Gli affreschi dell’Oratorio di San Silvestro interpretano una delle più chiare prese di posizione della Curia Romana nei confronti dell’Impero quando, tra il 1245 e il 1250, lo scontro si fece particolarmente duro.
Il complesso dei Santi Quattro Coronati, all’interno del quale l’Oratorio si trova, era già stato uno dei luoghi della lotta tra Papato e Impero che, con Ildebrando di Soana era, per così dire, uscita allo scoperto in tutta la sua evidenza. L’edificio, infatti, aveva subito le ingiurie del furore normanno nel 1084, quando il Guiscardo era giunto manu militari a Roma dietro richiesta di papa Gregorio VII (1), richiesta ed intervento che ebbero come esito l’esilio salernitano del Papa che si vuole abbia detto «ho amato la giustizia, ho odiato l’iniquità, per questo muoio in esilio». Andiamo, allora, all’epoca della realizzazione dell’affresco: nel 1245 Federico II di Svevia, detto il Dominus Mundi, veniva deposto dal Concilio di Lione. O per meglio dire, a deporlo era stato Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo Fieschi dei Conti di Lavagna, proprio colui che, Federico aveva preferito quale successore al soglio di Pietro.
La reazione di Federico fu violenta: «Per troppo tempo sono stato incudine: ora voglio essere martello!».
E’ con molta efficacia che Ernst Kantorowicz (2), nella sua ormai leggendaria biografia di Federico inizia a parlare dell’ultima fase della vita del grande imperatore.
Dopo la deposizione e l’inaspettata rivolta di Viterbo sobillata dal Vescovo Ranieri, Federico non si sentì più di combattere, restando comunque sempre pronto al compromesso di pacificazione col Papa come ai tempi, invero durissimi, di Gregorio IX.
Nel precedente periodo, quello di Onorio III e di Gregorio IX, all’istituzione ecclesiastica egli aveva in un certo senso contrapposto l’istituzione “stato”, mi si passi il termine in questo caso un po’ anacronistico, con le sue liturgie e le sue icone. Nel 1224 era stata fondata l’Università di Napoli che avrebbe dovuto dare il supporto giuridico a tutto ciò. Sulla Porta di Capua, opera che si dice abbia fatto presentire il proto umanesimo di Nicola Pisano, progettata dallo stesso Federico e ultimata nel 1239, non sopravvissuta agli sfaceli delle truppe di Gioacchino Murat, si poteva ammirare, in alto, la Giustizia in veste di dea. Sotto di lei Federico, ovvero colui che della giustizia era fonte vivente, lex animata. Sotto ancora, ai lati, Taddeo da Sessa e Pier delle Vigne, che della giustizia erano chiamati, dall’Imperatore, a dare completa applicazione. Tale era l’immagine che l’Imperatore voleva dare di sé: l’icona della nuova istituzione.
Non più “luna” nei confronti di una Chiesa “sole”, come proponeva la letteratura ecclesiastica, ma “sole” e “sole”.
Eppure Federico, con le buone maniere o con la forza, nel 1240 era deciso a farsi togliere la scomunica che, sebbene arma un po’ spuntata, pure doveva opprimere Federico, figlio del suo tempo.
Federico eretico, amico degli infedeli, circondato di concubine, anticristo con i suoi arcieri musulmani di Lucera che osava impiegare contro gente cristiana. Eppure proprio Federico, ancora nel 1240, pur di ottenere la pace e la revoca della scomunica era disposto a riprendere la via d’Oltremare, a riconquistare Gerusalemme, che dal 1239 tornava ai musulmani secondo il patto stipulato dieci anni prima, e a restarvi, liberando così il Papa della sua ingombrante presenza.
A quel punto, il Papa uscì allo scoperto e impose che la pace fosse estesa anche alle città ribelli del Nord d’Italia e indicò come obiettivo della nuova imminente crociata non più la Terrasanta, ma Costantinopoli, da difendere con i suoi scali e con gli interessi commerciali di Genova. A questo punto tutto fu più chiaro: il Papa voleva annullare il potere imperiale nell’Italia Settentrionale che, assieme a quello instaurato nel Regno di Sicilia, costituiva una seria minaccia sul Patrimonium Petri. Federico rifiutò. L’ultimo tiro che Gregorio ormai molto avanti negli anni e piuttosto malandato riuscì a giocargli fu quello di morire.
E torniamo nel 1245 a Innocenzo IV, col quale questo racconto è iniziato. Col nuovo Papa la situazione precipitò. Lungi dal rispondere alle speranze di Federico, egli giocò la carta mai usata prima, ma contemplata dal Dictatus Papae, della deposizione:
…VIII Quod solus possit uti imperiali bus insignis
…XII Quo dilli liceat imperatores deponere (3)
Federico allora divenne il Tiranno, non ci furono più i nemici dello Stato, ma nemici suoi, ed era sua la maestà che veniva lesa.
