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  1. Archeo

    Traiano. Costruire l’Impero, creare l’Europa.

    Il fascino dei Mercati sotto le luci da Oscar di Storaro

    La mostra allestita presso i Mercati di Traiano, ripercorre attraverso l’esposizione di statue, ritratti, decorazioni architettoniche, calchi della Colonna Traiana, monete d’oro e d’argento, modelli in scala, rielaborazioni tridimensionali e filmati la storia della

    Traiano

    costruzione dell’Impero di Traiano, che riuscì a tenere insieme popolazioni diverse che governate da uno Stato con leggi che ancora oggi sono alla base della giurisprudenza moderna.
    La buona amministrazione, l’influenza anche di donne capaci, vere e proprie “first ladies” che ebbero ruoli centrali nella politica e nella tenuta dell’Impero, campagne di comunicazione e capacità di persuasione atte ad ottenere il consenso popolare attraverso opere di pubblica utilità, sono tra gli ingredienti che consentirono all’Impero di costituirsi e di tenersi insieme.
    La mostra, che si apre con la morte di Traiano, avvenuta in Asia Minore, e, unico caso della storia romana, celebrata con trionfo nella capitale insieme alle sue gesta, è allestita proprio nello splendido complesso dei Mercati di Traiano oggetto qualche anno fa di una visita organizzata da Roma Felix.
    Per questo motivo proponiamo nuovamente la scheda pubblicata in quell’occasione impreziosita dagli splendidi disegni di Pietro Valenti.

    Non è sempre semplice datare la costruzione di un complesso monumentale grandioso e spettacolare come quello dell’area dei Mercati di Traiano,

    Mercati Traianei - Pietro Valenti

    Mercati Traianei – Pietro Valenti

    oggi diventato polo museale per l’intera area dei Fori Imperiali. Dai bolli laterizi edili sappiamo che i mercati vennero costruiti durante il primo quarto del II secolo d.C., ma gli archeologi non escludono l’ipotesi che gli architetti di Traiano (tra i quali non pare ci fosse – contrariamente a quanto si è a lungo ritenuto – il maggior indiziato di firma, Apollodoro di Damasco) avessero ripreso un precedente progetto di Domiziano e l’avessero poi posto in essere ampliandolo e adattandolo alle nuove necessità. E a Traiano, l’imperatore degli alimenta, un sussidio gratuito di Stato per l’infanzia in difficoltà, stava particolarmente a cuore l’annona, ossia il rifornimento di derrate per il popolo dell’Urbe. Sulla stessa lunghezza d’onda va collocata la costruzione del porto di Fiumicino che lo stesso Traiano fece realizzare per destinarlo all’approvvigionamento quotidiano di merce e viveri freschi per la città eterna.

    Mercati Trianei - Via Biberatica - Pietro Valenti

    Mercati Trianei – Via Biberatica – Pietro Valenti

    Prospiciente al complesso dei Mercati e diviso da un’ampia strada basolata, la via Biberatica – che i rilievi archeologici hanno attestato essere punteggiata di tabernae con ambienti abbastanza grandi – campeggia il Foro di Traiano, leggermente interrato rispetto al livello stradale di via dei Fori Imperiali. E poco discosta dai due monumenti, svetta la Colonna Traiana che racconta come un fumetto a sequenze continue le campagne militari daciche che termineranno nel 106 d.C. con la sconfitta del re Decebalo.
    Di sera e con l’illuminazione dei fari architetturali studiata dal maestro della fotografia Vittorio Storaro a scolpire i laterizi, la vista è mozzafiato: i monconi del Foro sottostante vengono sormontati dal complesso a sei ordini sovrapposti dei Mercati, dando pienamente l’idea della monumentalità e al contempo della praticità del progetto. Sì, perché i Mercati traianei non erano affatto un centro commerciale ante litteram, ma anzitutto un nevralgico centro amministrativo per l’intera città del tempo, la quale interagiva, secondo il modello di efficienza amministrativa voluto applicare urbi et orbi dall’imperatore spagnolo, con la

    Mercati Traianei da Via dei Fori Imperiali - Pietro Valenti

    Mercati Traianei da Via dei Fori Imperiali – Pietro Valenti

    polifunzionalità del Foro sottostante. L’architettura e i suoi migliori interpreti tradussero le idee in forme: i due emicicli di diversa grandezza posti a basamento del complesso mercantile, costruiti appositamente a esedra per puntellare il Quirinale sovrastante, donano aria e spazio agli uffici in cui si svolgeva la mercatura e si esercitava la buona amministrazione statale. E lì non si fa fatica ad immaginare l’eco antica di voci e di diversi dialetti e lingue. Quelle degli uomini dell’imperatore di allora e dei turisti stupefatti di oggi. 

