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  1. L’Auditorium di Mecenate. L’Eden dei poeti dell’Impero.

    È solo un caso, certo, tuttavia suggestivo: l’Auditorium di Mecenate, sede del circolo di poeti del calibro di Virgilio, Orazio e Ovidio, di proprietà dal grande collaboratore e amico dell’imperatore Augusto, si erge proprio nello spiazzo dedicato a Giacomo Leopardi.

    Scavi Auditorium di Mecenate. Si ringrazia RomaSparita.

    La sua scoperta avvenne nel 1874, nel corso dei lavori per l’apertura della nuova Via Merulana e dell’adiacente Largo Leopardi, nella zona precedentemente occupata da Villa Caetani.
    L’aula absidata allora riportata alla luce faceva parte di un complesso assai più ampio, disposto a cavallo delle Mura Serviane, che fu disgraziatamente demolito. Per fortuna, si decise di conservare almeno quest’aula, detta Auditorium, nella quale si possono distinguere quattro parti: un vestibolo a sud-est, dalla forma rettangolare, l’aula vera e propria, l’esedra a gradini, un ambiente di soggiorno aperto verso l’esterno, munito di sedili presente in edifici privati o pubblici, e una doppia rampa di accesso. Si accedeva al vestibolo grazie a tre ingressi: quello a sud, ancora utilizzato, si apriva sulla rampa, mentre gli altri due mettevano l’aula in comunicazione con gli ambienti circostanti. Forse la copertura era a volta, a giudicare dal grande spessore dei muri.
    Nella sala rettangolare si aprono sei nicchie per parte e la decorazione pittorica è in parte svanita, ma era ben conservata quando l’edificio fu ritrovato. Le pareti sono dipinte di rosso; sopra le nicchie corre un fregio a fondo nero con figure di animali dipinte a colori più chiari. L’interno delle nicchie è decorato con riproduzioni realistiche di giardini. Nell’angolo ovest si riconoscono due pavimentazioni successive: quella originaria, realizzata in finto mosaico con due strisce rosse, e quella più tarda, in lastre di marmo giallo antico e grigio.

    Auditorium di Mecenate.

    L’esedra è occupata da sette gradini molto stretti. Fu ampliata con un muro a mattoni; i gradini erano coperti da lastre in cipollino, delle quali restano tracce. Al di sopra dei gradini si aprono cinque nicchie dove compaiono decorazioni pittoriche raffiguranti giardini, sotto le quali corre un fregio a fondo nero con figure di animali e di caccia.
    Nella sua prima fase, l’edificio risale alla fine della Repubblica, mentre le decorazioni pittoriche, simili a quelli della Villa di Livia a Prima Porta, appartengono alla piena età augustea.
    Gli archeologi ritengono che il complesso sia da identificare con uno degli edifici parte degli Horti Mecenatis, ovvero i giardini che circondavano l’imponente villa di Mecenate sull’Esquilino. Sappiamo da Orazio e dai suoi commentatori che per la costruzione della villa fu ricoperto il cimitero dei poveri, che allora occupava questa zona dell’Esquilino, venne parzialmente livellato l’antichissimo agger, e distrutta una parte delle Mura Serviane, a cui ancora oggi la struttura pare appoggiarsi.
    Di questa villa oggi non ci perviene nulla se non una piccola parte degli arredi e delle opere d’arte oggi conservate presso i Musei Capitolini nella sezione dedicata proprio agli Horti Mecenatis, come la statua in marmo pavonazzetto di Marsia.

    Marsia – Musei Capitolini.

