prima pagina

  1. Racconto

    La tomba di Paolo

    Stefania Falasca e Giovanni Ricciardi

    Dal volume di Stefania Falasca e Giovanni Ricciardi, “O Roma Felix. Luoghi della memoria cristiana a Roma”, Trenta Giorni Società Cooperativa, Roma, 1999, pp. 176, pubblichiamo un estratto che parla della sepoltura dell’Apostolo Paolo in San Paolo fuori le Mura.

    Basilica di San Paolo – Giuseppe Vasi

    Lungo la via Ostiense, due miglia fuori dalla cinta delle Mura Aureliane, sorge la basilica di San Paolo. È qui che, secondo una ininterrotta tradizione, riposano le spoglie dell’Apostolo delle genti. Paolo trovò il martirio a Roma quasi certamente nell’anno 67.
    Secondo la tradizione attestata in numerosi martirologi e atti apocrifi, la notte seguente la sua decapitazione, avvenuta in una località detta “palude Salvia”, presso Roma, poi detta Tre Fontane, alcune donne, tra cui una certa Lucina, presero il suo corpo per dargli sepoltura in un podere di proprietà della stessa Lucina, praedium Lucinae. Effettivamente, su questo tratto della via Ostiense è stato trovato un complesso cimiteriale, i cui resti sono venuti alla luce a più riprese. Il sepolcro di Paolo doveva dunque trovarsi all’interno di una vasta necropoli, sviluppatasi tra il I secolo a.C. e il IV secolo d.C.

    continua…

  2. Sulle vie di Paolo di Tarso: la basilica di San Paolo Fuori le Mura, l’area archeologica, il chiostro, la pinacoteca.

    Per la via Ostiense, a circa due chilometri da Porta San Paolo, si giunge alla basilica eretta sulla tomba dell’Apostolo delle genti, posta in zona cimiteriale, il Sepolcreto Ostiense detto in praedio Lucinae, e oggi parzialmente scavato e visibile sui due lati della strada.

    La basilica di San Paolo fuori le Mura in una foto Alinari

    Il primo e importantissimo accenno al sito è quello contenuto in un passo di Eusebio di Cesarea che riporta le parole del presbitero romano Gaio, pronunciate alla fine del II secolo o all’inizio del III, per la precisione negli anni del pontificato di papa Zefirino, tra il 198 e il 217. In risposta all’eretico Proclo che, seguace del frigio Montano, vantava la presenza a Ierapoli di Frigia della tomba dell’apostolo Filippo. Dice dunque Gaio: “Io posso mostrarti i trofei [tà trópaia] degli apostoli (Pietro e Paolo). Se vorrai recarti nel Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa (di Roma)”, (Eusebio, Historia ecclesiastica II, 25, 7). La parola trópaion, che indica il “trofeo della vittoria”, fa allusione alla reale presenza delle spoglie dei due apostoli, poiché si riferisce propriamente ai corpo dei martiri e non al solo monumento che li contiene.
    La basilica di San Paolo fuori le Mura, che ha dimensioni corrispondenti a quelle della Basilica Ulpia eretta da Traiano, rimase la più grande di Roma prima della costruzione della moderna San Pietro. Fondata da Costantino, accresciuta da Valentiniano II, 386, da Teodosio e da Onorio, la basilica rimase semidistrutta a seguito di un rovinoso incendio scoppiato nella notte fra il 15 e 16 luglio 1823, e che continuò ad ardere fino al mattino del 16.

    L’incendio della Basilica – Ascanio di Brazzà

    La basilica fu, quindi, ricostruita con le offerte provenienti dalle diocesi di tutto il mondo secondo la pianta antica, ma riutilizzando solo in parte gli antichi materiali. Vi lavorarono molti architetti, in particolare Luigi Poletti, al quale si deve anche il campanile, Virginio Vespignani, che lavorò alla facciata e Guglielmo Calderini, che ideò il quadriportico, eretto tra il 1892 e il 1928.
    Fino a qualche decennio fa, la basilica sorgeva nell’aperta e vuota campagna, che aveva sovrastato per quasi due millenni come richiamo di spiritualità con il suo cenacolo benedettino e come caposaldo difensivo. Nell’XI secolo, infatti, papa Giovanni VIII vi aveva costruito attorno una cittadella contro le scorrerie dei Saraceni, detta “Giovannipoli”, di cui oggi resta il toponimo in una delle vie del quartiere Garbatella – Ostiense che è proprio Via Giovannipoli.
    La prima chiesa costantiniana, piuttosto piccola, era rivolta verso la via Ostiense e corrispondeva all’attuale zona del presbiterio e della crociera fino alla tomba di san Paolo. Successivamente si rese necessario ingrandire la chiesa e per questo motivo essa ebbe l’ingresso rivolto verso il Tevere, così che la trasformazione non andasse ad intaccare la posizione della sepoltura di Paolo.

