prima pagina
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Il racconto e la Storia all’Oratorio di San Silvestro
21 Agosto 2017 by Ornella Massa
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Recensione
Atlante delle Isole Remote
di Mariateresa Liccardo
5 Agosto 2017 by Ornella Massa
Con piacere riceviamo e pubblichiamo questa recensione del libro “Atlante delle Isole Remote” , edizioni Bompiani, da Mariateresa Liccardo, di cui potete leggere ancora sul suo blog Iacta est.
Judith Schalansky insegna tipografia al Potsdam Technical Institute dal 2008.
Così dicono le note biografiche nel sito del Premio Salerno Libro d’Europa di cui è stata vincitrice.
Tipografia.
La prima cosa che mi viene in mente è un piccolo opificio rumoroso, intriso di acre odore di inchiostro e solventi.
Non penso al prodotto della tipografia, magari un’elegante e candida brochure.
Chissà come e cosa insegna nello specifico, Judith Schalansky.
Forse la tecnica legata alla stampa degli incunaboli, i caratteri gotici, il segno sottile e arcuato delle lettere.
L’estetica della tipografia.
Non potrebbe essere altrimenti, pensando alla cura tipografica del suo libro, Atlante delle isole remote.
Copertina pan di zucchero, dorso in tessuto nero, sui risguardi il mondo, disegnato con un elegante e complesso segno di tratteggio a matita su sfondo arancione. -
Al MACRO: Cross the Streets
22 Luglio 2017 by Ornella Massa
La “street art”, in tutte le sue molteplici declinazioni graffitismo, muralismo, writing, è certamente uno dei fenomeni artistici contemporanei più interessanti ed innovativi, ed è anche una delle forme d’arte contemporanea che ha influenzato e sta influenzando diversi aspetti della società.
La street art, intesa sempre nel senso più ampio del termine, è un fenomeno contemporanea- mente nuovo ed antichissimo.
Antichissimo poiché l’uomo, di fatto, da sempre disegna e scrive sui muri rispondendo in questa maniera ad un bisogno insopprimibile di esprimere le proprie istanze, i propri sentimenti, le proprie paure, le proprie vittorie, come i sogni e le sconfitte, in piena libertà, e di condividerle con gli altri membri del gruppo. Si disegna e si dipinge sul muro quasi subito nella comparsa dell’uomo sulla Terra. I dipinti sulle pareti delle grotte di Lascaux in Francia risalgono al Paleolitico superiore, ovvero a 17500 anni fa circa.
Il disegno e la pittura, come forme immediate di comunicazione, sono seguite dopo molti anni dallo scrivere sul muro. Scrivere presuppone l’elaborazione di un segno grafico, un alfabeto, e la scrittura cuneiforme più antica risale a circa 3400 anni fa, ma scrivere, presuppone che ci sia qualcuno che sa scrivere e qualcuno che sa leggere, abilità che si diffonderanno molto lentamente nelle società umane. Però, nel momento in cui l’uomo impara a scrivere, lo fa su qualsiasi superficie: sulla cera, sulla terracotta, sul papiro ma anche sui muri delle città, si pensi alle scritte sui muri delle vie nella città antica di Pompei, su quelli dei luoghi sacri, ad esempio le scritte ricordo dei pellegrini che andavano alla Scala Santa a Roma, o su quelli di abitazioni private per affermare la propria supremazia, si pensi alle scritte che i Lanzichenecchi lasciarono sui muri della Sala delle Prospettive a Villa Farnesina dopo il sacco di Roma del 1527.Sotto questo punto di vista quindi la street art è un fenomeno antico. Ed anche il suo portato politico e sociale, di rivendicazione di lotte o di autodeterminazione sono aspetti connaturati con questa forma di arte, si pensi in questo senso al muralismo messicano di Diego Rivera negli anni Venti del Novecento, al suo ruolo nell’esprimere l’identità del popolo messicano, le sue lotte e le critiche ad un capitalismo nascente.