    Roma, 16 novembre 2017

    I disegni di questo articolo sono tratti da Una Vista Su Roma Nei Disegni Di Pietro Valenti, a cura di Marco Valenti. 

     

  2. Frammenti di tardo barocco a Roma: Santa Maria Maddalena e non solo

    Attraversando velocemente la Via del Corso, che la Roma post unitaria e giovane capitale trasforma profondamente, e svoltando in una via laterale quasi nascosta da tanta gente che aspetta l’autobus, si raggiunge la Piazza dei Burrò, che si apre proprio davanti alla chiesa barocca di Sant’Ignazio.

    Piazza Sant’Ignazio – Roma

    I cinque palazzetti realizzati da Filippo Raguzzini sono una di quelle rarissime testimonianze che Roma ha avuto il suo momento tardo barocco, quando non decisamente Rococò.
    Certo il tardo barocco a Roma è vera rarità, confinato com’è a pochissimi esempi per altro molto composti e mai davvero eccessivi. Di fatto la città passa quasi direttamente e impercettibilmente dal barocco al neoclassico per precisa scelta urbanistica sulla quale furono determinanti le convinzioni architettoniche di Giovan Battista Piranesi e del Cardinale Giovanni Rezzonico nonché di suo zio Clemente XIII.
    La piazza dialoga da pari con la chiesa sede di uno degli effetti scenografici più incredibili che la storia dell’arte e dell’architettura ci abbiano consegnato. E lì dove Andrea del Pozzo inganna tutti lasciando immaginare una cupola che non c’è, Raguzzini nella piazza spinge al massimo il gioco dell’apparire facendo di essa un teatro dove chiunque passa diventa l’attore di uno spettacolo personale e continuamente mutevole, giochi prospettici e cupole comprese.
    Ma quello che può essere a giusta ragione considerato il monumento rococò per eccellenza di Roma è senza dubbio la chiesa di Santa Maria Maddalena.

    Cantoria – Santa Maria Maddalena – Roma

    Il gioco teatrale della luce inizia già in facciata, una complessa rielaborazione del primo settecento della facciata dell’Oratorio dei Filippini di Borromini, realizzata da Giuseppe Sardi. Le linee continuamente spezzate, statue e arricci, finestroni, l’asimmetria esasperata, tutto contribuisce a che al cambiar della luce cambi pure l’immagine della facciata, che questa sembri continuamente in movimento.
    La cosa non piacque. Venne considerato disdicevole che si potesse giocare così con gli elementi architettonici di una facciata di una chiesa, sede per altro di un prestigioso ospedale, fortemente voluto da Camillo de Lellis. La facciata venne così etichettata come “pan di zucchero”, ovvero le fu dato il nome delle decorazioni di zucchero che si mettevano sopra le torte, una tradizione che aveva preso piede proprio nel Settecento quando, per la prima volta, comparve sulle tavole dei nobili il Pan di Spagna.
    E’ solo nel 1586 che Camillo de Lellis riesce ad ottenere dal papa l’assegnazione di una cappella con relativo ospedale che sorgeva in questa posizione, mentre la “compagnia di uomini da bene” ottiene l’approvazione di Sisto V. L’Ordine, invece, nascerà nel 1591.
    “Stando dunque egli una sera nel mezzo dell’Hospitale pensando a suddetti patimenti de’ poveri, gli venne il seguente pensiero: ch’a tali inconvenienti non si poteva meglio rimediare, che con istituire una Congregazione d’uomini pii e da bene, i quali avessero per istituto d’aiutare, e servire a detti poveri, non per mercede ma volontariamente, e per amor d’Iddio, con quella carità et amorevolezza, che sogliono far le madri a lor proprii figlioli infermi”.