    Le rovine dopo l’incendio – Bartolomeo Pinelli

    Ora l’ingresso più utilizzato è quello laterale, sul piazzale cui si perviene arrivando da Porta San Paolo; un ingresso creato dal Poletti nel 1840 alla riapertura al culto della navata trasversale, mentre continuavano le opere di restauro e ricostruzione delle rimanenti parti della basilica, che verrà poi consacrata per intero da Pio IX nel 1854, anche se i lavori di rifinitura sarebbero durati assai più a lungo. Precede la basilica un gelido e maestoso quadriportico, retto da una selva di colonne corinzie di granito; al suo centro, al posto della fontana delle abluzioni, è stata collocata una corrucciata statua di san Paolo che brandisce la spada, opera di Pietro Canonica. Dal lato che funge da narcete si leva la facciata a timpano con tre finestre a centina, rivestita di ottocenteschi mosaici luminosi, ma di mediocre ideazione. Cinque porte immettono nelle altrettante navate dell’interno: quella centrale, in bronzo con luminosi inserti d’argento, collocata nel 1931, è opera di Antonio Maraini che vi ha rappresentato scene della vita di Pietro e di Paolo. La porta intermedia a destra è la Porta Santa Giubilare; al suo interno sono state collocate le valve restaurate dell’antica porta di bronzo che, danneggiata dall’incendio nel 1823, era stata conservata nel museo della basilica. La porta in bronzo proveniva da Costantinopoli – dove era stata fabbricata nel 1070 da Staurachios di Scio – e fu fatta importare da Ildebrando di Soana, allora abate di San Paolo e poi eletto papa Gregorio VII.
    Una notevole impressione di grandiosità suscitano le cinque navate che rievocano l’aspetto delle antiche basiliche di tipo politico-giudiziario. La limitata luminosità dell’ambiente mette in risalto il chiarore delle ottanta colonne di granito di Baveno. Queste dànno luogo ad un gioco di ritmi e sovrapposizioni che accrescono l’effetto di grandiosità.

    Interno della Basilica – Giovanni Paolo Panini

    Il lucente pavimento marmoreo riflette il soffitto a cassettoni regolari, lavorati a fantasiosi motivi e soprattutto luminoso di oro. Da non dimenticare le belle sei colonne di alabastro donate a Pio IX dal Khedivè, ovvero il viceré d’Egitto, e poste lungo la controfacciata. Un lungo fregio corre tutta la navata centrale, proseguendo in quelle laterali, la serie dei medaglioni di tutti i papi succedutisi sulla cattedra di Pietro. Essi sono a mosaico e rinnovano la tradizione esistente fin dalla basilica antica.
    L’arco trionfale, che fu risparmiato dal fuoco, mostra tutto lo splendore dei mosaici eseguiti nel V secolo, forse per incarico di Galla Placidia, imperatrice romana e figlia di Teodosio I. La testa del Redentore, nella sua mandorla luminosa, appare di una immota glacialità bizantina, mentre due corteggi di seniori, con le corone del trionfo, che la affiancano e le due figure di Pietro e di Paolo nei peducci dell’arco sono improntate a maggior realismo, di impronta romana. L’arco, sostenuto da due imponenti colonne di granito e preceduto da statue dei due apostoli, inquadra il mirabile effetto dei mosaici del catino absidale, realizzati da maestranze inviate dal doge di Venezia all’epoca di Onorio III (1220 circa). Il papa appare minuscolo (quasi una piccola rana) ai piedi di Cristo sul trono con quattro Santi ai lati. Dal transetto cui si accede mediante tre gradini si possono ammirare i mosaici collocati nella facciata interna dell’arcone trionfale; essi sono di Pietro Cavallini e provengono dall’antica facciata della basilica. Al centro del transetto si erge il gioiello tra i cibori romani, eseguito nel 1285 da Arnolfo di Cambio con l’aiuto di un Pietro, che si ritiene possa essere lo stesso Cavallini.

