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  1. Egizi Etruschi. Da Eugene Berman allo Scarabeo Dorato

    L’incontro e il confronto tra due grandi civiltà del Mediterraneo è al centro dell’affascinante mostra Egizi Etruschi da Eugene Berman allo Scarabeo Dorato alla Centrale Montemartini. Un confronto, che trae spunto dai preziosi oggetti egizi, databili tra l’VIII e il III secolo avanti Cristo, rinvenuti nelle recentissime campagne di scavo condotte a Vulci, importante città dell’Etruria meridionale, e che è anche un’occasione di riflessione sul valore del dialogo tra le culture, e sul valore dello scambio che sono stati da sempre fonte di progresso per i popoli.

    Maschera d’oro dalla collezione Berman.

    Alle inedite scoperte di Vulci, si aggiungono i preziosi reperti egizi della Collezione Berman e le opere in prestito dalla Sezione Egizia del Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Tutte queste testimonianze raccontano degli scambi commerciali ma, soprattutto, del dialogo culturale tra civiltà che condivisero ideali di regalità, simboli di potere e pratiche religiose.
    La mostra si apre con una sezione introduttiva divisa in due parti. La prima, dal titolo “Il fascino dell’Egitto e dell’Etruria nelle collezioni di Augusto Castellani e Giovanni Barracco” permette di cogliere il gusto del collezionismo ottocentesco, attraverso quello di due cultori delle grandi civiltà del mondo antico, Augusto Castellani e Giovanni Barracco, che vissero e operarono negli stessi anni A loro è dedicata la prima parte della sezione introduttiva della mostra. I due collezionisti, infatti, furono tra i maggiori esperti di arte antica dell’Ottocento, legati al composito e multiforme scenario romano della ricerca archeologica e del commercio antiquario. Entrambi, con atto di liberalità, destinarono le loro collezioni al Comune di Roma: Castellani arricchendo i Musei Capitolini e Barracco inaugurando nel 1905 un “Museo di scultura antica” ospitato in un piccolo edificio neoclassico costruito appositamente, oggi indicato con il nome di Museo Barracco.
    La seconda parte della prima sezione, dal titolo “Eugene Berman. Riflessi di antiche civiltà nella scenografia teatrale”, è l’occasione di apprezzare le preziose opere egizie della collezione di Eugene Berman, pittore, illustratore, scenografo e collezionista d’arte russo, donate nel 1952 alla Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria meridionale. Da qui si parte per il vero e proprio percorso espositivo suddiviso in sei sezioni, attraverso le quali i curatori Alfonsina Russo, Claudio Parisi Presicce, Simona Carosi e Antonella Magagnini, hanno voluto indagare e mettere in evidenza i legami e le differenze tra alcuni degli aspetti più peculiari delle civiltà etrusca ed egizia, utilizzando anche i necessari apparati multimediali e didattici che arricchiscono il racconto, accompagnando il visitatore in questo particolare viaggio nel tempo.

    Maschera d’oro e usekh dalla collezione Berman.

    Tra i primi reperti esposti nella seconda sezione, alcune maschere funerarie egizie della collezione Berman, in particolare due esempi di maschere dorate. Osservando questi reperti con attenzione si notano le caratteristiche collane usekh, ovvero le collane composte da più giri di perle o catenine d’oro cui erano appesi numerosi pendenti, che in Egitto venivano indossate sia da uomini che da donne. Queste collane consentono un raffronto con l’oreficeria etrusca, non soltanto per una sorta di transfer tecnologico, ovvero con l’introduzione di nuove tecniche di lavorazione dell’oro, ma anche e soprattutto per il patrimonio immateriale che lo ha seguito, visibile in elementi iconografici e simbolici. A partire dalla fine dell’VIII secolo – inizi VII secolo avanti Cristo, infatti, vengono introdotti nell’oreficeria etrusca nuovi elementi decorativi come i crescenti lunari e i motivi solari, la così detta “signora degli animali”, elemento decorativo del bracciale della Tomba Regolini Galassi di Cerveteri, di cui in mostra sono presenti splendide riproduzioni fotografiche.
    Questi elementi, i cui temi decorativi sono associati non solo alla preziosità del metallo ma hanno anche un importante valore salvifico e apotropaico, si trovano anche su tre pendenti in argento rivestiti di oro della Tomba degli Ori di Vulci, parte di una complessa decorazione dell’abito cerimoniale di una defunta di altissimo rango, e su di una lamina d’argento della Tomba delle Mani D’Argento di Vulci, anche in questo caso facente parte di una sepoltura femminile di alto rango. I reperti relativi a queste due tombe, invece, sono esposti e consentono al visitatore di immergersi nel variegato mondo del bacino del Mediterraneo, fatto, appunto, di scambi di produzioni artigianali e di conoscenze immateriali. Questi scambi indussero le élite aristocratiche etrusche, ma anche la nuova oligarchia mercantile alla ricerca di un riconoscimento della propria posizione nella società, a lasciarsi influenzare dalle credenze egizie in ambito funerario e dai concetti di divinizzazione e di immortalità legati all’oro, facendone uso nei propri corredi funerari.