La “street art” è però anche fenomeno nuovo perché, nelle modalità in cui si è attuata in questi anni, ha assunto il valore di vera e propria controcultura, mezzo espressivo complesso scelto dalle periferie del mondo per ritornare ad essere visibili. Mezzo espressivo complesso non solo perché si manifesta essa stessa in varie forme e modalità, ma perché di questa controcultura fa parte una nuova maniera di fare musica, il rap, una nuova maniera di ballare, l’hip hop, una nuova o almeno diversa maniera di vestire, nuovi fumetti, nuove letterature, nuove maniere di intendere la società e la socialità.
Banalizzando si potrebbe dire che questa controcultura compare quando le marginalità urbane scelgono la creatività in alternativa alla criminalità.
Il mix è chiaramente esplosivo: desiderio di emergere, di tornare a essere visibili, di riappropiarsi di un se stessi e arte sono due motori potentissimi e come tutti i fenomeni dirompenti creano inizialmente disagio e incomprensione, e tanti sono stati i tentativi di normalizzazione di questa controcultura, ma alla fine è stata proprio questa controcultura a entrare in maniera pervasiva nella vita quotidiana fluendo nelle strade, che diventano musei, e arrivando nella vita quotidiana.Tutta la società ne resta in qualche misura “contaminata” negli aspetti più quotidiani e comuni, maniere di vestire, musica da ascoltare, maniera di ballare e di stare insieme, a effetti più sottili e più difficili da evidenziare. Si pensi ad esempio a quanto dell’arte urbana, nella sua accezione più ampia, sia tracimata nel mondo della pubblicità, dall’uso dei muri dipinti quali sfondi per campagne pubblicitarie o dall’uso del così detto “whole car”, ovvero la scelta di avvolgere con una campagna pubblicitaria interi autobus o tram o vagoni ferroviari, modalità letteralmente inventata da quei writer che iniziarono a dipingere interi vagoni ferroviari o interi treni per aumentare la loro visibilità anche nel mondo del writing oltre che per colpire e saturare l’occhio del passante/spettatore/oggetto dell’opera viaggiante.
E se nella pratica dell’arte di strada la strada diviene museo, e il pezzo dipinto nel bene e nel male è a disposizione di tutti, a fruizione libera, sempre più spesso si cerca di invertire il concetto e di far si che il museo divenga una strada.In questo tentativo, per altro dichiarato dall’allestimento, si pone la mostra “Cross The Streets” al MACRO di Via Nizza; una mostra complessa e semplice allo stesso tempo, e che forse anche in questo mix riesce a interpretare l’essenza di questa forma di arte, anche se il limite di non essere in strada si percepisce nettissimo.
D’altra parte il MACRO non è nuovo a questo tipo di esperienze e contaminazioni, essendo una realtà che si pone spesso quale ponte tra l’esterno e l’interno, tra la strada e il museo, avendo ospitato in passato la mostra dei bozzetti per l’opera di Kentridge “Triumphs and Laments” e ospitando stabilmente interventi di Ozmo, Bros e Sten&Lex.
“Cross The Streets” si articola in sezioni diverse che vogliono dare una visione più completa possibile del fenomeno dell’arte urbana declinata nel maggior numero possibile di tipologie.
La prima sezione s’intitola “Street Art Stories”, e cerca di raccogliere storie diverse che la strada racconta e mostrare la realtà di queste storie in particolare il fatto che non tutte sono a lieto fine. Non è a lieto fine la storia dei muri dipinti a Roma da Keith Haring, in due momenti diversi, negli anni che vanno dal 1984 al 1986. Due opere realizzate ed entrambe rimosse, come spesso avveniva ed avviene ancora, anche se più raramente, e di cui in mostra è possibile vedere la documentazione fotografica. Parzialmente a lieto fine è la storia dei mosaici dell’artista francese Invader che letteralmente invase Roma nel 2010, mosaici che sono stati parzialmente rimossi, alcuni per motivi di collezionismo, altri invece sono ancora in opera.
Ma in questa sezione è possibile vedere opere di Shepard Fairey aka Obey the Giant e di Ron English tra i più noti artisti della scena statunitense, insieme a quelli di JB Rock, Diamond, Lucamaleonte artisti romani le cui opere possono essere viste frequentemente sui muri della città di Roma, che realizzano per “Cross The Streets” delle opere “site specific” che sebbene siano ristrette nelle ampie sale del MACRO sembrano riuscire a respirare della stessa aria che respirerebbero in strada.