    La data di costruzione dell’Auditorium coincide con quella della villa di Mecenate: tra il 40 e il 30 avanti Cristo L’identificazione è stata possibile grazie alla scoperta, accanto all’edificio, di una fistula aquaria, ovvero una conduttura idraulica di piombo, con il nome di Cornelio Frontone, celebre maestro di retorica dell’era adrianea venuto in possesso degli Horti Maecenatis, evidentemente cedutigli dall’imperatore.
    Alla sua morte, infatti, Mecenate aveva lasciato la sua villa a Ottaviano Augusto e si sa che Tiberio vi soggiornò a lungo. Probabilmente è proprio del periodo durante il quale Tiberio abita la villa, di ritorno dal suo esilio a Rodi avvenuto nel 2 avanti Cristo, che vengono eseguiti gli affreschi “del terzo stile”, che è datato fino alla metà del I secolo, all’epoca di Claudio, tra il 41 e il 54 avanti Cristo.
    Non appare peregrina dunque, l’originaria identificazione con un auditorium o un odeon, anche se i gradini appaiono un po’ piccoli per ospitare spettatori seduti. La presenza di un’iscrizione con i primi due versi di un epigramma di Callimaco, in cui si accenna al convito, ha fatto pensare che si trattasse di una cenatio, sala da pranzo estiva. Ma l’ipotesi più comunemente accettata, è che si tratti di un ninfeo.
    Gli Horti di Mecenate sono i più antichi realizzati sull’Esquilino, a spese dell’antica necropoli di Roma: essi costituivano probabilmente un ampliamento del più antico possesso di Mecenate, situato nel luogo dove più tardi sarebbero state costruite le Terme di Traiano.
    Chi fu, dunque, Mecenate? «Insonne nella vigilanza e nelle emergenze, lungimirante nell’agire, ma nei momenti di ritiro dagli affari più lussuoso ed effeminato di una donna». Così, maliziosamente, lo descrive lo storico Velleio Patercolo.
    In realtà, Mecenate fu molto, molto di più di quanto Partecolo non dica. Etrusco d’origine, essendo nato ad Arezzo 15 aprile del 68 avanti Cristo, Gaio Cilnio Mecenate fu influente consigliere, alleato e amico di Ottaviano. Nella prima parte

    Mecenate.

    della sua vita egli ebbe un ruolo militare, fu generale di Ottaviano che seguì in molti campi di battaglia; questo ruolo andò trasformandosi sempre più in ruolo politico tanto che Mecenate diventa, a tutti gli effetti, non solo un testimone ma anche un attore della trasformazione definitiva di Roma, che si attua nel passaggio dalla repubblica all’Impero.
    Fece la sua apparizione nella vita pubblica nel 40 avanti Cristo, quando fu incaricato di chiedere per Ottaviano la mano di Scribonia in matrimonio. In seguito partecipò ai negoziati di pace a Brindisi e alla riconciliazione di Ottaviano Augusto con Marco Antonio. La sua fedeltà a Ottaviano è testimoniata dalla fermezza con cui soffocò in gran segreto la congiura di Marco Emilio Lepido, in assenza di Ottaviano da Roma, e questo ruolo di fedele controllore della realtà augustea si replicava ogni volta che Ottaviano era lontano. Ma ciò che lo ha reso immortale è stato senz’altro la capacità di allevare, incoraggiare e sostenere economicamente un cenacolo di artisti e intellettuali di straordinario genio quali Orazio, Virgilio, Ovidio, Properzio e Tito Livio permettendo loro di svolgere liberamente il proprio mestiere di uomini di cultura.
    Con questo atteggiamento contribuì a rafforzare il regime che Ottaviano Augusto stava imponendo: molte delle opere prodotte con l’appoggio di Mecenate contribuirono ad illustrare l’immagine di Roma e anche a sostenere alcune azioni della politica dell’imperatore. Egli fu tra i primi a comprendere l’impatto che la poesia e l’arte potessero avere sull’opinione pubblica.
    Nonostante il suo ruolo di finanziatore i letterati riuniti intorno alla figura di Mecenate mantennero gran parte della loro indipendenza.
    Orgoglioso delle sue origini etrusche, Mecenate affermava di discendere, per parte di madre, dal principesco casato dei Cilni, la più nobile famiglia di Arezzo. Il suo albero genealogico era esposto infatti nell’atrio della sua villa sull’Esquilino e sia Orazio che Properzio celebrarono il loro benefattore come il «più nobile degli Etruschi», «stirpe dei re tirreni», «cavaliere del sangue dei re etruschi».

    Ricostruzione dell’Auditorium di Mecenate all’atto della scoperta.

