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  1. ROMA BRUCIA! Il giallo dell’incendio di Nerone

    Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico fu il quinto imperatore della dinastia giulio-claudia. Successe al padre adottivo Claudio nel 54 e governò circa quattordici anni, fino al suicidio, avvenuto all’età di 30 anni.

    Nerone a Baia – Jan Styka

    Divenuto imperatore a 17 anni, sua madre Agrippina lo affidò agli esponenti più influenti dei circoli dell’Urbe: la milizia pretoriana, rappresentata dal prefetto del pretorio Burro, ed il Senato, nella persona di Seneca, il maggiore pensatore di quello stoicismo che costituiva l’ideologia per eccellenza dell’aristocrazia ostile al dispotismo. I primi anni di impero di Nerone furono pertanto contraddistinti da un netto ritorno alla collaborazione col Senato e alla prevalenza degli interessi e dei punti di vista della nobilitas. D’altra parte, lo stesso Seneca non era nativo dell’Italia ma della provincia della Spagna, e la sua filosofia non era originaria di Roma, ma del mondo greco-ellenistico. Anche l’educazione di Nerone, dunque, fu tutta imbevuta di cultura greca, né tardò molto che il discepolo andasse ben oltre il suo maestro, accendendosi di una morbosa infatuazione appunto per gli ideali dell’ellenismo greco-orientale. Il fantasma della monarchia greco-orientale, che già aveva suggestionato la mente di quel Caligola, di cui Nerone era nipote, o di quell’Antonio, di cui tanto Caligola che Nerone erano in qualche modo discendenti, tornò dunque a rivivere, non appena il giovane imperatore si fu liberato della tutela dei maestri, assumendo direttamente il potere.

    Nerone vestito da donna – Emilio Gallori

    E così rinacquero le forme tipiche del dispotismo ellenistico, coi suoi deliri di grandezza, il suo sfarzo spettacoloso, destinato ad abbagliare le folle, la sua trasformazione della persona del sovrano in un Nume, salvatore del genere umano, le sue dilapidazioni a scopo demagogico. L’imperatore di Roma, tra lo scandalo dell’aristocrazia senatoria, declamava versi, si atteggiava a poeta, scendeva nel circo a farsi applaudire dalla plebaglia. Una sua riforma finanziaria, destinata ad importanti ripercussioni nella vita interna dell’Impero, abbassando il rapporto di cambio fra oro e argento, avvantaggiava notevolmente i ceti più modesti, a svantaggio dei patrimoni della nobilitas. Ma Nerone, mentre si atteggiava a benefattore dell’umanità, al modo dei Tolomei d’Egitto o dei Seleucidi di Siria, agghiacciava Roma con delitti di un’efferatezza inaudita: dall’avvelenamento del fratellastro Britannico, all’uccisione della stessa madre Agrippina e poi a quella di sua moglie Ottavia, per convolare a nuove nozze con una seconda moglie, Poppea, destinata in seguito ad essere uccisa anch’essa.
    Tanto sangue spiega perché, quando nel 64 dopo Cristo gran parte di Roma andò distrutta in un incendio, la voce pubblica accusasse Nerone di avere egli stesso appiccato il fuoco all’Urbe.

    Incendio di Roma – Robert Hubert

    Il rovinoso incendio scoppiò la notte tra il 18 e il 19 luglio nella zona del Circo Massimo e infuriò per nove giorni complessivamente, secondo Tacito, sei secondo Svetonio, propagandosi in quasi tutta la città. Delle quattordici regiones che componevano la città, tre, la III Iside e Serapis, attuale colle Oppio, la XI Circo Massimo, e la X Palatino, furono totalmente distrutte, mentre in altre sette rimanevano solo pochi ruderi rovinati dal fuoco. Erano salve solo le regiones: I Capena, V Esquiliae, VI Alta Semita e XIV Transtiberim. I morti furono migliaia e circa duecentomila i senzatetto. Numerosi edifici pubblici e monumenti andarono distrutti, insieme a circa quattromila insulae e centotrentadue domus. Gli scavi condotti nelle aree maggiormente interessate dall’evento hanno spesso incontrato strati di cenere e materiali combusti, quali evidenti tracce dell’incendio. In particolare sono stati rinvenuti, in alcuni casi, frammenti di arredi metallici parzialmente fusi, a riprova della violenza delle fiamme e delle elevatissime temperature raggiunte. Al sesto giorno, l’incendio si sarebbe arrestato alle pendici dell’Esquilino, dove erano stati abbattuti molti edifici per fare il vuoto davanti all’avanzata delle fiamme.

    Roma prima e dopo l’incendio del 64 dopo Cristo.

