prima pagina

  1. Piranesi: la fabbrica dell’utopia

    Quando Goethe arriva a Roma in incognito nel novembre 1786 inizia a tenere un diario, un taccuino di appunti. Proprio il 1 novembre scrive:

    Giovan Battista Piranesi in un ritratto postumo

    “Si, sono arrivato finalmente in questa capitale del mondo! […] Eccomi ora a Roma, tranquillo, e, a quanto sembra, acquietato per tutta la vita. Poter contemplare con i propri occhi tutto un complesso, del quale già si conoscevano interiormente ed esteriormente i particolari, è direi quasi come incominciare una vita nuova. Tutti i sogni della mia giovinezza ora li vedo vivi; le prime incisioni di cui mi ricordo (mio padre aveva collocato in un’anticamera le vedute di Roma), ora le vedo nella realtà, e tutto ciò che da tempo conoscevo in fatto di quadri e disegni, di rami o di incisioni in legno, di gessi o di sugheri, tutto ora mi sta raccolto innanzi agli occhi e dovunque io vada, trovo un’antica conoscenza in un mondo forestiero. Tutto è come immaginavo, e tutto è nuovo. [….]”
    In queste poche righe si può leggere un riassunto di tutto ciò che Piranesi era riuscito a mettere in campo nel suo breve periodo di attività. Breve perché Giovan Battista Piranesi muore a 58 anni, nel 1778, e la parabola di questo visionario architetto si era già compiuta da otto anni quando Goethe arriva a Roma.
    Goethe ci dice che sentì l’irresistibile necessità di venire a Roma, e quindi a Napoli, e di compiere quello che era chiamato il Grand Tour, quasi costretto dalla visione, che dobbiamo immaginare quotidiana, delle incisioni di Roma che il padre aveva collocato in un’anticamera e sotto il continuo stimolo di quelle che ovunque andasse, nelle case borghesi e nobili dell’epoca, certamente aveva modo di vedere.

    Un gabinetto per le stampe a Blickling Hall

    Le immagini di Roma, e non solo, che Piranesi incisore aveva creato, infatti, erano oggetto di collezionismo e intere camere erano arredate con esse. Le incisioni, tutte di grande formato, acquistate per comodità in fogli sciolti venivano poi raccolte in album, da sfogliare e commentare insieme agli amici nelle lunghe serate dell’inverno del Nord.
    Ma queste immagini avevano anche un potere che Goethe ben descrive: inducevano quelli che le osservavano ad intraprendere il Viaggio, venire a Roma, per vedere con i propri occhi e vivere in prima persona quell’esperienza, di sentimento ed emozione, che già la visione dell’incisione aveva iniziato.
    Piranesi è quindi l’inventore e il motore principale del Grand Tour della seconda metà del Settecento, ma non solo. E’ anche l’inventore di una nuova visione di Roma, e non solo della Città Eterna, e delle rovine archeologiche tanto che, come scrive Goethe,“tutto è come immaginavo, e tutto è nuovo”. L’antico che improvvisamente assume un valore moderno. L’antico così ben conosciuto, perché visto più volte su libri e quadri, che improvvisamente diviene nuovo.
    Colpisce nelle parole di Goethe l’assenza dell’esplicito riferimento a Piranesi eppure in città, nel 1786, esisteva ancora la bottega del grande artista ereditata dai suoi figli, di cui Francesco era anche molto noto.
    Questo fa comprendere come Piranesi fosse stato un lucido visionario sempre un passo avanti agli altri, per questo scarsamente compreso e accettato a Roma dai suoi colleghi e dagli altri intellettuali.