    Mosaico dell’Abside – Basilica di San Paolo fuori le Mura

    Il chiostro della basilica è, con quello di San Giovanni in Laterano, il più importante fra i molti chiostri romani, oasi di tranquillità ed esempio di serena bellezza. Questo ci dà l’idea dell’importanza del complesso monastico che si era creato attorno alla basilica e rappresenta una testimonianza eccezionale di quella pace che, in certe situazioni, seppero trovare anche secoli segnati da durissime esperienze.
    Il chiostro fu completato prima del 1214 e, per una parte, è opera dei Vassalletto. Colonnine lisce abbinate sostengono archetti a tutto centro che reggono una trabeazione decorata con un fregio mosaicato dagli splendenti colori. Un lato, dei quattro, è caratterizzato da colonne sempre abbinate, ma a spirali od ottagone ed alcune con intarsi a mosaico: l’impressione dell’insieme è piacevolissima. Lungo il quadriportico sono avanzi antichi, fra i quali, notevole, una statua di marmo di Bonifacio IX.

    Roma, 8 ottobre 2017

  3. Trastevere e il suo museo

    Non sarà certo un caso se Trastevere è l’unico dei quartieri di Roma che ha un museo che celebra se stesso e la propria identità.

    Piazza Santa Cecilia in Trastevere – Ettore Roesler Franz

    I Trasteverini, poi, si sono sempre sentiti diversi dal resto dei Romani. Sarà per quella loro origine multietnica e multirazziale, sarà per quel fiume che li separava da quelle tribù italiche che abitavano i Colli, di fatto questa percezione di “diversità” era, e forse è, reciproca: anche il resto dei Romani ha sempre percepito i Trasteverini come altro da se.
    Certamente alla costruzione di questa immagine nel tempo hanno contribuito fattori diversi, si potrebbe dire in prevalenza poetici e pittorici: Bartolomeo Pinelli prima, con le sue incisioni e le sue eleganti sculture in argilla, il Belli che era in poesia l’alter ego del burbero incisore, e poi ancora Giggi Zanazzo, Trilussa e forse l’ultimo cantore di questa realtà romana: il pittore e fotografo Ettore Roesler Franz.
    E nonostante fosse pittore e fotografo, la sua opera di rappresentazione finisce con l’essere una vera e propria poesia, un’emozione, che dal mescolar sapiente dell’acqua e delle polveri ci restituisce l’emozione che Ettore Roesler Franz viveva mentre quella Roma, quella Trastevere scomparivano per sempre.
    Carte e colori scelti con estrema accuratezza in Inghilterra per dare quella luce, che è sentimento, così particolare e così tipica a suoi acquerelli di grandi dimensioni che narrano Trastevere. Angoli notissimi ancora oggi, tanto che si può fare il gioco del “com’era/com’è”, mostrati nel più piccolo dettaglio, nella loro bellezza struggente, in solitudine senza abitanti, ma non per questo vuoti, ma anzi ricchi di una bellezza e, si potrebbe dire di una saggezza storica, o scene abitate da una piccola folla di persone sempre in attività: a vendere, a comprare, a cucire, a filare, a camminare serrati riparandosi dalla pioggia, a remare sul fiume o nelle vie invase dall’acqua dello straripamento.

    La Fiumana nel Ghetto – Ettore Roelser Franz

    Centoventi acquerelli tutti di grandi dimensioni, divisi in tre serie da quaranta che saranno acquistate dal comune di Roma nel 1908, dopo la morte dell’autore. Centodiciannove di essi sono conservati nel Museo di Roma in Trastevere, e vengono esposti a rotazione, per preservarne l’integrità, mentre una postazione multimediale consente di ammirarli e studiarli tutti. Centodiciannove perché un acquerello andò smarrito nel corso di una mostra a Colonia nel 1966 e mai più ritrovato. Centodiciannove acquerelli in mezzo ai quali un gruppo narra, per la prima volta in assoluto, la vita nel Ghetto.
    Ma il Museo di Roma in Trastevere non vuol dire solo acquerelli di Roesler Franz. Al suo interno infatti altre opere, come quelle proprio di Bartolomeo Pinelli, mostrano una Roma passata e soprattutto la vita di questa città attraverso la narrazione delle sue tradizioni, fatte di feste e giochi all’aperto, funzioncine presso gli altarini costruiti sotto le “Madonnelle”, le tombole, cui la gente partecipava sdraiata per terra e le vocianti partite di “morra”. Intanto, il giorno di festa, nelle osterie i bevitori si accaloravano al gioco della “passatella” che aveva risvolti ingiuriosi e finiva spesso a coltellate. Da ciò i ripetuti provvedimenti limitativi, come i famosi “cancelletti” che papa Leone XII Della Genga fece porre all’ingresso delle osterie – alla fine degli anni venti dell’Ottocento – per far si che il vino venisse consumato solo all’esterno delle tante osterie di cui era disseminato il quartiere.
    Le tematiche maggiormente rappresentate sono i mestieri, le feste laiche e religiose (come il carnevale, le luminarie e il Natale), il saltarello, l’abito tradizionale.

