sorta di “villa nella villa”, completa di ogni comfort, compresi impianto termale e biblioteca.
Ed è un’ambizione enciclopedica a informare anche l’apparato decorativo, che fa di Villa Adriana un dovizioso museo, ricco di pitture, di stucchi, di splendidi mosaici, di rilievi e soprattutto di sculture a tutto tondo. Queste ultime, in particolare, sono copie che consentono di ripercorrere idealmente il cammino dell’arte greca, cominciando almeno dal gruppo dei Tirannicidi di Crizio e Nesiote, per proseguire con i maestri del V secolo, da Mirone con il suo Discobolo a Fidia, con l’Amazzone tipo Mattei, a Cresila, con l’Amazzone tipo Sciarra e la Pallade tipo Velletri; ricco il campionario di copie di sculture di IV secolo avanti Cristo, nel quale emerge l’Afrodite Cnidia collocata all’interno di un monoptero di ordine dorico in uno degli angoli più suggestivi dell’intera residenza, forse evocativo della collocazione
originaria dell’opera prassitelica sull’isola di Cnido; ben rappresentata, infine, la scultura ellenistica, con copie di opere assai apprezzate in epoca romana come l’Afrodite di Dedalsa e il gruppo di Eros e Psiche, e di originali di scuola pergamena e rodia, come il Pasquino, il gruppo dell’accecamento di Polifemo e quello di Scilla che assale la nave di Ulisse. Le sculture, così come i rilievi e i mosaici, sono di notevole qualità, prodotti di un artigianato artistico di raffinato tecnicismo, il cui sviluppo è determinato dal fervore edilizio che si diffonde in età adrianea in ogni angolo dell’impero. È questo clima a favorire l’affermazione di scuole di scultori specializzati e itineranti, tra le quali spicca quella di Afrodisia di Caria: eclettici, virtuosi di tutte le tecniche, conoscitori di tutti gli stili, capaci di lavorare con ogni tipo di marmo, gli scultori afrodisiensi, già attivi a Roma nel grande cantiere delle terme di Traiano, lavorano alacremente per Adriano, interpretando con abilità le sue preferenze e i suoi gusti in campo artistico, e realizzando per la sua residenza tiburtina alcune delle opere scultoree più celebri del complesso, come i due Centauri in marmo bigio morato, firmati da Aristea e Papia, oggi ai Musei Capitolini, caratterizzati da un’esasperazione virtuosistica della resa anatomica che ha conosciuto, fin dal loro rinvenimento nel 1736, una fortuna critica altalenante, tra entusiasmi e critiche feroci.
Divina bellezza: Antinoo
È un artista di Afrodisia, Antoniano, a firmare uno splendido rilievo, palesemente ispirato alle stele funerarie attiche di V secolo avanti Cristo, nel quale compare,
identificato con Silvano, dio latino dei boschi e protettore dell’agricoltura e delle greggi, la figura più emblematica dell’età adrianea: Antinoo. Antinoo è il giovane, bellissimo favorito bitinio dell’imperatore, morto nel 130, appena ventenne, per annegamento, in circostanze poco chiare, in Egitto, nei pressi di Hermoupolis: un salvataggio nel Nilo dello stesso Adriano?, una disgrazia? un suicidio rituale? un omicidio politico?. La sua figura e la sua relazione con Adriano sono al centro del romanzo più bello, e meglio documentato, ispirato al mondo antico che sia mai stato scritto, le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
La morte del giovane getta Adriano in una disperazione considerata con disapprovazione dai biografi antichi, e lo conduce a tributargli una serie di onori di gran lunga superiori a quelli normalmente attribuibili a chiunque non sia un imperatore: nel luogo della sua morte fonda una città, Antinopoli, fa celebrare con feste sontuose gli anniversari della sua nascita e della sua morte, e soprattutto incentiva intorno alla sua figura, divinizzata e assurta al cielo sotto forma di costellazione, un culto che si diffonde in varie città dell’impero, ma anche in Italia: il già citato rilievo di Antoniano viene da Lanuvio, dove si trova un tempio per la venerazione del nuovo dio, associato ad Artemide. Gli atti di Adriano sono certo dettati dal dolore; ma dietro essi è probabilmente da leggersi anche un accorto calcolo politico, teso a colmare il vuoto religioso che caratterizza il periodo con un culto unificante, da diffondere in tutto l’impero, strettamente connesso alla casa imperiale, e anzi emanazione dello stesso imperatore.