    La Piramide Cestia – Piranesi

    Un arista profondamente neoclassico ed illuminista nel rigore della misura e del rilevamento dei dati, che impedirà, insieme ad altri architetti dell’epoca l’evoluzione della Roma barocca in Roma rococò, indirizzandola fortemente verso il neoclassicismo, ma che, contemporaneamente, darà vita ad un immaginario assolutamente romantico, molto tempo prima forse del romanticismo stesso, che cambierà profondamente stili di vita e mode soprattutto del Nord Europa e in particolare nella lontana Inghilterra. Sulla scorta delle immagini di Piranesi, ad esempio, diventerà di moda il giardino romantico all’inglese, che conviveva o che addirittura soppiantava il giardino neoclassico nelle bellissime dimore sparse nella campagna inglese.
    L’invidia dei colleghi e degli altri intellettuali del tempo, che non gli perdonavano la verve perennemente polemica, fece circolare il sospetto, dopo la sua morte, che le sue competenze in termini di architettura e di archeologia non fossero poi un gran che. In fondo come architetto Piranesi aveva realizzato una sola opera, che è quel piccolo gioiello di Santa Maria del Priorato sull’Aventino. Ma i suoi detrattori tacevano sulle influenze determinanti che Piranesi aveva avuto, ad esempio, sugli architetti inglesi che presso di lui si erano formati e che una volta tornati in patria avevano realizzato opere dal carattere e dall’impianto decisamente piranesiano.
    Si taceva sul fatto che Piranesi aveva inventato il “pastiche” ovvero la rielaborazione del reperto archeologico per dare vita ad una nuova opera che aveva elementi antichi ed elementi moderni in contemporanea. Di pastiche vivranno il Cavaceppi e Vincenzo Pacetti, che impareranno entrambi il mestiere proprio da Piranesi, prima di lavorare alle dipendenze dalle famiglie Borghese e Torlonia.

    Via Appia e Via Ardeatina da Le Antichità Romane – Piranesi

    Il mercato dei pastiche che dalla bottega di Piranesi s’irradiava verso il Nord Europa era fiorentissimo e aveva sostituito completamente il mercato di arte antica che ormai si era ristretto al massimo da quando era stato inaugurato il Museo Pio Clementino e l’esportazione dei pezzi antichi, veri e propri, era diventata operazione complessa se non proprio impossibile.
    Piranesi sarà anche tra i primi a prestare attenzione agli arredi e ai complementi di arredo che gli scavi archeologici effettuati con un nuovo rigore scientifico stavano portando alla luce. Anche questo aspetto dell’antico verrà indagato con fare illuministico e la conoscenza minuziosa permetterà la creazione di elementi di arredo che di nuovo verranno collocati soprattutto sul mercato inglese.
    Alla morte di Piranesi i detrattori riusciranno nel tempo a far perdere le tracce di quest’artista quasi completamente, ma la sua lezione decorativa e artistica riemergerà rivelando il suo potere immaginifico.
    Uno dei riscopritori di Piranesi sarà ad esempio Escher, che collezionerà incisioni piranesiane durante la sua permanenza in Italia, che vedrà la fine con l’emanazione delle leggi razziali fasciste, e le userà come fonte d’ispirazione per i suoi intricati disegni. E come non vedere il segno di Piranesi nelle porcellane che Gio Ponti negli Anni Venti del Novecento creerà per Richard Ginori, e come non riconoscere la fascinazione di Marguerite Youcenar per le sue incisioni, tale che la scrittrice acquistò alcune tavole del grande incisore. E ancora, come non vedere l’influsso della visione immaginifica piranesiana nel mondo del fumetto dalla Gotham city degli anni Quaranta del Novecento alle più recenti gothic novel o in alcune delle tavole di Moebius o in alcuni film da Metropolis di Friz Lang al Castello Nel Cielo di Miyazaki.

    Casa Degli Efebi – Gio Ponti per Richard Ginori 1924/1925

    Tutte queste sfaccettature della personalità di Piranesi emergono chiare e prepotenti visitando la mostra che Palazzo Baschi gli dedica.
    Attraversando le sale e ammirando le tavole certamente emerge il Piranesi incisore e dalle numerose acqueforti esposte si può cogliere il suo personale sentimento, la grande emozione che provava quando traduceva in immagine fissa quella che per lui era architettura vivente. Ma non si può non cogliere il particolarissimo punto di vista di Piranesi che attraverso l’uso di tagli prospettici arditi o magnificazioni opportune delle dimensioni riesce a dare dei luoghi più noti di Roma, tante volte riprodotti, una visione nuovissima, dirompente e mai uguale a se stessa. Ma emerge pure il Piranesi archeologo, l’architetto, il creatore di moda di arredamento, oggi diremmo designer, il fervente polemista che con rigore tecnico e scientifico discute con competenza questioni archeologiche con le voci più autorevoli del tempo.