    Scarabeo in castone dorato dalla Romba dello Scarabeo d’Oro di Vulci

    Nelle due sezioni successive è affrontato il tema della regalità nel Vicino Oriente Antico e come essa fu recepita con successo nel mondo etrusco e il tema dell’immortalità.
    In rappresentanza del mondo egizio vengono presentati alcuni reperti, provenienti dalla collezione Berman e relativi a due tra i più celebri personaggi dell’antico Egitto: Akhenaton e la Grande Sposa Reale Nefertiti.
    Il tema della regalità è anche affrontato attraverso il confronto tra gli scarabei egizi e quelli etruschi, e la rappresentazione nelle due culture del leone quale animale non solo simbolo di regalità, ma anche della fama immortale.
    Per il mondo etrusco i reperti esposti sono quelli della tomba dello Scarabeo Dorato, rinvenuta nella necropoli di Poggio Manganelli a Vulci. La tomba ospitava una giovinetta di 13 – 14 anni di età, il cui corpo è stato deposto con un corredo caratterizzato da ornamenti preziosi provenienti dall’Egitto insieme a ceramiche utilizzate per il banchetto funebre. Il tutto può essere datato all’ VIII – inizi VII secolo avanti Cristo. Del corredo funerario fanno parte la collana di ambra che testimonia l’arrivo di goielli dal nord Europa, gli scarabei e la simbologia ad essi associata si diffondono in Etruria attraverso i Greci che si erano insediati a Pithecusa, ovvero Ischia.

    Scarabeo dalla Toma dello Scarabeo Dorato di Vulci.

    In questo particolare caso sono ritrovati insieme due scarabei, incastonati in oro e in elettro, una lega di oro e argento. Sul primo scarabeo è riprodotto il segno che rappresenta la piuma della giustizia e sono incisi crittogrammi che richiamano il dio Amon, il Signore degli dei egizi, e la dea pantera Mafdet, dea che accompagna il defunto nell’Aldilà. Il secondo scarabeo richiama la figura di Horus, la divinità falco, e la barca del mattino, che per gli egizi indicava la rinascita.
    Il fatto che gli scarabei sono due e che essi siano stati trovati all’interno della medesima sepoltura indica una volontà precisa di far accompagnare la giovane defunta da simboli egizi che fanno riferimento e augurano una continuità di vita oltre la morte.
    Il rapporto con la morte, con l’aldilà e con la rinascita del mondo etrusco è ulteriormente affrontato con l’esposizione di reperti provenienti dalla camera centrale della Tomba delle Mani d’Argento, ritrovata nel 2013 a Vulci insieme con altre sepolture aristocratiche. Il suo ampio corredo funerario che comprende eccezionalmente anche uno sphyrelaton, una statua polimaterica con funzione di simulacro del defunto, fatto di legno e stoffa da cui provengono le celebri mani in argento e oro, con collo in osso, corpo ricoperto da una veste decorata con placchette in oro e un mantello di lana finissima, reso luminoso da una decorazione in piccoli bottoni d’oro. Questo simulacro, che veniva utilizzato durante i riti funebri di personaggi di elevato rango sociale, aveva il ruolo di sostituire il corpo fisico e reale creando un legame con la vita futura, facendo assumere al defunto una dimensione eroica e immortale.
    Completa l’esposizione dei reperti provenienti dalla Tomba delle Mani d’Argento la ricostruzione del carro ritrovato nella Camera B della medesima tomba. Il carro è un altro richiamo alla tradizione egizia in quanto esso era utilizzato dal Faraone per andare in guerra.