    Palazzo Mattei alla Lungaretta – Ettore Roesler Franz

    Il Museo di Roma in Trastevere accoglie poi un presepe di ambientazione ottocentesca romana e sei rappresentazioni veristiche d’ambiente, meglio conosciute come Scene romane, che riproducono a grandezza naturale aspetti della vita popolare romana dell’Ottocento.
    Non può mancare in questo desiderio di ri – appropriarsi di una memoria fondante collettiva la fotografia che si riassume in una collezione di foto di Mario Carbone ed Emilio Gentilini.
    Per altro il Museo di Roma in Trastevere ha un legame preferenziale con il mondo della fotografia ospitando spesso mostre fotografiche, di cui quella narra il Movimento Studentesco del 1977, attraverso le foto di Tano d’Amico attualmente in essere, è un esempio interessante.
    L’immenso patrimonio di cultura popolare che Trastevere ha generato nel tempo è quindi conservato in questo museo tutto suo.
    Il Museo di Roma in Trastevere è ospitato in un edificio storico che dal XVII secolo fino a dopo l’unità d’Italia fu Convento delle Carmelitane Scalze. Anche la piazza deve il suo nome al monastero, nel quale è inclusa la chiesetta di Sant’Egidio.
    Il primo nucleo del monastero fu fondato nel 1601 presso la chiesina di S. Lorenzo in Ianiculo, poi restaurata e dedicata a S. Egidio, per ospitare proprio l’ordine religioso delle Carmelitane Scalze. Su richiesta di Vittoria Colonna, nel 1628, papa Urbano VIII concesse alle monache anche la chiesa dei Santi Crispino e Crispiniano, proprietà dell’Università dei Calzolari, attigua a quella di S. Egidio. Quest’ultima fu demolita e incorporata nel monastero. Di essa il Museo conserva, al piano terra, la lapide in marmo dell’Università dei Calzolai, risalente al 1614. La chiesa dei Santi Crispino e Crispiniano fu restaurata nel 1630, ornata di marmi dal connestabile Filippo Colonna e, due anni dopo, intitolata dal Papa alla Madonna del Carmelo e a Sant’Egidio. Le suore vissero nel convento fino alla presa di Roma.

    Nevicata a Roma 1956 – Mario Carbone

    L’edificio divenne proprietà del Comune di Roma nel 1875 e dal 1918 fu sede del sanatorio antimalarico per l’infanzia “Ettore Marchiafava”. Una lapide di marmo, all’ingresso del Museo, ricorda la data in cui il sanatorio fu dedicato al Marchiafava, medico illustre e senatore del Regno, esperto di malaria e, nel 1918, Assessore per l’Igiene. Erano gli anni in cui la malaria faceva molte vittime tra i lavoratori dell’Agro romano. I ragazzi rimanevano in sanatorio in media due mesi, affidati alle cure del medico del Governatorato e delle suore di carità di San Vincenzo de’ Paoli. Vi erano inclusi un orto-giardino e una piccola scuola.
    Tra il 1969 e il 1973 l’edificio fu restaurato dagli architetti Attilio Spaccarelli e Fabrizio Bruno, per adattarlo a ospitare il Museo del Folklore e dei Poeti Romaneschi, presentando materiali relativi alle tradizioni popolari romane provenienti dal Museo di Roma, allora come ora in Palazzo Braschi. Il Museo del Folklore e dei Poeti Romaneschi aprì al pubblico ai primi di febbraio del 1977.