Diceva Monet: «tutti discutono la mia arte e affermano di comprenderla, come se fosse necessario comprendere, quando invece basta amare».
Di fatto è proprio così. La sua arte entra nell’anima senza mediazioni capace di catturare il groviglio delle nostre emozioni più fanciullesche. Di fronte a un tramonto da sogno o ai riflessi della luce sull’acqua cristallina, non possiamo che pensare a questo strano omone dalla folta barba con l’inseparabile tavolozza, il cavalletto e le tele dove cerca di cogliere quel meraviglioso e irripetibile attimo fuggente prima che quella sensazione magica svanisca per sempre.
È stato un pittore puro Monet: non ci sono tracce di bozze o disegni nelle sue opere, una dissoluzione della forma a favore del colore che sarà via via sempre più evidente nel corso della sua carriera.
La mostra che gli dedica il Vittoriano ha molti pregi. Intanto si tratta di una retrospettiva monotematica composta da sessanta opere provenienti dal Musée Marmottan di Parigi, che custodisce il principale fondo mondiale di opere dell’artista donate dai collezionisti dell’epoca e soprattutto dal figlio Michel.
Inoltre, un altro aspetto da non sottovalutare, è la provenienza delle opere: sono esposti tutti lavori che Monet teneva gelosamente custoditi nella sua ultima e amatissima dimora di Giverny, perché temeva che non sarebbero stati apprezzati. Si tratta di quadri che ripercorrono tutte le fasi della sua ricchezza espressiva sempre tesa a rinnovarsi nel tempo: ai paesaggi prodotti tra gli anni settanta dell’Ottocento e i primi del Novecento – realizzati in varie zone della Francia, ma anche in Inghilterra e in Italia – si affianca uno straordinario insieme di Ninfee monumentali, tele mai esposte durante la vita dell’artista. Una selezione operata dal pittore stesso dunque che ci restituisce un suo lato più emozionale e intimistico palesato anche dai teneri ritratti dei figli.
La mostra è corredata anche da una sorta di passerella multimediale lungo la quale, con effetti speciali, sono proiettate le opere di Monet rimandando così la sensazione di camminare sulle acque dello stagno di Giverny.
L’allestimento espositivo si compone di cinque sezioni tematiche introdotte da una serie di dipinti intimisti che Claude dedicò ai due figli di prime nozze, Jean e Michel. Una vera ‘chicca’ perché Monet dipinse pochissimi ritratti nella sua vita, alcuni appunto conservati nel museo Marmottan, e tutti dedicati ai propri figli. Questo gruppo di dipinti testimonia il profondo attaccamento dell’artista alla sua famiglia, e il suo bisogno di sentirsi circondato da chi ne faceva parte anche quando, per motivi di lavoro, non poteva condividere la quotidianità con chi amava.
Tra i ritratti spicca il Ritratto di Michel Monet neonato che è datato tra il 1878 e il 1879, quando il figlio Michel aveva solo un anno.
Di fronte ai ritratti, una sorpresa. Monet è uno di quei pittori che con le sue ninfee e le sue tele dedicate al paesaggio è entrato di forza nell’immaginario comune. Sorprenderà quindi vedere esposte un gruppo di caricature, datate alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, con le quali, Monet ancora ragazzo, si guadagnava qualche soldo in quella città di Le Havre dove la sua famiglia si era trasferita.
Era lui stesso a raccontare che a quindici anni era molto famoso per questa sua attività di caricaturista tanto che le persone più disparate lo cercavano in città perché realizzasse per loro caricature.
Le varie fasi della lunga vita artistica di Monet si susseguono in mostra, ma non solo, l’una all’altra accomunate da un unico fil rouge: un’empatia totale con la natura e le variazioni del tempo e della luce.
Passando da una sala all’altra emerge una delle caratteristiche pregnanti dell’arte di Monet: il superamento della riproduzione degli elementi figurativi, tanto che gli ultimissimi lavori preludono all’informale e all’astrattismo.
La sezione degli incantevoli paesaggi impressionisti en plein air, corrisponde agli
anni in cui l’artista vaga nel mondo alla ricerca di una fusione con l’inafferrabilità di quelle impressioni che solo la bellezza sconvolgente della natura o dei paesaggi urbani sa donargli: la campagna francese, Londra e anche qualche breve sosta in Italia. In mostra a testimoniare il suo passaggio in Italia è presente il delizioso Castello di Dolceacqua del 1884.
Dal contatto con la cultura e l’arte giapponese avvenuta in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1878 e soprattutto dall’aver potuto ammirare le due opere di Hokusai le Trentasei Vedute del Monte Fuji e le Cento Vedute del Monte Fuji, nasce l’idea/esigenza della “serie”: uno stesso soggetto ripreso più volte in diverse ore della giornata. Le serie sono di tipologie differenti. Esse affrontano, ad esempio, il tema dell’interazione della luce con le architetture come nell’opera Londra. Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi del 1905, o possono assumere il significato di diario quotidiano, come nel caso della serie dedicata alle iconiche ninfee, che il pittore riprendeva dal suo giardino acquatico stile giapponese, concepito come un dipinto, della sua definitiva dimora di Giverny.
Anche nel caso della serie delle ninfee si può vedere come al passare del tempo, le prime tele su questo tema risalgono al 1840 e Monet continuerà a ritrarle fino al sopraggiungere della morte avvenuta nel 1926, il tratto pittorico diventi sempre più essenziale, finendo con il ridurre il soggetto del fiore a semplici linee astratte che suggeriscono la presenza dello stagno, dei fiori, delle foglie e dei relativi riflessi.
Le note ninfee divengono così pure dei misteriosi fiori acquatici, le acque dello stagno interagendo con la luce naturale creano effetti riflessi di alberi, cielo e nuvole, giochi che continuamente attraggono Monet, alimentandone la sperimentazione e la poetica.
Analogamente sorprendenti i lavori dedicati al Ponte Giapponese, elemento essenziale del giardino di Giverny anch’esso tratto, per la sua caratteristica rotondità, da alcune immagini derivate direttamente dal mondo di Hokusai. Il ponte è ritratto innumerevoli volte, in diverse ore della giornata, a volte tal quale, altre come riflesso nello stagno, in altre occasioni, come accade già per le ninfee, il ponte sembra quasi solo evocato.
La figurazione si dissolve, la visione prende il posto della descrizione. Certamente i problemi agli occhi di Monet, che andarono via via acuendosi, influirono notevolmente su questa evoluzione, ma è indubbio che si tratti anche di una visione artistica desiderata e ricercata, una naturale evoluzione della serialità che conduce all’essenziale e che si tramuta in anticipazione di ciò che accadrà più avanti nell’arte.
Il tema del ponte unito a quello del salice piangente costituiscono il momento forse più intimo ed emozionante dell’intera mostra. Nella poetica di Monet questi soggetti rappresentano il suo immenso dolore per la perdita della seconda moglie e del figlio Jean.
L’ultima sezione della mostra è dedicata ai pannelli monumentali che Monet decise di donare allo Stato francese per celebrare la fine della Prima Guerra Mondiale. Un lavoro enorme al quale dedicherà gli ultimi anni della sua vita e solo una parte dei quali fu scelta per essere esposta al Musèe de l’Orangerie a Parigi.
Roma, 20 febbraio 2018