    Mani d’Argento dalla Tomba delle Mani d’Argento di Vulci

    Il tema della quarta sezione è come e quanto il pantheon egizio sia passato nella cultura etrusca. Per effettuare questo confronto vengono esposti una statua frammentaria in granito grigio della dea Sekhment e altri reperti della collezione Berman pertinenti a diverse divinità del pantheon egizio, vicino a reperti etruschi provenienti, grazie ai traffici commerciali, dall’Egitto e oggetti egittizzanti di produzione etrusca. Da questo confronto si può comprendere, inoltre, come alcune divinità egizie, come ad esempio Bes, viene esposta la statuetta in avorio e oro proveniente dal tumulo di San Paolo a Cerveteri, abbiano subito una reinterpretazione nel mondo etrusco, anche a causa dell’intermediazione dei Greci e dei Fenici che spesso si facevano vettori di oggetti provenienti dal mondo egizio.
    Certamente lungo le vie commerciali oltre gli oggetti materiali, come amuleti e gioielli, si muovevano prodotti di grande pregio, ma in un certo senso immateriali, quali profumi, unguenti e cosmetici. Questi erano commercializzati e scambiati contenuti in vasi di ottima fattura e realizzati, a loro volta, con materiali preziosi quali alabastro. Anche la cosmetica diventava quindi simbolo di prestigio e ricchezza. In mostra a questo proposito vi è proprio una collezione di vasi in alabastro provenienti dalla collezione Berman.

    Statuina rappresentante Bes in avorio e oro proveniente dal tumulo San Paolo di Vulci.

    La mostra si chiude con una sezione costituita da una sorta di grande quadro sinottico, in cui le varie fasi della cultura etrusca sono messe a confronto con le varie fasi della cultura egizia. L’evolversi della cultura egizia viene seguita a partire dal 4500 avanti Cristo fino ai tessuti copti del VI secolo dopo Cristo, attraverso i reperti della collezione Barman.
    Particolare attenzione viene data alla fase della cultura etrusca in cui si ha lo sviluppo della moda orientalizzante e al III secolo avanti Cristo attraverso l’esposizione del corredo di una sepoltura etrusca ritrovata di recente da cui proviene un raro vaso in ceramica invetriata di produzione alessandrina.

  2. Il martirio di Paolo di Tarso alle Acque Savie e l’abbazia delle Tre Fontane

    Per quanto possa sembrare sorprendente, nel Nuovo Testamento non c’è traccia di alcuna notizia che riguardi la sorte dell’apostolo Paolo. Sebbene Luca, l’estensore del testo degli Atti degli Apostoli, sia molto attento a ciò che accade e a tutti gli

    Martirio di San Paolo – Algardi – Bologna.

    spostamenti e agli scambi dell’Apostolo delle Genti, egli scrive, verso la fine del libro, che Paolo è detenuto si a Roma, in regime di custodia militaris, ma che sia libero di predicare: “Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento” (At 28,30-31).
    A tutt’oggi non sono noti i motivi per i quali Luca non riferisca nulla circa la sorte di Paolo.
    La prima notizia relativa alla morte dell’apostolo si può trovare in uno scritto della metà degli anni 90 dopo Cristo, quindi circa trent’anni dopo la sua morte, quando sul soglio pontificio sedeva Clemente I. Quest’ultimo scrive una lettera indirizzata ai Cristiani di Corinto e vi afferma che Paolo “per la gelosia e la discordia, dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo […] sostenne il martirio davanti ai governanti” (1Clem 5,2).
    Anche lo storico Eusebio di Cesarea, vissuto tra il 265 e il 340 dopo Cristo, parla della morte di Paolo e la riferisce al regno di Nerone: “Durante il regno di Nerone, Paolo fu decapitato proprio a Roma e Pietro vi fu crocefisso. Il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo, che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in questa città”. (Hist. eccl., 2,25,5).
    Negli Atti di Pietro e Paolo, un testo apocrifo compilato in greco tra il V e il VII secolo, l’episodio della decollazione di Paolo è riportato con gran dettaglio: “Pietro e Paolo, ricevuta la sentenza, furono tolti dal cospetto di Nerone […] Paolo fu condotto incatenato sul luogo a tre miglia dalla città, sotto la scorta di tre soldati di famiglia nobile. Usciti dalla porta per lo spazio di un tiro di freccia, si fece loro incontro una pia signora, la quale vedendo Paolo in catene, si sentì commuovere e scoppiò in lacrime. La donna si chiamava Perpetua e aveva un occhio solo […] Paolo, scorgendola piangere, le disse: “Dammi il tuo sudario; quando ritornerò te lo restituirò”. Quella lo prese e glielo diede prontamente. I soldati però le dissero: “Donna, perché vuoi perdere il tu sudario? Non sai che va alla decapitazione?”