    Roma, 24 settembre 2017

  2. Il fascino irresistibile dell’antico: Museo Nazionale al Palazzo Massimo alle Terme

    A Roma, nei pressi della stazione Termini, il Museo Nazionale di Palazzo Massimo accoglie una delle collezioni più importanti di arte classica del mondo.

    Magna Mater / Cibele – Museo Nazionale Romano al Palazzo Massimo

    L’edificio vanta una storia di grande prestigio. In stile neo-cinquecentesco, fu realizzato tra il 1883 e il 1887 su progetto di Camillo Pistrucci, in un’area precedentemente occupata dalla Villa Peretti, costruita da Sisto V e dimora della famiglia Massimo. Successivamente l’edificio divenne sede del prestigiosissimo collegio dei Gesuiti che vi rimase fino al 1960.
    L’area di pertinenza della Villa è stata gradualmente erosa per la realizzazione degli edifici e dell’assetto urbano circostante, in particolare per la costruzione della stazione Termini.
    Dopo alterne vicende Palazzo Massimo fu acquistato dallo Stato nel 1981 e restaurato su progetto dell’architetto Costantino Dardi. Tutto ciò fu possibile grazie al finanziamento di una legge speciale per la tutela del patrimonio archeologico romano.
    La sede museale venne inaugurata nel 1995 e completata nel 1998 con l’apertura del primo e secondo piano oltre a quello interrato.
    Il Massimo è la principale delle quattro sedi del Museo nazionale romano, insieme con la sede originaria delle Terme di Diocleziano, che attualmente ospita la sezione epigrafica e protostorica; con Palazzo Altemps, sede delle collezioni rinascimentali di scultura antica e con la Crypta Balbi, ricca di collezioni altomedievali.
    Tra i capolavori assoluti di arte romana di Palazzo Massimo ad accogliere i visitatori già al pianterreno, si erge una statua colossale di divinità femminile seduta, proveniente dalle pendici dell’Aventino. È composta da numerose tipologie di marmi colorati antichi, secondo una tecnica molto apprezzata dagli scultori romani. La statua, di età augustea, è stata restaurata come Minerva. Secondo recenti studi sembra però che la statua raffigurasse la Magna Mater – Cibele, un’antica divinità anatolica, il cui centro principale di culto era Pessinunte, in Frigia.
    Tantissime sono le opere raccolte. Quelle esposte al piano terreno e al primo piano documentano l’evoluzione della scultura romana che abbandona lentamente i modelli e gli stilemi dell’arte italica, fortemente legata in particolare all’arte etrusca, per andare incontro ad una ellenizzazione. Attraversare le sale del museo vuol dire anche partecipare a un’alternanza di emozioni legate alla visione di opere incredibili quale il Pugile in riposo, il Discobolo Lancellotti, l’Ermafrodito dormiente, la fanciulla di Anzio, la Niobide morente e il Dioniso bronzeo.