    Virgilio scrisse le Georgiche in suo onore e fu lo stesso Virgilio che, impressionato dalla poesia di Orazio, lo presentò a Mecenate. Orazio, quindi, iniziò la prima delle sue Odi grazie alla direzione del suo nuovo protettore, che gli diede pieno appoggio finanziario, come pure una proprietà nei monti della Sabina.
    Per la sua munificenza, che rese il suo nome noto a tutti, Mecenate ebbe la gratitudine degli scrittori, attestata anche dai ringraziamenti dei letterati di età successiva, come Marziale e Giovenale. Il suo patronato non fu una forma di vanità o di semplice dilettantismo letterario: egli vide nella genialità dei poeti del tempo non solo un ornamento letterario, ma un modo di promuovere e onorare il nuovo ordine politico.
    Nessun altro patrono ebbe in sorte quello di legare il nome a delle opere eterne.
    Mecenate scrisse, tra l’altro, anche opere letterarie, sia in prosa che in versi, di cui ci pervengono venti frammenti che dimostrano che come autore ebbe meno successo che come protettore dei letterati.
    Ritiratosi dalla vita politica, Mecenate tornò ad Arezzo, la sua città natale. Là visse delle ricchezze familiari che gli provenivano da molti beni, ma soprattutto dalle fabbriche di vasi realizzati con la pregiatissima ceramica aretina, lucida e di color arancio – miele che venne prodotta a partire dal 30 avanti Cristo. In questo periodo si dedicò solo ai piaceri dello spirito, speculando, scrivendo, conversando con gli

    Affresco dell’Auditorium di Mecenate.

    amici alla maniera etrusca, cioè in modo sontuoso e raffinatissimo. Ad Arezzo morì, nell’8 avanti Cristo, qualche mese prima dell’amatissimo Orazio.
    L’atteggiamento assunto da Mecenate è divenuto, nel tempo, un modello, tanto che si parlerà da questo momento in poi di mecenatismo e di mecenate, per indicare l’azione e la persona che protegge e finanzia poeti ed artisti. Nei secoli la figura di Mecenate è stata incarnata da personaggi diversi. Sono stati grandi mecenati Cosimo il Vecchio de’ Medici, nato nel 1389 e morto nel 1464, e suo nipote Lorenzo il Magnifico, nato nel 1449 e morto nel1492, che raccolsero intorno alle proprie figure i più grandi talenti del loro tempo.

    Roma, 31 gennaio 2018

  2. Satire ed Epigrammi

    Come si vive a Roma

    di Giovenale e Marziale.

    In occasione della visita guidata all’Insula dell’Ara Coeli, il 10 febbraio alle 16.00, proponiamo una lettura classica: le satire di Giovenale e gli epigrammi di Marziale che descrivono con precisione e arguzia le condizioni nelle quali si viveva a Roma tra

    Insula romana – ricostruzione.

    il I e il II secolo dopo Cristo. Entrambi i poeti si trovano a vivere in una Roma affollata e caotica, che corrisponde per Marziale alla Regio VII, dove, nella contrada detta “al Pero”, sulle prime propaggini del Quirinale oggi corrispondente all’area da Via Rasella a Piazza Barberini, si trovava l’insula in cui era situata la sua abitazione, mentre per Giovenale lo scenario dove si trovava la sua abitazione era un’insula all’interno della Suburra.  

    Giovenale Satira III.239-267: “Il caos ed i pericoli di Roma. Il giorno”
    Quando il ricco è chiamato (a svolgere) i suoi obblighi, la folla (gli) cede
    il passo e la smisurata liburna corre sopra le teste
    e nel frattempo all’interno (egli) legge o scrive od anche dorme;
    poiché la lettiga con la tenda chiusa induce il sonno.
    Nondimeno arriverà prima: a me l’onda della folla che mi precede
    impedisce d’andar velocemente, e l’intero popolo radunato

    continua…

  3. Giovanni Ricciardi: incontro con lo scrittore

    Giovanni Ricciardi.