Nei suoi ultimi cinque anni di vita, tanti ne corrono tra l’atto del Papa e la morte di Federico nel 1250, lo Staufen dovette subire i colpi della fortuna: la morte del suo fedelissimo Taddeo, che con Pier delle Vigne costituiva il supporto irrinunciabile dell’Impero, la prigionia di re Enzo, suo figlio prediletto, l’imprigionamento e il suicidio di Pier delle Vigne, la disfatta di Vittoria presso Parma…..
In questa temperie, in questo clima di scontro finale, fu ordinato ed eseguito l’affresco dell’Oratorio di San Silvestro, vero e proprio manifesto della Curia Romana.
Nell’epoca in cui si cominciavano a ricercare i fondamenti dinastici, di radici nel passato da rappresentare nei blasoni (4), la Chiesa teneva a precisare le legittime origini del potere temporale. Il Medioevo parla molto per immagini, cosicché non si scrisse sui muri il testo della Donazione di Costantino, ma si raccontò la leggenda, che per l’uomo del Medioevo è storia, che sta alla base della Donazione stessa, che era stata compilata probabilmente intorno al V secolo e inserita in un’opera detta Actus Silvestri.
I suoi protagonisti, Costantino e Silvestro, si erano incontrati solo di sfuggita e Costantino, primo imperatore cristiano, verosimilmente cristiano lo divenne a seguito di una personale maturazione. Costantino, abile militare e riformatore del sistema monetario, fu piuttosto un sincero fautore di un sincretismo tutto romano: nell’Editto di Tolleranza, Milano 313, come lo riporta il cristiano Lattanzio, era data libertà di religione perché ognuno ottenesse dal suo dio il maggior beneficio per l’Impero. (5)
Costantino non rinunciò mai alla carica di Pontifex Maximus. Tanto meno Costantinopoli fu la nuova Roma Cristiana in opposizione alla vecchia Roma Pagana se si procedette ai riti di fondazione secondo le liturgie pagane e vi si trasferì addirittura il Palladio. E sebbene Costantino abbia presieduto al Concilio di Nicea del 325 in cui fu promulgato il Simbolo cattolico, pure, per non scontentare gli ariani, convocò un altro concilio dove intervennero solo vescovi ariani e per giunta si fece battezzare da uno di questi, Eusebio di Nicomedia. (6).
Federico e Costantino furono accomunati da una triste sorte: Federico dovette arrestare suo figlio Enrico che si era ribellato e che, durante un trasferimento della sua prigionia, diede di sprone al cavallo e si suicidò precipitandosi in un burrone; Costantino fece giustiziare suo figlio Crispo, per non parlare dell’uccisione di Fausta sua moglie, che col figliastro Crispo si sarebbe macchiata di adulterio. (7)
Quello che però ci racconta l’affresco è un Costantino che, emendato dei suoi peccati, la lebbra da cui i sacerdoti pagani vorrebbero mondarlo nella piscina sanguinis, guarito e battezzato da Silvestro, e non dall’ariano Eusebio di Nicomedia, santo come ce lo racconta il suo biografo agiografo Eusebio di Cesarea, esprime la sua gratitudine a Silvestro con la famosa Donazione: una immagine purificata, diremmo oggi “sdoganata” e pronta per essere posta alla radice dell’albero genealogico dell’Impero Cristiano.
Leggeremo l’affresco nella riedizione che dell’Actus Silvestri fa un vescovo domenicano di Genova, Iacopo da Varazze, nella tanto famosa Legenda Aurea, di circa cinquanta anni più tarda rispetto ai fatti di Federico, quindi una fonte quasi coeva: l’illustrazione che se ne ha è estremamente puntuale delle pitture parietali col suo palazzo imperiale, l’eremo di Silvestro sul monte Soratte, la consegna del berretto frigio che diventa tiara simbolo del potere temporale, un Costantino strator e quindi sottoposto del papa, una insolita Sant’Elena che si vuole ebrea. (8)
La Sistina del Medioevo dunque, come qualcuno ha chiamato gli affreschi dell’Oratorio? Mi permetto di dissentire rilevando l’assoluto anacronismo della definizione non trattandosi di un’opera puramente artistica per quanto fastosa, preferendo apprezzarne l’impatto mediatico che il committente, insieme con l’esecutore, dovevano aspettarsi nei confronti del visitatore dell’epoca.
Roma, 22 aprile 2017
Bibliografia essenziale
1 – Goffredo Malaterra – Ruggero I e Roberto il Guiscardo – a cura di V. Lo Curto – 2002 Cassino
2 – Ernst Kantorowicz – Federico II Imperatore; 1994 Milano, seconda edizione della traduzione italiana di Gianni Pilone Colombo
3 – Glauco Maria Cantarella – Il sole e la luna, la rivoluzione di Gregorio VII papa 1073-1085 – 2005 Bari
4 – Michel Pastoreau – Medioevo Simbolico – 2007 Bari
5 – Lattanzio – de Mortibus persecutorum
6 – Arnaldo Marcone – Costantino il Grande. 2013 Bari
7 – Zosimo – Storia Nuova – a cura di F.Conca – 2007 Milano
8 – Iacopo da Varazze – Legenda Aurea – a cura di A ed L Vitale Brovarone – 1995 Torino