    Il Pugile a Riposo (particolare) – Museo Nazionale Romano al Palazzo Massimo

    Il Pugile in riposo è una statua in bronzo, greca, datata al IV secolo avanti Cristo, attribuita a Lisippo e rinvenuta alle pendici del Quirinale. L’atleta è colto subito dopo il combattimento. E’ stanco e ferito, come testimoniano gli inserti di rame che vogliono richiamare appunto le ferite e il sangue che ne è sgorgato, la possente figura e la struttura muscolare sono contenute e contrastano con la testa che di scatto è girata verso la sinistra, come se l’atleta fosse stato richiamato a sorpresa e stia iniziando un dialogo. L’insieme crea una palpabile tensione nella sala che induce ad interagire con il pugile, e spinge quasi a parlargli ancora in un orecchio.
    La Niobide Morente è un’altra statua di forte impatto emotivo. Anche in questo caso ci si trova di fronte ad un originale greco databile tra il 440 e il 430 avanti Cristo, rappresenta una donna colpita a morte da una freccia che le si è conficcata nella spalla. La donna è ritratta nel momento in cui consuma le sue ultime energie nel tentativo di estrarre la freccia medesima, cadendo per questo in ginocchio.
    La figura femminile è in genere interpretata come Niobide, ovvero come la figlia del re Niobe che si vantò di essere più prolifica di Latona, madre di Apollo e Artemide, avendo partorito sette figli. Per questo motivo Apollo e Artemide la punirono uccidendo lei e i suoi figli su ordine della madre.
    Il Discobolo è invece una copia del II secolo dopo Cristo di quello di Mirone, l’artista che lo realizzò nel V secolo avanti Cristo. L’originale greco da sempre rappresenta l’ideale dell’atleta e il modello da studiare per la riproduzione corretta di un corpo umano in movimento. Questa copia in marmo, di età antonina, è considerata la copia più fedele all’originale in bronzo.

    Augusto come Pontefice Massimo – Museo Nazionale Romano al Palazzo Massimo

    Tra i ritratti degli imperatori molto nota è la statua di Augusto come Pontefice Massimo, ovvero con la toga, com’era di moda negli ultimi decenni del I secolo avanti Cristo e che era ritenuta un po’ il costume tradizionale romano, e il capo coperto come era caratteristico dei sacerdoti durante i riti sacri. Si suppone che avesse nella mano destra la patera e nella sinistra il volumen. Il volto è un ritratto molto fedele di Augusto, comprese le rughe sulla fronte e ai lati del naso che indicano uno stato di età avanzata.
    Ma al Museo del Palazzo Massimo non c’è solo la statuaria, ma sono anche esposte testimonianze importanti della cultura romana quali i Fasti Antiates, due pannelli affrescati ritrovati nei pressi della Villa di Nerone ad Anzio, databili tra l’88 e il 55 avanti Cristo e contenenti il calendario romano di Numa Pompilio, in uso prima della riforma di Gaio Giulio Cesare, comprendente le festività romane e l’elenco delle magistrature principali, quali quella di consoli e censori del periodo compreso tra il 173 e il 67 avanti Cristo.
    In una sala successiva si può seguire l’evoluzione del calendario e l’applicazione della riforma di Giulio Cesare grazie al ritrovamento e all’esposizione dei Fasti Praenestini, così detti perché affissi a Praeneste, che illustrano un calendario di età augustea nel quale è ormai entrata in vigore la riforma di Cesare con l’anno di 365 giorni.
    Il museo raccoglie anche importantissimi sarcofagi di cui, probabilmente il più noto è il sarcofago di Portonaccio.
    Il meraviglioso sarcofago risalente al 180 dopo Cristo è stato ritrovato nel 1931 in via delle Cave di Pietralata. La scena rappresentata sul fronte è una serrata battaglia che si articola su più piani e la cui visione comunica tutta la concitazione del momento: ovvero la lotta e la sconfitta dei barbari.
    Il coperchio riassume varie fasi della vita del defunto, la nascita, l’educazione, il matrimonio riassunto dalla scena della dextrarum iunctio, la morte. Le scene hanno anche il ruolo di celebrare le virtù del defunto: la sapienza, sottolineata dalla presenza delle Muse, la concordia e la clemenza riservata ai barbari sconfitti.
    Come è nella tradizione della produzione del sarcofago la testa ritratto del defunto veniva terminata alla morte dell’acquirente, che comprava il sarcofago da vivo. In questo caso la testa ritratto non è terminata, non è possibile quindi definire con certezza il proprietario del sarcofago.