    Insegna latino e greco al liceo Pilo Albertelli di Roma. È ricercatore universitario. E ha cominciato a scrivere romanzi gialli «per gioco» confessa Giovanni Ricciardi. «Sono sempre stato appassionato alla lettura e alla scrittura, ma fino ai 40 anni non avevo mai tentato di scrivere romanzi. Il genere del giallo o del noir, mi sembrava fosse più abbordabile per un esordiente, proprio perché ti consente di muoverti in una gabbia narrativa che focalizza l’attenzione sulla trama». Avrà pure cominciato per gioco, Giovanni Ricciardi. Di fatto, da I gatti lo sapranno, romanzo d’esordio del 2009, dalla penna dello scrittore romano hanno preso vita altre sette inchieste. Sempre con lo stesso, affascinante protagonista: il commissario Ottavio Ponzetti. Pubblicate sempre con lo stesso editore: Elido Fazi. Inchieste che vengono condotte in un rione Esquilino post-gaddiano. «Ottavio possiede alcune caratteristiche che sono mie» aggiunge l’autore, «come per esempio, essere abbastanza affezionato alla sigaretta, oppure sicuramente una certa tendenza a divagare nel suo modo di ragionare, di pensare. Questa sua fantasia eccessivamente sviluppata che lo porta a rievocare il passato, a mitizzare gli anni della scuola, del liceo. Una vena nostalgica che ho anch’io sicuramente, per il resto non mi assomiglia affatto». Ottavio è un poliziotto vecchio stampo perché «invece che seguire le nuove tecnologie cerca sempre di seguire il suo fiuto, la sua intelligenza, anche attraverso la sua capacità di osservazione della realtà». I palati più raffinati che hanno affinato le loro letture con Simenon e Camilleri sono rimasti entusiasti dal carattere bonario, sardonico e sagace del commissario romano che vive con la famiglia (moglie e due figlie) nel quartiere di San Giovanni. Un commissario che, senza sparare un colpo di pistola, riesce sempre a dipanare il bandolo della matassa e che dice di se stesso: “Non mi manca il senso dell’humour per sapere come a volte mi guarda la gente. Con rispetto alcuni, sempre meno. Con timore altri, e sono pochissimi. Sono storie, quelle di Ricciardi, che nascono da suggestioni, immagini della memoria, storie che l’autore ha sentito raccontare, persone che ha conosciuto e che rivivono trasfigurate dalla fantasia. Storie che, insieme al commissario Ponzetti, hanno un’altra protagonista assoluta: Roma, con la sua bellezza carica di passato.

    Libri pubblicati da Giovanni Ricciardi per Fazi Editore:

    I gatti lo sapranno, 2009
    Ci saranno altre voci, 2009
    Il silenzio degli occhi, 2011
    La canzone del sangue, 2015
    Il dono delle lacrime, 2015
    Portami a ballare, 2015
    Gli occhi di Borges, 2016
    L’undicesima ora, 2017

    Roma, 27 gennaio 2018

     

  4. L’insula dell’Ara Coeli: un condominio romano ai piedi del Campidoglio

    Sta incastrata tra il Vittoriano e la scalinata dell’Ara Coeli: si tratta di un’insula, una casa d’affitto romana, la forma di abitazione più comune nella Roma imperiale.

    Insula dell’Ara Coeli – Roma

    Salvata miracolosamente dalle demolizioni che, iniziate alla fine dell’Ottocento per costruire il Vittoriano, continuarono almeno fino al 1939 per l’apertura della Via del Mare, l’attuale via del Teatro di Marcello, e interessarono tutte le pendici del Campidoglio.
    Dell’edificio del II secolo dopo Cristo che, tra i numerosi edifici scoperti nel corso di questi scavi, è tra i più notevoli, restano, oltre al pianterreno e al mezzanino, altri tre piani e tracce del quarto, che non era forse l’ultimo.
    Il pianterreno è costituito da tabernae, ambienti dedicati ad attività commerciali, che si aprono su un cortile, circondato da un portico a pilastri. Esse comunicavano direttamente con ambienti sovrastanti, costituenti il mezzanino, il cui pavimento, originariamente di legno, è scomparso. Una balconata su mensole di travertino segna il passaggio a un gran numero di ambienti d’affitto, illuminati da finestre rettangolari. Gli ambienti diventano sempre più angusti man mano che si sale ai piani superiori.
    In epoca repubblicana insula, in senso metaforico, era la casa che, in origine, essendo separata dalle case vicine per mezzo di uno spazio libero, detto ambitus, rassomigliava a un’isola. Il termine aveva quindi un significato spaziale contrapposto alla voce domus, che indicava l’abitazione. In origine, secondo le norme stabilite dalle Dodici Tavole, la più antica opera legislativa di Roma, redatta tra il 451 e il 450

    Insula dell’Ara Coeli in corso di scavo. Si ringrazia Roma Sparita.