    Tuttavia scoppiarono altri incendi in luoghi aperti e le fiamme fecero questa volta meno vittime, ma distrussero un maggior numero di edifici pubblici. Questo seconda fase dell’incendio sarebbe divampato a partire da alcuni giardini di proprietà di Tigellino, prefetto del pretorio e amico dell’imperatore: questa origine avrebbe, secondo Tacito, fatto nascere altre voci, sul desiderio dell’imperatore di distruggere la città di Roma totalmente per poter poi fondare una nuova città e darle il suo nome.Oggi è noto che dopo un vasto incendio focolai molto importanti possono covare sotto la cenere e riprendere con vigore a bruciare anche quando tutto sembra essere risolto. Non è quindi improbabile che ciò sia accaduto anche a Roma e che Tigellino non fosse consapevolmente coinvolto nella cosa.Dopo che l’incendio era divampato nuovamente e aveva distrutto altre parti della citta, visto che le voci di un coinvolgimento diretto dell’imperatore andavano rafforzandosi, Nerone scelse, per liberarsi dall’accusa, un mezzo tra il demagogico e il criminoso, egli cercò infatti nei Cristiani un capro espiatorio da offrire alla furia popolare. Questi erano ormai una comunità consistente all’interno della città e non godevano della benevolenza dei cittadini a causa del loro rifiuto a conformarsi ai riti religiosi romani. Questa differenza era talmente evidente che anche Tacito nei suoi scritti non mostra

    Quo Vadis – Locandina del film del 1913.

    alcuna benevolenza nei loro confronti dicendo che essi costituivano “una setta invisa a tutti per le loro nefandezze”. Il tentativo di Nerone di spostare l’attenzione da se però non sortisce grandi effetti tanto che lo stesso Tacito riporta: “ma né l’opera degli uomini, né le largizioni dell’imperatore né i sacrifici agli dei diminuiva l’infamia che l’incendio fosse stato suscitato dolosamente. Così Nerone per far tacere le voci presentò come colpevoli, e condannò con supplizi fuori dal comune coloro che per le loro fastidiose azioni erano odiati e il volgo chiamava Cristiani. Colui dal quale deriva il nome, Cristo, era stato condotto al patibolo da Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio; e, repressa per il momento quella esecrabile superstizione, si espandeva non solo per la Giudea, origine di quel male, ma anche per Roma stessa, dove i mali più vergognosi convergono e vengono celebrati”. Quindi, nonostante il tentativo di trovare nei Cristiani il capro espiatorio, le voci di un coinvolgimento diretto di Nerone non si placarono.

    Le fiaccole di Nerone – Hendrik Siemiradzki – Cracovia.

    Le cronache, comunque, riportano che nella notte dell’incendio, Nerone, che si trovava ad Anzio, sarebbe tornato in città quando le fiamme ormai lambivano la sua residenza, che egli aveva costruito per congiungere il palazzo sul Palatino e gli Horti Maecenatis, e non sarebbe riuscito a salvarla. Si sarebbe però occupato di soccorrere i senzatetto, aprendo i monumenti e i giardini di Agrippa sul Campo Marzio, allestendovi dei baraccamenti e facendo arrivare viveri dai dintorni. Tali provvedimenti, emessi, secondo Tacito, per ottenere il favore popolare, non avrebbero tuttavia ottenuto lo scopo, a causa della diffusione di una voce, secondo la quale l’imperatore si era messo a cantare della caduta di Troia, davanti all’infuriare dell’incendio visibile da una torre, oggi scomparsa, posta negli Horti di Mecenate e, successivamente, identificata erroneamente con la Torre delle Milizie.
    Secondo Tacito, prima sarebbero stati arrestati quanti confessavano e quindi, su denuncia di questi, ne sarebbero stati condannati moltissimi, ma, ritiene lo storico, l’imperatore li condannava a morte non tanto a causa per il loro coinvolgimento nell’aver causato l’incendio, quanto per il suo “odio del genere umano”.

    Una martire cristiana – Hendrik Siemiradzki – Varsavia.

    Tacito racconta infatti, sempre negli Annali, la maniera in cui si svolgeva la condanna dei malcapitati: “Quelli che andavano a morire erano esposti anche alle beffe. Alcuni erano coperti dalle pelli di animali e morivano dilaniati dai cani, altri erano crocifissi, altri ancora erano invece arsi vivi come se fossero torce per illuminare le tenebre, al calare del sole. Nerone si era portato quello spettacolo nei suoi giardini e inventava giochi circensi, con l’abito da auriga, incalzando in mezzo alla plebe con il suo carro. Onde sorgeva la commiserazione, sebbene verso gente colpevole e che meritava tali pene, perché era sacrificata non per utilità pubblica, ma per la ferocia di uno solo”.

    Roma, 29 ottobre 2017

  2. Trastevere da scoprire: da Palazzo Corsini a Santa Maria dei Sette Dolori

    Tra le tante meraviglie di Trastevere, molto spesso ignorate, c’è Palazzo Corsini e la bellissima chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori. Il primo lo si raggiunge scavalcando Porta Settimiana, altro reperto importantissimo che caratterizza il Quartiere.

    La Porta Settimiana – Si ringrazia Roma Sparita.