    Martirio di San Paolo – Mattia Preti.

    Perpetua rispose loro: “Vi scongiuro, per la salvezza dell’imperatore! Legate i suoi occhi con questo sudario, quando lo decapiterete”. Il che si fece. Lo decapitarono presso il fondo delle Acque Salvie, vicino all’albero di pino. Come Dio volle, prima che i soldati facessero ritorno fu restituito a quella donna il sudario intriso di gocce di sangue. Appena lo portò, sull’istante, l’occhio cieco si aprì […] Gli illustri, santi apostoli Pietro e Paolo si spensero il 29 giugno in Cristo Gesù, Signore nostro, al quale appartengono la gloria e il potere”.
    Sempre negli Atti di Pietro e Paolo è riportato un episodio avvenuto nel corso della decollazione dell’apostolo che entra nella tradizione dei luoghi e permane nel tempo: “In piedi, rivolto verso Oriente, Paolo pregò a lungo. Dopo aver protratta la preghiera intrattenendosi in ebraico con i padri, tese il collo senza proferire parola. Quando il carnefice gli spiccò la testa, sugli abiti del soldato sprizzò del latte. Il soldato e tutti i presenti, a questa vista, rimasero stupiti e glorificarono Dio che aveva concesso a Paolo tanta gloria; e al ritorno annunziarono a Cesare [ovvero Nerone] quanto era accaduto. Anch’egli ne rimase stupito e imbarazzato”.
    In accordo con quanto narrato nei testi apocrifi, la tradizione riporta che quando la testa di Paolo, spiccata a seguito del colpo di spada, rotolò a terra rimbalzando tre volte, nei tre punti in cui essa toccò il suolo, si formarono tre fontane da cui usciva acqua, a temperature diverse e di sapori diversi, e che una di queste dava latte. Sulle tre fontane che zampillarono fu costruita la chiesa dedicata proprio a San Paolo all’interno della quale esse furono per sempre conservate.
    Da questo momento il luogo indicato con il nome di Acque Salvie, la cui etimologia non è ancora oggi stata chiarita, e caratterizzato appunto dalla presenza di sorgenti e corsi d’acqua, tra cui il fosso delle Acque Salvie, sarà indicato pure con il nome di Tre Fontane.

    Il tratto di strada che si dice Paolo di Tarso abbia percorso per andare al martirio.