    Sarcofago di Portonaccio 8particolare) – Museo Nazionale Romano al Palazzo Massimo

    L’attribuzione quindi viene attualmente dedotta dalle insegne militari che sono rappresentate sempre sul bordo superiore della cassa. L’aquila della Legio IIII Flavia e il cinghiale della Legio I Italica fanno pensare che il defunto sia Aulus Iulius Pompilius, ufficiale di Marco Aurelio al comando di due squadroni di cavalleria nella guerra contro i Marcomanni, tra il 172 e il 175 dopo Cristo.
    La decorazione del sarcofago è decisamente ispirata a diverse scene della colonna Antonia e il fregio principale frontale è completato dalla riproduzione dei momenti successivi della battaglia, riprodotti sui fianchi del sarcofago.
    Tra i reperti unici e più interessanti esposti nelle sale del Palazzo Massimo ci sono gli arredi delle così dette navi di Caligola, ritrovate nel lago di Nemi e riportate in superficie tra il 1928 e il 1932. Della struttura delle navi, da considerarsi più come delle piattaforme galleggianti, oggi restano appunto le decorazioni, in parte conservate nel museo presso il lago di Nemi, poiché nel 1944 un incendio probabilmente causato dai Tedeschi, le distrusse completamente.
    Molte ipotesi si sono fatte sulla funzione delle due navi, oggi la più accreditata è che esse fossero destinate alla celebrazione di feste religiose, visto che il lago di Nemi aveva una sacralità elevatissima legata alla presenza del tempio di Diana Aricina, centro politico e religioso molto importante per le popolazioni italiche che lo frequentarono assiduamente fino all’avvento del cristianesimo.

    Testa di Medusa dalle Navi di Nemi – Museo Nazionale Romano al Palazzo Massimo

    Tra i reperti appartenuti alle navi di Caligola si possono ammirare i rostri di forma leonina o di lupo, delle teste di medusa in bronzo che competono in fascino con quella del Bernini conservata ai Museo Capitolini, le erme bifronte in bronzo e la balaustra decorata con eleganti testine dal profilo decisamente greco.
    Il museo conserva gli affreschi della villa di Livia a Prima Porta e della Villa Farnesina di cui abbiamo estesamente parlato in una precedente occasione, ma le decorazioni parietali e pavimentali sono completate da una collezione di mosaici di cui le più note sono forse le due tarsie marmoree provenienti dalla “Basilica di Giunio Basso”, un’aula di rappresentanza dell’edificio fatto erigere dal console Giunio Basso nel 331 dopo Cristo, sul colle Esquilino, che durante il pontificato di papa Simplicio, verso la seconda metà del V secolo dopo Cristo, venne trasformata nella Chiesa di Sant’Andrea Catabarbara.
    Le due meravigliose opere in opus sectile, la cui evoluzione “moderna” troverà la più alta espressione nelle opere prodotte dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze voluto da Ferdinando I de’ Medici nel 1588, rappresentano due scene di argomento diverso:

    Pompa circensis dalla Basilica Giunio Basso – Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo

    una è un episodio della saga degli Argonauti, ovvero il rapimento del giovane Hylas da parte delle ninfe, nella seconda si può ammirare una pompa circensis, ovvero la processione che precedeva l’inizio dei giochi nel circo. La tarsia della Basilica di Giunio Basso mostra, al centro del circo, il patrono dei giochi, forse da identificarsi con Giunio Basso stesso, mentre alle sue spalle le quattro fazioni sono presentate: la rossa o russata, l’azzurra o veneta, la verde o prasina e la bianca o albata.
    Altre due tarsie provenienti dal medesimo edificio sono conservate ai Musei Capitolini.

  3. Bellezza, storia e memoria: Museo Ebraico di Roma e Ghetto

    Oltre duemila anni di storia della comunità ebraica di Roma e del suo straordinario legame con la città sono racchiusi nello splendido Museo Ebraico, allestito all’inter-

    Una delle sale del Museo Ebraico.