    avanti Cristo, per volontà della plebe che chiedeva di rendere più conoscibile il diritto fino ad allora tramandato oralmente, ogni caseggiato doveva essere circondato da uno spazio libero per permettere ai singoli proprietari di circolare intorno alla propria casa.
    Ben presto però quello spazio fu occupato da tettoie, balconi e porticati, fino alla sua soppressione totale, tant’è che, negli ultimi secoli della Repubblica e nell’Impero, la maggior parte delle case di Roma ebbero muri contigui o comuni. E sebbene la soppressione di quello spazio libero aveva fatto perdere il significato originario al termine insula, esso rimase in uso acquistandone un altro: quello di casa d’affitto. In contrapposizione con domus, cioè casa di proprietà.
    Il tipo architettonico dell’insula è stato rivelato dalle rovine di Ostia, che ne hanno mostrato i primi esemplari meglio conservati, ma è riconosciuto ovunque nelle città dell’Impero, da Pompei, dove era molto meno diffuso, a Roma stessa, dove invece era diffusissimo. L’insula, infatti, era la tipologia abitativa usata soprattutto nelle grandi città, in cui la rendeva necessaria l’abbondanza della popolazione. La sua diffusione non fu legata solo alla richiesta di abitazioni a basto costo per una popolazione costantemente in aumento, ma anche al progresso delle tecniche costruttive, e alla varia agiatezza delle classi sociali, che resero l’insula adatta a soddisfare varie esigenze, in confronto alle domus.
    Se oggi la caratterizzazione sociale in una città avviene spesso per quartieri, in epoca imperiale questa avveniva in funzione di quale piano dell’insula il cittadino abitava: al primo piano perciò si collocavano i benestanti, che andavano a occupare l’abitazione di maggior pregio spesso fornita di una balconata lignea o in muratura

    Ricostruzione in disegno dell’insula dell’Ara Coeli. Si ringrazia Stefano Vannozzi.

    poggiante su mensole, e poi via via tutti gli altri fino al “superattico” abitato dai poveri. Il collegamento tra i piani più alti era fatto con scale di legno e se gli occupanti non pagavano l’affitto il proprietario poteva interrompere le scale e impedire loro di uscire di casa, o rientrare, fino a quando non avessero saldato il debito.
    Al pianterreno si sistemavano i commercianti nelle loro tabernae, che in genere vivevano nei mezzanini ricavati con un soppalco nella taberna stessa. Di servizi igienici, neanche a parlarne: rifiuti di ogni tipo erano gettati lungo le strade durante la notte.
    Poiché gran parte della struttura, soprattutto nei piani più in alto era in legno, nei locali che costituivano le insulae era vietato cucinare, d’altra parte non c’era alcun vano cucina, e accendere qualsiasi tipo di fuoco. Questa norma era frequentemente disattesa e perciò gli incendi frequenti e, vista la vicinanza tra i caseggiati, devastanti perché il fuoco passava facilmente da uno all’altro.
    Dopo il grande incendio di Roma l’imperatore Nerone rivide le norme per la costruzione delle insulae, proibendo che avessero i muri perimetrali in comune, decretando che fossero costruite in pietra, che avessero portici sporgenti sulla facciata, come si può ben osservare ad esempio nel caseggiato di Diana a Ostia, che avessero servitù pubblica di passaggio e fossero dotate di attrezzature anti – incendio.
    L’altezza massima portata da Augusto a ventuno metri fu ulteriormente ridotta durante il governo di Traiano a diciotto, ma le norme di sicurezza erano largamente disattese, tanto che Tertulliano parla della famosa insula Felicles, situata nel Campo Marzio, che svettava come un grattacielo su tutte le altre costruzioni.