    Oltre alla ricchezza delle acque e alla presenza delle sorgenti non ci sono altri dati che consentano di collocare proprio alle Acque Salvie il luogo del martirio di Paolo, a meno che non si voglia considerare una prova la debole indicazione avuta nel 1878 quando, nel corso di alcuni scavi, in prossimità della chiesa di San Paolo alle Tre Fontane, furono ritrovate molte pigne fossilizzate, tre ciocchi di pino e una certa quantità di monete antiche risalenti per la maggior parte all’epoca di Nerone.
    La tradizione vuole poi che il corpo di Paolo dalle Acque Salvie sia stato trasportato alla Necropoli Ostiense, dove trovò sepoltura nel podere di proprietà di una matrona romana di nome Lucina, sulla cui casa in città oggi sorge la chiesa di San Lorenzo in Lucina. Già alla metà del II secolo il luogo in cui era stato sepolto Paolo era luogo di culto, segnalato ai fedeli da un piccolo monumento. Anche il luogo della sepoltura di Pietro era stato così semplicemente segnalato ai fedeli. Successivamente sui due sepolcri, importanti per la comunità cristiana, sarebbero sorte le due basiliche di San Paolo Fuori Le Mura e di San Pietro.
    Analogamente non è nota la data esatta del martirio di Paolo, come già quella del martirio di Pietro. La data del 29 giugno, indicata, come si è visto, nei testi apocrifi, fu scelta, probabilmente, perché il 29 giugno 258, sotto l’imperatore Valeriano, che regnò dal 253 dopo Cristo al 260, le salme dei due apostoli furono trasportate nelle Catacombe di San Sebastiano, e solo quasi un secolo dopo papa Silvestro I fece riportare le reliquie dei due Apostoli nel luogo della prima sepoltura.
    Anche sulla data alla quale sarebbe avvenuta la decapitazione di Paolo non c’è accordo. Secondo alcuni la morte è da far risalire si al regno di Nerone, ma al 64 quindi all’epoca delle persecuzioni dei cristiani seguite al grande incendio della città. Secondo altri la data sarebbe quella del 67, come sostengono Eusebio da Cesarea e San Girolamo, secondo altri ancora la morte andrebbe collocata tra il 56 e il 58 dopo Cristo.

    Donazione di Carlo Magno – Arco di Trionfo – Abbazia delle Tre Fontane.

    Le prime notizie relative a un insediamento religioso stabile in località Acque Salvie si possono ricavare da una guida per pellegrini, del VII secolo, intitolata “De locis sanctis martyrum quae sunt foris civitatis Romae”, “I luoghi santi dei martiri che sono fuori la città di Roma”, in cui si consiglia ai fedeli, che hanno raggiunto la Basilica di San Paolo Fuori Le Mura, di proseguire di poco verso sud, recarsi alle Acque Salvie e visitare così il luogo del martirio di Paolo. Nel medesimo testo si aggiunge che lì avrebbero trovato un monastero e un’importante reliquia: la testa di Sant’Anastasio. Le fonti raccontano che la reliquia di Sant’Anastasio fu portata a Roma durante il regno dell’imperatore Eraclio I intono al 640. Essa era veneratissima e molto presto iniziarono a verificarsi nei suoi pressi numerosi miracoli.
    Dagli Atti del I Concilio Lateranense, svoltosi nel 649 a Roma, invece, si apprende che il monastero delle Acque Salvie era abitato da monaci che provenivano dalla Cilicia. La capitale della Cilicia era Tarso, la città di provenienza di Paolo. E’ possibile che questi monaci siano giunti a Roma nella prima metà del VII secolo e si siano rifugiati nei luoghi del martirio di Paolo per sfuggire in Oriente all’accusa di eresia. Essi si opponevano infatti all’idea che Cristo avesse solo natura divina.
    Da queste indicazioni si evince che il monastero delle Acque Salvie era già sorto nella prima metà del VII secolo, il che vorrebbe dire che esso, insieme all’abbazia che poi lo sostituirà hanno una vita e una storia lunghissime, di quasi 1500 anni, durante i quali i suoi abitanti saranno testimoni d’innumerevoli eventi storici.
    Lungo tutto questo tempo la comunità dei monaci vivrà fasi di grande espansione e di profonda decadenza. Una delle fasi di espansione più importanti è quella che interessa il monastero nel IX secolo quando l’imperatore Carlo Magno donò ai monaci vasti possedimenti in Maremma. L’episodio è così importante che molti secoli dopo, quando al monastero arrivano i Cistercensi esso fu ricordato negli affreschi dell’arco che fa da ingresso all’abbazia.

    Abbazia delle Tre Fontane – Giuseppe Vasi.