    no del Tempio Maggiore che sorge nell’area che fu il ghetto di Roma.
    Inaugurato nel 1960, il museo riunisce le raccolte della comunità romana arricchite dal contributo degli Ebrei libici, giunti a Roma nel 1967. All’inizio era solo un piccolo ufficio allestito, dietro l’Arca Santa della Sinagoga, per accogliere i turisti che visitavano il tempio e il ghetto. Tra il 2000 e il 2001, grazie ai visitatori che negli anni si sono moltiplicati, la direzione del museo ha deciso di ingrandire l’ufficio e trasformarlo in un vero e proprio museo, attribuendogli il nome ufficiale di “Il Museo Ebraico”. I lavori di restauro sono durati cinque anni e l’inaugurazione è avvenuta il 22 novembre 2005.
    L’allestimento attuale mette in risalto l’immortale fascino di una religiosità e di una cultura antica, che è raccontata attraverso 1500 arredi tra argenti romani del Sei e Settecento, pregiati tessuti provenienti da ogni parte d’Europa, pergamene miniate, calchi, paramenti e oggetti sacri, spesso inseriti nella ricostruzione di vere e proprie scene di vita tradizionale.

    Una delle scene allestite all’interno del Museo Ebraico

    Completano l’allestimento l’esposizione dei marmi provenienti dalle Cinque Scole, le cinque scuole ebraiche, ovvero le cinque sinagoghe, che avevano sede nel grande edificio che insiste oggi su Piazza delle Cinque Scole. Le cinque scuole erano: la Scola Nova, la Scola del Tempio, la Siciliana, di rito italiano, la Castigliana, di rito spagnolo, e la Catalana, la più importante dal punto di vista architettonico, costruita da Girolamo Rainaldi nel 1628. Intorno a ciascuna sinagoga si raccoglieva una comunità ebraica che si differenziava dalle altre in base alla provenienza e anche, in parte nel rito. La Scola del Tempio ad esempio era frequentata dagli ebrei locali, la Scola Nova da quelli che venivano dai piccoli centri del Lazio, quella Siciliana era per gli Ebrei profughi dall’Italia meridionale, mentre quella Catalana e quella Castigliana era per gli Ebrei profughi dalla Spagna. Queste ultime tre sinagoghe seguivano il rito sefardita. L’arrivo delle tre comunità di rito sefardita dalla Spagna, dalla Sicilia e dal Portogallo risale al 1492.
    I marmi raccolti coprono un periodo che va dal XVI al XIX secolo, e documentano aspetti diversi della comunità ebraica romana, quali ad esempio l’acquisizione di terreni per l’allestimento di un cimitero o la proibizione di portare il pane lievitato vicino al forno per le azzime.

    Parochet rossa esposta all’interno del Museo Ebraico


    Nel museo sono anche raccolti i documenti della propaganda fascista contro gli Ebrei e altri oggetti che segnarono gli anni della guerra durante i quali, solo dal ghetto di Roma, all’alba del 17 ottobre 1943, 1259 persone della comunità furono rastrellate, per essere deportate e uccise nei campi di concentramento nazisti.
    Durante la visita sarà possibile ammirare anche i vestiti e i paramenti indossati per i rituali propri della comunità ebraica italiana. Il rito degli Ebrei italiani è, infatti, differente da quello degli altri riti ebraici poiché la comunità romana non è né sefardita, ovvero legata agli Ebrei provenienti dalla penisola iberica, né ashkenazita, ovvero legata agli Ebrei provenienti dall’Europa orientale.
    Gli Ebrei a Roma sono, forse, i soli abitanti della città che possono vantare una presenza ininterrotta di oltre duemila anni. Essi, sulle rive del Tevere, infatti, costituirono una delle comunità più antiche in Europa. Il primo insediamento ebraico in Italia, a Ostia antica lungo la via Severiana, risale alla prima metà del I secolo avanti Cristo, così come testimoniato dai resti della Sinagoga, ancora oggi considerata la più antica in mondo Occidentale mai riportata alla luce, alcuni reparti della quale sono conservati proprio all’interno del museo.
    Praticamente contemporaneo dovrebbe essere il primo nucleo della comunità ebraica romana che si accrebbe notevolmente con l’arrivo dei prigionieri portati a Roma tra il 63 e il 61 avanti Cristo, in seguito alla campagna di guerra di Pompeo in Giudea, anche se le prime testimonianze di contatti ufficiali tra Gerusalemme e Roma risalgono alle ambascerie inviate dai Maccabei a partire dal 161 avanti Cristo, per stringere patti di alleanza con i Romani contro il predominio dei Seleucidi.
    Da quanto scrive Cicerone nell’orazione Pro Flacco, questa comunità iniziale era strettamente legata a quella palestinese tanto che ancora nel 59 avanti Cristo essa mandava il contributo per il Tempio.