    Cupola – Santa Maria Maddalena – Roma

    È il manifesto di Camillo de Lellis, apostolo della carità in favore dei malati. In particolare dei più poveri. Una delle figure che, insieme con Filippo Neri e Ignazio di Loyola, hanno giganteggiato in santità nella Roma tra il XVI e il XVII secolo.
    Il proposito di dedicarsi anima e corpo ai malati s’insinua nella mente di Camillo de Lellis “intorno alla festa dell’Assunta nel 1582”. Prima di quella data, la sua vita era stata irregolare e randagia; di nobilissima famiglia, nato a Bucchianico, nelle vicinanze di Chieti, il 25 maggio 1550, fu soldato di ventura. Persi i suoi averi al gioco, si mise al servizio dei Cappuccini di Manfredonia. Ma, ben presto, per curare una piaga ad un piede che non accennava a guarire, fu costretto a trasferirsi a Roma nell’Ospedale di San Giacomo degli Incurabili, dove divenne maestro di casa, ossia responsabile dell’organizzazione, e cercò di migliorare la condizione degradata e sconsolante in cui giacevano i malati. Decise così di cambiare radicalmente vita e di consacrarsi, riprese gli studi abbandonati al Collegio Romano e, divenuto sacerdote nel 1584, fondò, insieme a un piccolo gruppo di amici fidati e generosi, la Compagnia dei Servi degli Infermi, riconosciuta come Ordine proprio nel 1591, con l’approvazione di papa Gregorio XIV. Compagnia che successivamente si sarebbe trasformata in Ordine dei Ministri degli Infermi, detti anche Camilliani.

    Cantoria (particolare) – Santa Maria Maddalena – Roma

    Il servizio nell’assistenza sanitaria, inteso da Camillo come servizio completo, di ordine materiale e spirituale, fu la vocazione del santo e fu il compito che egli affidò all’Istituto da lui fondato e diretto. L’impulso di Camillo a una carità “eroica” si espresse all’interno degli ospedali, come pure nel soccorso durante le epidemie collettive e nell’assistenza ai feriti di guerra. Le caratteristiche dell’opera svolta dai Camilliani sarà la base sulla quale verranno costruite le figure assistenziali ospedaliere, gli infermieri e i cappellani, così come oggi li conosciamo.
    De Lellis morì a Roma il 14 luglio 1614 e fu canonizzato nel 1746. Le sue spoglie da sempre sono conservate nella Chiesa di Santa Maria Maddalena inizialmente raccolte in un’urna realizzata dalla bottega orafa di Luigi Valadier, oggi trovano casa in una nuova urna realizzata da Alessandro Romano.

    Le Ragazze di Piazza di Spagna (Lucia Bosè, Cosetta Greco e Liliana Bonfatti) mentre scendono la Scalinata di Trinità de’ Monti.

    A dispetto di molti dei frammenti tardo barocchi della città che si nascondono alla vista e passano inosservati, la Scalinata di Trinità de’ Monti è invece uno dei luoghi simbolo di Roma. La sua gestazione fu lunga e si rese effettivamente necessaria quando fu sistemato il Porto di Ripetta oggi andato distrutto per la costruzione dei muraglioni. Fu così che la zona di piazza di Spagna e di via Margutta cominciò ad avere un traffico commerciale molto inteso che richiese la creazione di un comodo e soprattutto sicuro collegamento con i Monti. La via impervia, alberata, pericolosa e popolarissima, che collegava i Monti al Tevere, sfociava in una piazza in terra che davvero pareva una spiaggia su cui la barca del Bernini padre aveva finito con l’arenarsi. La trasformazione fu radicale. La piazza divenne una delle più eleganti della città e soggiorno d’intellettuali e uomini di cultura provenienti da tutto il mondo.

    Roma, 11 novembre 2017.

  3. Ettore Roesler Franz: una biografia romanzata

    Se Giovan Battista Piranesi può essere considerato un cantore della Roma della metà del Settecento, e Bartolomeo Pinelli e Giuseppe Gioachino Belli quelli che invece raccontano la Roma a cavallo tra il Settecento e la prima metà dell’Ottocento,

    Ettore Roesler Franz.