    Il monastero vivrà a lungo come realtà indipendente e di rito greco fino a quando, intorno all’Anno Mille si venne a trovare in uno stato di decadenza e abbandono tali che papa Gregorio VII lo pose sotto il controllo dei Benedettini della basilica di San Paolo Fuori Le Mura. L’arrivo dei Benedettini trasformerà profondamente la realtà e il rito greco scomparirà sostituito dal rito latino.
    Ma anche i Benedettini non saranno destinati a rimanere a lungo poiché nel 1130, con la morte di papa Onorio II, si aprirà un periodo di scisma per la chiesa. Il 14 febbraio 1130 furono eletti contemporaneamente due papi Innocenzo II, che non ebbe l’acclamazione del clero e del popolo, e Anacleto II che invece la ottenne. Innocenzo fu perciò costretto a riparare in Francia dove conobbe Bernardo da Clairvaux che decise di appoggiare il suo ritorno a Roma. Sulla figura di Innocento II, grazie all’azione di Bernardo, converse l’alleanza tra Germania, Inghilterra e Spagna che si oppose ai Normanni, che governavano nell’Italia meridionale e appoggiavano Anacleto II. Si scatenò una guerra tra i due fronti che si concluse solo con l’improvvisa morte di Anacleto e il ritorno a Roma di Innocenzo II. Questi seppe farsi apprezzare dal popolo e dal clero, e per mostrare la sua riconoscenza a Bernardo di Clairvaux, e punire i Benedettini che avevano appoggiato Anacleto II, regalò ai Cistercensi il monastero delle Acque Salvie.
    Nel 1139 arrivarono quindi al monastero i monaci inizialmente destinati all’abazia di Farfa e per consentire a essi di abitarvi Innocenzo II si fece carico anche del suo restauro, compiendo un gesto completamente contrario alla prassi dei Cistercensi.

    Abbazia delle Tre Fontane agli inizi del novecento. Si ringrazia Roma Sparita.

    Questi ultimi, infatti, avrebbero dovuto, seguendo la regola, edificare in proprio l’abbazia, poiché l’ordine aveva delle precise regole architettoniche secondo le quali dovevano essere distribuiti i diversi ambienti.
    L’abbazia delle Tre Fontane è quindi l’unica abbazia cistercense non edificata dagli stessi monaci. Questi ultimi però lavorarono alla lenta e costante trasformazione degli edifici per ricondurre gli ambienti alle loro necessità. Come conseguenza di ciò la consacrazione della chiesa abbaziale avvenne nel 1221, quando sul soglio pontificio c’era Onorio III.
    Con l’arrivo dei Cistercensi il monastero si trasformò in abbazia e conobbe un periodo di straordinario splendore e grande importanza tanto che il primo abate salì sul soglio pontificio con il nome di Eugenio III.
    Nel 1294 arrivarono all’abbazia delle Acque Salvie le reliquie di San Vincenzo e i Cistercensi ottennero di festeggiare questo santo insieme a Sant’Anastasio il 22 gennaio e la concessione dell’indulgenza a chi visitava l’abbazia in questa occasione, nella ricorrenza di San Poalo e della Vergine.
    Quando la corte pontificia si trasferì da Roma ad Avignone, tra il 1309 e il 1377, iniziò per l’abbazia un periodo di decadenza, che corrispose anche a un periodo di crisi per tutto l’ordine cistercense. Tra alti e bassi la comunità dei monaci sopravvisse a molteplici difficoltà e conobbe altri momenti di splendore, anche artistico, come accade nel Seicento quando Alessandro Farnese e Pietro Aldobrandini si occuparono dell’abbazia e vi portarono a lavorare personalità come Giacomo della Porta.
    Nel 1868, dopo un breve passaggio dell’abbazia ai Francescani, nel monastero delle Acque Salvie tornano i Cistercensi. Un piccolo gruppo di frati Trappisti, provenienti dalla Germania che si trovavano a Roma di passaggio, fu, infatti, inviato lì dal papa. Al loro arrivo i monaci trovarono una situazione davvero disastrosa che trova riscontro in una precisa cronaca redatta da uno di essi: “Trovammo tutto in uno stato deplorevole. Nella basilica dei santi Vincenzo e Anastasio i buoi trovavano erba sufficiente per pascolare e vi passavano la notte. Nelle pareti esterne, i muri e alcuni edifici erano coperti da tre a sei piedi di macerie. […] I muri producevano un’umidità a guisa di stagni velenosi e questa umidità a sua volta favoriva sciami di moscerini e di altri insetti noiosi in modo che il mal capitato visitatore a mala pena si poteva schernire”.