Il culto di Antinoo probabilmente si spegne poco dopo la morte di Adriano, ma la sua diffusione, per quanto effimera, è dimostrata dalla massiccia presenza delle immagini del giovane in statue, busti, teste-ritratto, gemme, che ne riproducono all’infinito il volto malinconico, dagli occhi allungati e dalle labbra sensuali, dalle linee carnose ed ampie, coronato dalla massa chiaroscurata della capigliatura a folti riccioli corposi, che crea un suggestivo contrasto coloristico con i piani luminosi del viso. Nelle immagini a figura intera Antinoo è assimilato spesso a figure di dèi giovani come Apollo o Dioniso (di cui già l’arte ellenistica aveva enfatizzato le forme molli e sensuali, talvolta quasi androgine) o di personaggi mitici segnati da un destino doloroso, in cui si intrecciano amore e morte, come Ganimede o Attis; assume un significato particolare l’assimilazione ad Osiride, ispirata dal luogo in cui Antinoo ha trovato la morte, ma anche dalla drammatica vicenda mitica di morte e resurrezione della divinità egizia, che verosimilmente costituisce il tema del complesso programma iconografico del triclinio estivo, noto come Canopo, di Villa Adriana. È a proposito dell’elaborazione dell’iconografia di Antinoo che gli storici dell’arte hanno potuto parlare di creazione dell’ultimo tipo di statua atletica classica, spingendosi sino a definire, come ha fatto la studiosa inglese Jocelyn Toynbee in un libro celebre, l’arte adrianea “un capitolo della storia dell’arte greca classica”. Ma il classicismo adrianeo, inquieto, soffuso di malinconia, aperto a contaminazioni e suggestioni, è ben diverso da quello nitido e sereno, rassicurante, dell’età augustea, al punto che Ranuccio Bianchi Bandinelli ha potuto anzi riconoscervi tendenze romantiche, parlando della “prima apparizione di elementi romantici nella cultura europea”.
Nella scultura ufficiale adrianea, destinata a eternare il ricordo dei riti e delle cerimonie imperiali, le forme classiche di rigore diventano addirittura gelide, come nei due rilievi reimpiegati in età tardoantica nel cosiddetto Arco di Portogallo, in uno dei quali compare l’apoteosi di Sabina, la moglie morosa “bisbetica” e poco amata di Adriano, morta e divinizzata nel 136. Un tono più caldo e sincero assumono gli stilemi classici nei celebri “tondi” reimpiegati nel IV secolo nell’arco di Costantino, che si possono annoverare tra i prodotti più felici dell’arte dell’età di Adriano. I rilievi sono otto, di notevoli dimensioni, oltre due metri di diametro, e presentano episodi di caccia, al cinghiale, all’orso, al leone, alternati a scene di sacrificio, a Diana, a
Silvano, a Ercole, ad Apollo, e uno, che in origine doveva essere il primo della serie, raffigura la partenza per la caccia; secondo il gusto classico, le poche figure si stagliano nitide sul fondo neutro, appena interrotto da elementi paesistici che conferiscono alle composizioni un tono rarefatto, quasi sognante. Nulla è noto circa il monumento di cui facevano originariamente parte questi rilievi, assai singolari sia per la forma circolare che per la scelta del tema venatorio, che inizierà a conoscere una fortuna crescente nella produzione artistica romana soltanto dopo l’età adrianea, nonostante la forte valenza simbolica di cui la caccia, intesa come manifestazione del potere e della virtù del sovrano, era stata investita già nell’arte dell’Egitto faraonico e in quella del Vicino Oriente antico, in quella persiana e infine in quella greca ellenistica di ambiente dinastico, sulla scia delle celebri cacce di Alessandro Magno. Una interessante ipotesi di Filippo Coarelli attribuisce i tondi ad una struttura, forse un arco di ingresso, connessa alla tomba di Antinoo a Roma, alla quale farebbe riferimento l’iscrizione geroglifica su un obelisco oggi eretto tra i vialetti del Pincio, e da localizzare forse nell’area della Vigna Barberini, tra la residenza imperiale sul Palatino e il tempio di Venere e Roma.
La recente scoperta a Villa Adriana di un’esedra monumentale con una ricca decorazione scultorea di gusto egittizzante, il cosiddetto Antinoeion, ha riaperto la questione della tomba di Antinoo; ma sembra incontestabile l’idea di un rapporto particolare delle scene dei tondi dell’arco di Costantino con la figura del favorito imperiale. In effetti il giovane bitinio compare in tutti i tondi, ad eccezione di quello che raffigura il sacrificio ad Apollo; nella serie dei rilievi sarà forse da leggersi una sorta di “storia sacra” della vita del favorito imperiale, scandita, con un chiaro
intento di eroizzazione, dalla sua partecipazione al fianco di Adriano, appassionato di arte venatoria, come sappiamo dalle fonti antiche, a battute di caccia, compresa quella, da riconoscere nel tondo con la caccia al leone, nel deserto egiziano, in cui il giovane aveva rischiato la vita proprio pochi giorni prima della sua tragica fine ad Hermoupolis; la sequenza doveva concludersi proprio con il sacrificio ad Apollo, in cui il giovane non compare perché già divinizzato ed assimilato al dio delfico. Il tema della composizione si configura dunque come assolutamente inedito, privo di precedenti nella tradizione dell’arte ufficiale romana, perché intimamente legato al vissuto dell’imperatore, al suo privato, per quanto rielaborato in un monumento rivolto al pubblico; e l’abusato linguaggio formale classico trova accenti di rinnovata autenticità per esprimere i sentimenti di un uomo cui la Yourcenaur fa dire: «L’impero, l’ho governato in latino […]; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto».
Roma, 30 giugno 2018