    certamente Ettore Roesler Franz può essere considerato l’artista che con maggiore pervicacia, amore e dedizione si dedica a narrare la Roma post – unitaria, in trasformazione. 120 acquerelli divisi in 3 serie di 40, che coprono un arco di tempo che va dal 1878 al 1896, descrivono una Roma che in una manciata di anni sta cambiando radicalmente pelle, e per far questo cancella a colpi di piccone interi angoli, quartieri, realtà con le storie e la vita degli uomini che li animavano e li riempivano di senso.
    120 acquerelli stupendi ed emozionanti, di grande formato, carta e colori personalmente scelti e richiesti da Roesler Franz in Inghilterra.
    L’acquerello tecnica difficilissima padroneggiata con estrema bravura per poter narrare non solo della città che cambia, ma dei riflessi delle acque, quelle del fiume e quelle delle pozzanghere che si formavano nelle strade della Roma di fine Ottocento dopo la pioggia o delle acque che entravano con vigore nelle strade della città dopo un’inondazione del Tevere, costringendole a diventare vie d’acqua praticabili solo con barche, e dei colori del cielo primaverile o autunnale, e delle mille sfumature delle pietre antiche e moderne della Città Eterna.
    Senza gli acquerelli di Roesler Franz mancherebbe la possibilità di ricostruire a mente i luoghi, di confrontare quelli attuali con quelli passati per verificare quanto e se sono cambiati. Un gioco sul filo della memoria che è lo stesso artista a prefiggersi e a dichiarare, quando dice a proposito di questa collezione che egli stesso intitola della “Roma Sparita” o ancora meglio Roma pittoresca/Memorie di un’era che passa” che “dovrebbe essere posta in una sala speciale con una grande carta topografica della vecchia Roma in cui io darei indicazioni dei luoghi dove sono stati ripresi i quadri e questo faciliterebbe gli studiosi delle future generazioni nel capire quale era l’aspetto di Roma prima dei presenti mutamenti”.

    Copertina del libro di Francesco Roesler Franz dedicato a Ettore Roesler Franz.

    Da questi dipinti di grande dimensione, così come dalle numerose foto seppiate, emerge non solo l’amore per la città e la gente che la abita e la vive, ma soprattutto la consapevolezza che dopo nulla sarà come prima, e che è un intero mondo che sta per scomparire e che non sarà possibile più tornare in dietro. Ed è forse proprio per questo che alcuni luoghi vengono ripresi con caparbietà più di una volta e sotto varie angolazioni, che viene, per la prima volta nella storia artistica della città, ripreso il Ghetto Ebraico e la sua minuta vita quotidiana.
    La vita quotidiana è poi l’altro soggetto principale di questi dipinti. E’ solo così che si può avere contezza di come vestissero e vivessero i Romani di fine Ottocento.
    La città è attraversata da donne con le gonnellone lunghe e il cappello in testa, con il cesto della spesa al braccio che tengono per mano il bambino vestito alla marinaretta che porta con sé il gioco del cerchio. Queste donne si muovono nelle stesse vie di quelle che portano in testa il cesto con la frutta o la verdura o delle monache con il capello a larghe tese ripiegate o di quelle che battono in strada i tappeti del cardinal Nardini, o di quelle che nel Ghetto cuciono le pezze di stoffa usate che daranno vita ai meil, le stoffe che copriranno la Torah. E gli uomini sono barcaroli, o pescatori, o pescivendoli, o mugnai, o spingono o guidano carretti, o trasportano sacchi.
    Insomma una città viva e operosa, continuamente in movimento, in cui si ha la percezione netta che non si è ancora realizzata quella cesura precisa tra borghesia e proletariato che caratterizzerà la Roma dagli inizi del Novecento in poi.
    Ma Ettore Roesler Franz è stato molto altro.
    Uomo colto e poliglotta, parlava correntemente francese, inglese e tedesco oltre che l’italiano, fu un punto di riferimento importante per la vita intellettuale della città di Roma, diventando ad esempio un amico fraterno di John Keats.
    Si fece promotore e fondatore dell’Associazione degli Acquarellisti Romani, che organizzò la prima mostra collettiva degli artisti aderenti nel 1876.

    Una cascata a Tivoli – Ettore Roesler Franz.

    Con la fondazione di detta Associazione Roesler Franz voleva far si che all’acquerello, da sempre considerato tecnica pittorica minore, venisse riconosciuta pari dignità delle altre tecniche pittoriche. Nonostante i suoi sforzi però nella primavera del 1880 inviò una lettera a Luigi Bellinzoni, prima critico d’arte e poi direttore del quotidiano “Il Popolo Romano”, lettera che fu pubblicata proprio su questo giornale e in cui si legge “Mio caro Bellinzoni, ho letto con piacere nella Tua Rivista artistica di stamane le giuste osservazioni per la poca o niuna considerazione nella quale si tiene l’acquerello nell’esposizione di piazza del Popolo. È veramente deplorevole che, dopo lo sviluppo che ha preso in Roma questo ramo della pittura, si debba ancora considerarlo come un ninnolo dell’arte ed assegnargli in tutte le esposizioni l’ultimo posto. Quanto a quella di piazza del Popolo è poi doppiamente doloroso che per rispondere alle premure del benemerito presidente uno s’induca a mandarvi i propri lavori per vederli poi esposti in una luce che non è luce e in un ambiente nel quale la miglior cosa che possa farsi è di fuggir via per non prendere un reuma od altro malanno e per la mancanza di quegli allettamenti di cui tu hai già fatto parola che si risolvono poi anche in sagrifici maggiori per gli esponenti che si vedono svanita ogni probabilità di vendita. Nella tua rivista hai trovato ben poco di apprezzabile fra gli acquerelli. Il tuo compito era però difficile! Giacché se quei lavori piuttosto che attaccati fossero esposti, chi sa che non vi avresti trovato anche degli altri meritevoli delle tue osservazioni? Tu sai quanto io abbia fatto e faccia affinché l’acquerello prenda un posto notevole fra noi, come lo ha di già altrove.