    Colonia penale alla Tenuta dell’Abbazia delle Tre Fontane.

    I nuovi abitanti del monastero ebbero subito a misurarsi con un grave problema: la malaria. I monaci stabilirono quindi che tra le priorità c’era la bonifica delle terre e degli ambienti e misero subito mano alla costruzione di un canale per drenare le acque. Tra le varie strategie utilizzate per debellare il morbo ci fu la piantagione di eucalipti, una pianta che essendo molto bisognosa di acqua aiutò certamente la riduzione del tasso di umidità ma non ebbe un grande effetto sulla presenza delle zanzare.
    I monaci ebbero ragione degli insetti solo agli inizi del Novecento come risultato di tre azioni combinate: il drenaggio delle acque, l’uso di anti malarici chimici e la posa in opera di zanzariere alle finestre dei locali del monastero.
    Una volta debellato il morbo i Trappisti che avevano nella loro regola l’obbligo di lavorare la terra riuscirono a dare vita a una azienda agricola che permetteva loro di trarre il necessario per se stessi e anche per l’ampia comunità che si era costituita intorno all’abbazia, e che era composta di una colonia penale di condannati ai lavori forzati e di operai.
    Sui 485 ettari della tenuta si coltivavano cereali, ortaggi e frutta, si allevavano cavalli, buoi e vacche da latte, oltre che conigli e galline.

    Abbazia e quartiere E42. Si ringrazia Roma Sparita.

    La prima guerra mondiale fu un momento di arresto di tutte le attività perché tutti gli uomini abili erano stati inviati al fronte, ma queste ripresero alla fine della guerra anche se l’estensione della tenuta si ridusse sia per problemi dovuti alla difficoltà di riprendere i lavori sia perché nel 1930 furono effettuati espropri da parte del governo per acquisire terreni per la costruzione del nuovo quartiere E42/EUR.
    Gli espropri interessarono gli appezzamenti destinati a pascolo e la produzione di latte venne particolarmente colpita. Poiché il quartiere E42 non fu mai completamente realizzato su parte dei terreni espropriati ai Trappisti nel 1953 vennero collocate delle giostre che costituirono il primo nucleo del Luna Park dell’EUR, mentre sulla restante parte, in occasione delle Olimpiadi del 1960 furono realizzati gli impianti sportivi delle Tre Fontane.
    Oggi dell’antica tenuta ai margini dell’abbazia è un vasto oliveto, un piccolo orto a uso della comunità religiosa, il frantoio e la fabbrica di liquori.

    Roma, marzo 2018

  3. Basilica di San Crisogono a Trastevere

  4. Testo

    Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale

    Charles Péguy

    Il testo che qui proponiamo è tratto dal volume Véronique. “Dialogo della storia e dell’anima carnale” del grande scrittore francese Charles Péguy, edizioni Piemme, 2002. E’ un breve dialogo tra Clio, la Storia, e Calliope, la musa della poesia, che tratta delle ninfee di Monet, forse il tema pittorico più noto del grande pittore francese.

    Ninfee – Claude Monet – 1897.


    Péguy, nato nel 1873 e morto nel 1914, proveniente da una famiglia di Orléans, rivendicò sempre con orgoglio la sua appartenenza al popolo, alla gente semplice. Dopo aver militato in gioventù nel partito socialista, ritrovò la sua fede cattolica senza rinnegare nulla della sua storia. Poeta e saggista, nel 1900 fondò la rivista «Cahiers de la quinzaine» e pubblicò numerose opere in versi e prosa.
    In Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale, c’è Clio, la Storia, che si affanna a cercare le tracce nel passato. E «una bambina, la piccola Veronica, che tira fuori il suo fazzoletto e sul volto di Cristo prende un’impronta eterna. Lei si è trovata al momento giusto. Clio è sempre in ritardo» scrive Péguy.
    Il dialogo è tra Clio, la Storia e Calliope, la musa della poesia epica, figlia di Zeus e Mnemosine, conosciuta come la Musa di Omero, l’ispiratrice dell’Iliade e dell’Odissea. Proprio nelle primissime pagine dell’opera Clio accenna a Monet e alle sue «mirabili ninfee». Anzi, di una sola, la prima della serie.

    continua…