    Insula dell’Ara Coeli

    La costruzione delle insulae e il loro affitto rappresentavano, in particolare a Roma, un’importante fonte di reddito e per questo motivo furono messe in atto, in questo settore, delle vere e proprie speculazioni. Ad esempio i costruttori iniziarono a costruire non solo isulae altissime, ma costituite da muri sottilissimi e da appartamenti piccolissimi. Spesso, poi, essi acquistavano immobili danneggiati o addirittura crollati e li ristrutturavano con un minimo di mano d’opera e materiali scadenti, recuperati dalle macerie dei palazzi, e poi li affittavano. I materiali di costruzione potevano essere in muratura, in legno o in muratura mista.
    Un’immagine molto precisa di come si vivesse all’interno delle insulae ci viene restituita in maniera molto vivida, dai due autori latini Giovenale e Marziale. Giovenale parla della facilità con la quale potevano scoppiare devastanti incendi o avvenire crolli: Ma noi viviamo a Roma, una città che in gran parte si regge su puntelli fatiscenti; cosí infatti l’amministratore rimedia ai guasti e, tappata la fenditura di una vecchia crepa, invita tutti a dormire tranquilli sotto la minaccia di un crollo.[…] Sotto di te il terzo piano è in fiamme e tu l’ignori; se giú in basso il terrore dilaga, chi non ha che le tegole per ripararsi dalla pioggia, lassú dove le languide colombe depongono le uova, brucerà se pure per ultimo”. Mentre Marziale, che abitava in un’insula situata nella contrada detta al Pero, sulle prime alture del Quirinale, in corrispondenza di dove oggi sorgono via Rasella e Piazza Barberini, nei suoi epigrammi riprende più volte la questione di quanto faticoso fosse salire le scale per raggiungere la propria abitazione, “[…] È lontano, se vuol venire al Pero, ed abito al terzo piano, ma gli scalini son di quelli alti […]”, e sottolinea la mancanza di intimità che sperimentava chi abitava in queste case: Novio è il mio vicino e dalle mie finestre con la mano si può toccare. Chi non mi invidia e non ritiene ch’io sia beato ad ogni istante, potendo godere d’un tanto intimo compagno?”.
    Ancora Giovenale scrive, in un altro epigramma, che gli affitti sono cari e la città, di notte, rumorosa: “[…] in Roma si dorme a caro prezzo. E così la gente si ammala. Il transito dei carri negli stretti vicoli contorti e le imprecazioni ai buoi che non si muovono porterebbero via il sonno al Druso e financo ad un vitello di mare”.

    Schema dell’insula dell’Ara Coeli da Filippo Coarelli.

    Del rumore si lamenta anche Marziale: “[…] O Sparso, a Roma per un povero non c’è posto né per pensare, né per dormire. Gli impediscono di vivere la mattina i maestri elementari, di notte i panettieri, tutto il giorno i martelletti degli artigiani del bronzo […]”.
    L’insula dell’Ara Coeli costituisce un tipico esempio di edilizia intensiva che era propria di Roma in piena età imperiale e si è calcolato che essa ospitasse, in condizioni certo non confortevoli, circa 380 inquilini: un vero e proprio dormitorio, dove si dovevano salire anche numerosi scalini per raggiungere la propria abitazione, come sempre Marziale dice di un poveraccio, in un altro dei suoi epigrammi, che doveva fare duecento scalini prima di raggiungere la sua camera e finalmente chiudersi la porta alle spalle.
    Tornando ancora alle pendici del Campidoglio, va ricordato che nel corso degli scavi degli anni Trenta riemerse non solo la nostra insula, ma anche un campanile romanico dell’XI secolo con bifore e un arcosolio decorato con un affresco trecentesco raffigurante la deposizione di Cristo tra la Madonna e san Giovanni, appartenenti alla Chiesa di San Biagio del Mercatello, che prendeva il nome originario della piazza dell’Ara Coeli, detta popolarmente Piazza del Mercatello.
    Il mercato in questione partiva, in epoca romana, dalle pendici del Campidoglio e si snodava fino alle tabernae del Foro Boario, il mercato delle carni, del Piascatorium, il mercato del pesce, oggi corrispondente all’area di Sant’Angelo in Pescheria, e del Foro Olitorio, cioè il mercato delle erbe, e lungo la strada si alternavano i negozi dei barbieri e dei calzolai.

    Insula dell’Ara Coeli – Abside affrescata con Cristo Morto, Madonna, San Giovanni ed Evangelisti.

    Nel 1658, papa Alessandro VII passò la gestione della chiesa di San Biagio del Mercatello alla Confraternita della Santa Spina della Corona di Cristo fondata da monsignor Cristiano da Cascia. Costui fece ristrutturare da Carlo Fontana la chiesa di San Biagio dedicandola però a santa Rita da Cascia. Nel 1928, in seguito alle demolizioni della zona e scomparsa via della Pedacchia su cui la chiesa insisteva, si decise di demolire anche Santa Rita. Ma in seguito alle feroci polemiche che ne derivarono, l’edificio sacro fu ricostruito nei pressi del Teatro di Marcello.

    Roma, 21 gennaio 2018