Muoversi in questa sezione crea uno strano effetto straniante poiché si passa attraverso momenti artistici completamente diversi, non solo per tecnica utilizzata, ma anche per stili e portati e mondi e microcosmi, realtà diverse che si intrecciano e che stimolano suggestioni e riflessioni molteplici, bellissima e sotto certi punti di vista struggente l’opera di ROA, non senza strappare più di un sorriso per la sottile ironia che pervade alcune delle opere esposte.
“Writing a Roma, 1979 – 2017” è una sezione della mostra che ricostruisce attraverso una documentazione ampia e articolata la storia del writing romano. In un interessante e originale allestimento si possono vedere foto di pezzi realizzati su muri o treni nel corso degli anni, alcuni pezzi realizzati sul muro del MACRO e soprattutto gli sketch book su cui i diversi pezzi prendono vita per la prima volta, quale importante testimonianza della continua elaborazione artistica e grafica con cui il writer evolve la sua persona e la presenta poi in strada. I nomi qui sono quelli di personalità davvero importanti della scena del writing romano: Napal, Brus, Imos, Pax Paloscia tra gli altri e le crew TRV e WHY Style.
Una parte importante di questa sezione è il ritrovamento del materiale esposto a Roma, e per la prima volta in Europa, nel 1979 da parte di due writer newyorkesi, Lee Quinones e Fab 5 Freddy, e messo nuovamente a disposizione del pubblico.Nell’ambito di questa sezione c’è anche una sorta di esperimento emozionale, il tentativo di comunicare al visitatore non solo la componente più artistica di un pezzo, ma anche quello che accade quando il pezzo viene realizzato: la ricerca del muro, o del treno, l’emozione della violazione di un luogo “proibito”, l’adrenalina che sale mentre il tutto accade, la necessità di fuggire quando scoperti nella notte. L’insieme dei bozzetti esposti e le sollecitazioni emotive fornite dalle installazioni costituiscono un’opportunità forse unica per capire perché il writing non può essere banalmente liquidato come vandalismo.
Questa sezione risulta nel suo complesso quella più vicina al cuore di ciò che l’intera mostra vuole raccontare.
“Milestones” è la terza sezione della mostra, forse quella più autoreferenziale e sotto certi punti di vista meno coinvolgente per il visitatore, dove si cerca di fare una sorta di breve riassunto degli eventi imprescindibili per questo movimento dalle mostre degli primi anni 2000, alla nascita dell’”Outdoor Festival” al progetto “Izastikup”, solo per fare alcuni esempi.Roma, 22 luglio 2017
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Santa Croce in Gerusalemme
18 Luglio 2017 by Ornella Massa
La basilica di Santa Croce in Gerusalemme è il luogo che dal momento della sua fondazione ha conservato tra le più importanti reliquie della cristianità. Fu eletta a ruolo di basilica da papa Gregorio I nel 523 e fu inserita da Filippo Neri nell’itinerario del così detto Pellegrinaggio delle Sette Chiese.
Sebbene la chiesa fosse posta ai margini della città di Roma, essa fu oggetto di un costante pellegrinaggio sin dalla sua costituzione, poiché custodiva le reliquie della Passione di Cristo ritrovate in situazioni miracolose sul monte Calvario da Elena.
Le reliquie oggi sono conservate nella Cappella delle Reliquie, a cui si accede salendo dalla navata sinistra. La reliquia più famosa è costituita dai frammenti della Croce di Cristo. Insieme a questi frammenti sono conservati nella cappella: il Titulus Crucis, ovvero l’iscrizione che, secondo i Vangeli, era posta sulla croce; un chiodo della croce di Cristo, due spine appartenenti, secondo la tradizione, alla corona posta sul capo di Gesù, il dito di San Tommaso, l’apostolo che dubitò della resurrezione di Cristo e una parte della croce del Buon Ladrone.