    Il Tevere a Settebagni – Ettore Roesler Franz.

    Ti sarò perciò sempre più grato ogni qualvolta ti adopererai per togliere certi pregiudizi, che pur troppo dominano ancora il campo. Ti stringe la mano il tuo amico Ettore R. Franz”.
    Ma l’attenzione di Ettore Roesler Franz non è limitata solo città di Roma, ma da subito il suo interesse si estende anche al Lazio, dedicandosi a raccontare Tivoli, Villa d’Este e Villa Adriana, tanto che diventerà cittadino onorario di Tivoli, e Subiaco diventando anche in questo caso testimone di una memoria di luoghi e di vita che stanno per scomparire.
    Il racconto della vita di Ettore Roesler Franz, ma non solo da pittore, è oggi pubblicata dalla casa editrice napoletana Intra Moenia, per la firma di uno dei suoi pronipoti: Francesco Roesler Franz. Da essa Ettore Roesler Franz emerge come una persona concreta pienamente inserita in un preciso contesto storico, sociale e familiare. L’uomo innanzitutto, che con le sue timidezze rinuncia a costruirsi una famiglia per potersi dedicare in maniera completa alla sua arte, ma anche l’intellettuale che tra Roma e Tivoli si confronta ed entra in relazione con altri intellettuali che significativamente segnano il passaggio tra Ottoccento e Novecento: da Goethe a Liszt, da Wagner a Gregorovius. La peculiarità di questa biografia romanzata, di Francesco Roesler Franz, è quella di riuscire a restituire un quadro completo, che non è solo comprensivo di quei 120 acquerelli che fanno parte della serie “Roma Sparita”, ma che attraverso Ettore Roesler Franz ci restituiscono una dimensione più corale, una dimensione che Roesler Franz condivideva, infatti, con un’intera generazione che stava per la prima volta sperimentando sicurezze, incertezze, punti di forza, vittorie e sconfitte del giovane stato unitario e della sua politica. Un momento che, per la sua natura e la sua posizione nel corso della storia, non sarebbe mai più ritornato.

    Roma, 5 novembre 2017

  4. Articolo

    Non risparmiò né Roma né il popolo

    Marta Sordi

    L’episodio dell’incendio di Roma del 64 dopo Cristo è uno degli episodi che si trova sospeso tra tradizione e storia reale, tra letteratura e pettegolezzo. Pubblichiamo su questo argomento un articolo di Marta Sordi comparso nel 2004 sul mensile 30Giorni. 

    Fatta eccezione per Tacito (Annales XV, 38), che accanto alla versione dell’incendio provocato dolosamente da Nerone (dolo principis) conosce anche la versione di coloro che attribuivano al caso (forte) l’incendio stesso, tutte le fonti antiche lo

    L’incendio di Roma – Robert Hubert.

    attribuiscono con certezza a Nerone, dal contemporaneo Plinio il Vecchio, che è probabilmente alla base della tradizione successiva (Naturalis historia XVII, 1, 5), all’autore senechiano dell’Octavia, a Svetonio (Nero, 38), a Dione (LXII, 16, 18). Scoppiato il 19 luglio del 64, l’incendio durò, secondo Svetonio, sei giorni e sette notti, ma riprese subito, partendo dalle proprietà di Tigellino e alimentando così i sospetti contro l’imperatore, e si protrasse ancora per tre giorni, come risulta da un’iscrizione (CIL VI, 1, 829, che dà la durata di nove giorni).
    I moderni tendono ormai a negare la responsabilità diretta di Nerone nell’incendio: tutte le fonti però sono d’accordo nel dire che furono viste persone che attizzavano l’incendio una volta che questo era iniziato.
    continua…