    Uno degli argenti conservati all’interno del Museo Ebraico.


    E’ di fatto impossibile riassumere la storia di una comunità così antica in poche righe, ma un altro evento importante è la rivolta degli Ebrei al governo romano che si tradusse nelle guerre giudaiche che si succedettero dal 66 al 135 dopo Cristo. La conclusione della Prima Guerra Giudaica, dal 66 al 70 dopo Cristo, fu segnata dalla distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme ad opera di Tito.
    I bassorilievi dell’arco di Tito, che raffigurano il corteo trionfale dell’imperatore, con il candelabro a sette bracci e gli arredi depredati dal Tempio, tramandano la memoria della conquista di Gerusalemme, in seguito alla prima Guerra Giudaica intrapresa da Vespasiano e portata a termine dal figlio. Si sanciva così la dispersione degli Ebrei nell’Impero. Con l’arrivo degli schiavi portati da Tito e i numerosi esuli, Roma divenne sede di una delle più importanti comunità della diaspora, contando a quel punto circa 50.000 presenze ebraiche.
    Fino al 1555 gli Ebrei romani vissero sostanzialmente liberi, sebbene vessati, all’interno della città. Fu, infatti, in questo anno che Paolo IV revocò la maggior parte dei diritti della comunità e ordinò la costruzione del serraglio, ovvero del Ghetto all’interno del quale la comunità fu fino al 1870, quando con l’unità si ebbe l’equiparazione dei cittadini di origine ebraica con gli italiani.

    Libri scampati al passaggio dei nazisti nel Ghetto di Roma.


    All’interno del museo è allestita una sala che riguarda anche la lingua e la cucina, lo spazio urbano e l’architettura, l’istruzione e gli organismi di assistenza, ovvero la vita quotidiana nel ghetto di Roma. E’ anche per questo che alla visita al museo farà seguito una passeggiata nelle strade e nei vicoli di ciò che resta del Ghetto di Roma.
    Per un ulteriore approfondimento sulla storia del Ghetto si rimanda all’articolo “Roma degli Ebrei. Il Ghetto”.

    Roma,

  4. Racconto

    Čechov e il Teatro d’Arte di Mosca

    di Sebastiano Scavo

    Sebastiano Scavo ha studiato a lungo letteratura e cultura russa, vivendo per lunghi periodi a Mosca e in altre città di quel bellissimo paese che è la Russia. E’ con piacere che pubblichiamo un suo pezzo su Čechov, il suo teatro e il Teatro d’arte di Mosca.
    Potete leggere altro di Sebastiano sul suo blog, qui.

    Imboccando il vicolo Kamergeskij, una delle ultime traverse della Tverskaja prima di

    In primo piano il monumento ad Anton Čechov e, sullo sfondo, la sede storica del Teatro d’Arte di Mosca dedicato allo scrittore.

    arrivare al Cremlino, si nota a destra il monumento ad Anton Čechov, eretto qui nel 1998, anno del centenario della fondazione del Teatro d’Arte di Mosca, la cui sede storica sorge proprio di fronte alla statua del celebre scrittore. Mi sono spesso domandato perché lo scultore Anikuškin abbia raffigurato così Čechov, elegante ma fragile, dalle gambe insicure, che guarda nella direzione del Teatro cui è legato il suo nome, pur senza osservarlo direttamente. Penso che Anikuškin abbia voluto porre l’accento sulla precarietà della salute dello scrittore, e sul suo contraddittorio rapporto con questo Teatro, per il quale scrisse alcune tra le sue pièce più famose.
    continua…