Il nucleo più antico della basilica risale al IV secolo dopo Cristo, quando Elena, madre di Costantino decise di trasformare la grande aula rettangolare coperta da un soffitto diritto, illuminata da venti finestre, disposte cinque su ogni lato, e facente parte del suo palazzo, detto Sessoriano, in basilica cristiana.
Il palazzo Sessoriano, dalla parola latina sedeo ovvero siedo, poiché in età tardo imperiale il consiglio imperiale si riuniva in una sala del palazzo, sorgeva a sua volta sull’area di una villa imperiale la cui costruzione era stata iniziata da Settimio Severo e terminata da Eliogabalo nel III secolo dopo Cristo. Di questa enorme villa detta Horti Variani ad Spem Veterem facevano parte l’Anfiteatro Castrense, il Circo Variano, le Terme Eliane, dal nome di Elena e un nucleo residenziale, di cui faceva parte proprio l’aula scelta da Elena per dare origine alla basilica.La villa perse alcune sue parti quando furono costruite le Mura Aureliane nel 272. Elena istituisce qui la sua residenza all’inizio del IV secolo.
Proprio per la sua continua frequentazione la basilica fu restaurata una prima volta nell’VIII secolo per volere di Gregorio II e Adriano I, ma la trasformazione più importante si ha nel XII secolo quando la struttura della chiesa viene trasformata seguendo lo stile romanico, e la grande aula divisa in tre navate. Impostazione che è quella che ancora oggi può essere osservata.
Inoltre in questo momento vengono aggiunti un campanile a torre, ancora esistente ed un portico oggi scomparso.
Durante il regno di papa Benedetto XIV la chiesa subisce una nuova trasformazione, e oggi la chiesa romanica lascia il posto ad una architettura di gusto decisamente tardo barocco.
Nel X secolo alla basilica viene associato un monastero nel quale si sono alternate diverse comunità religiose. Ad esempio nel 1049 Leone IX assegnò il monastero ai Benedettini di Montecassino. Nel 1372, sotto il regno di Urbano V arrivarono i Certosini che vi rimasero fino al 1561 quando arrivarono i Cistercensi di Lombardia, che rimasero a gestire la chiesa fino al 2009.
Proprio per la presenza di un monastero per così tanti secoli e per la posizione marginale della basilica rispetto alla città, che veniva così a trovarsi in aperta campagna, vediamo oggi sopravvivere un orto piuttosto esteso che si apre alla destra della basilica chiuso da una splendida porta di vetro e ferro opera di Jannis Koonellis, inaugurata solo nel 2007.
Grazie al lungo periodo di storia che la basilica di Santa Croce in Gerusalemme copre, essa si presenta ricca di opere d’arte, a cominciare dal pavimento cosmatesco in perfetto stato di conservazione e quale insieme di realtà composite, vista la compresenza di una grande sala absidata impropriamente definita Tempio di Venere e Cupido, di due domus di età costantiniana e dell’Anfiteatro Castrense, tra gli altri.
Tra l’Anfitetaro Castrense e le Mura Aureliane, papa Sisto IV nel 1476 fece costruire l’oratorio di Santa Maria del Buon Aiuto come segno di ringraziamento. Era accaduto infatti che il papa era stato colto in aperta campagna da un violento nubifragio e chiedendo aiuto alla Vergine trovò riparo proprio nei pressi delle Mura. In quel luogo fece costruire un piccolo oratorio in cui è conservato un affresco con il tema della Madonna con Bambino, attribuito a Antoniazzo Romano.Nei sotterranei si trova la Cappella di Sant’Elena, ornata con una decorazione a mosaico risalente al regno di Valentiniano III. Sotto il pavimento di questa cappella è conservata la terra del Calvario, anch’essa riportata da Elena dai luoghi santi. In questa cappella le donne possono accedere solo il 20 marzo, giorno della dedicazione della cappella, pena la scomunica.
Nella cripta è collocata la statua romana di Giunone trovata a Ostia Antica e trasformata nella statua di Sant’Elena, per mezzo della sostituzione della testa, delle braccia e l’aggiunta di una croce.Roma, 18 luglio 2017