    Si suppone che la porta fosse in origine un arco onorario di Settimio Severo all’ingresso di una proprietà trans – tiberina dell’imperatore; esso venne inglobato nelle mura imperiali di Aureliano. Alessandro VI sistemò la porta, ampliando una posterula medievale, ovvero un’angusta porta d’accesso ai camminamenti per le guardie di ronda nei castelli e nelle fortificazioni nascosta nelle mura, e Pio VI le dette l’aspetto attuale nel 1798. Da qui le mura di Aureliano salivano direttamente verso Porta Aurelia che, all’incirca, coincideva con l’attuale Porta San Pancrazio. Esse seguivano il lato destro dell’attuale via Garibaldi, detta un tempo “delle fornaci”. Porta Settimiana conduce a via della Lungara, seguendo l’antico tracciato della sulle via Settimiana, detta anche via Santa perché era uno dei percorsi seguiti dai pellegrini che andavano verso San Pietro.
    Oggi via della Lungara, in parte profondamente infossata dalla creazione del Lungotevere, mantiene un certo carattere quasi extraurbano, rarefatto e solitario, che le è conferito anche dalla serie di palazzi signorili che si affacciano lungo il suo percorso, e tra questi, Palazzo Corsini posto proprio di fronte alla sublime Villa Farnesina affrescata da Raffaello.
    Edificato nel XV secolo dalla famiglia Riario, imparentata con di Sisto IV della Rovere, era stato dimora di Caterina Sforza, definita ai suoi tempi “quella tygre di la madona di Forlì” per le decise prese di posizione di carattere politico, che venne qui ad abitare in seguito al suo matrimonio con Girolamo Riario nel 1477. Era allora al colmo della sua bellezza e si diceva di lei che “splendeva come il sole, e rivaleggiava con i gigli”. In terze nozze aveva sposato Giovanni de’ Medici da cui sarebbe nato il futuro condottiero Giovanni dalle Bande Nere. Per motivi politici, Caterina ebbe la disgrazia di inimicarsi i Borgia. Soprattutto Cesare, il Valentino, che l’arrestò a Forlì il 12 gennaio del 1500, rinchiudendola poi a Roma, a Castel Sant’Angelo dopo numerosi rovesci politici.

    Palazzo Corsini – Facciata verso i giardini e il Gianicolo.

    Due secoli dopo a varcare la porta del palazzo era arrivata la regina Cristina di Svezia, dopo la sua conversione al cattolicesimo avvenuta nel 1654. Dopo aver abitato in numerose dimore patrizie sparse nella città seicentesca, nel luglio del 1659 Cristina scelse di abitare nel palazzo alla Lungara, affittato dai Riario e divenuto sua residenza definitiva solo nel 1663.
    Il contratto d’affitto venne sottoscritto dal cardinale Decio Azzolino, suo intimo amico. Qui Cristina, che non aveva mai rinunciato al titolo di regina, installò la sua piccola corte, e di palazzo Riario fece la base d’intrighi, viaggi diplomatici, feste e avventure galanti, ma anche di vaste relazioni intellettuali, culminate nel 1674 con la creazione dell’Accademia Reale, nucleo iniziale dell’Accademia dell’Arcadia, a cui si aggiunse un’Accademia di Fisica, Storia naturale e Matematica.

    Palazzo Corsini – Facciata su Via della Lungara.

    All’interno del palazzo non trovavano spazio prestigiose collezioni d’arte antica come in uso per l’epoca, né quadri di artisti del nord Europa, ma, piuttosto, nelle sale di rappresentanza si trovavano i ritratti del cardinale Azzolino, del Bernini, di Ebba Sparre, di Cartesio, dell’ambasciatore Chanut e del dottor Bourdelot, tutti personaggi che avevano segnato in qualche modo la sua vita.
    Morì il 19 aprile 1689, confortata solo dal cugino, il marchese Michele Garagnani, e dal fedele cardinale Azzolino che presenziò al suo capezzale sino alla sua dipartita. Quest’ultimo ne divenne l’erede universale, ma morì poco dopo, l’8 giugno1689, lasciando i beni al nipote Pompeo Azzolino. Tra le molte e preziose opere della collezione della regina, Pompeo vendette una Venere che piange Adone di Paolo Veronese che oggi, dopo una serie di acquisti e compravendite, si trova infine al Museo Nazionale di Stoccolma. Il patrimonio artistico che arricchiva il palazzo Riario andò disperso a prezzi irrisori tra i nobili romani, mentre il successivo papa, Alessandro VIII, comprò “per un pezzo di pane” la splendida biblioteca.
    Cristina aveva chiesto di essere sepolta in una tomba semplice, ma il papa alla sua morte insistette nel volerne esporre i resti mortali alla pubblica venerazione per quattro giorni a Palazzo Riario. La regina venne così imbalsamata, vestita di bianco e le furono posti una maschera d’argento sul viso, uno scettro tra le mani e una corona di metallo smaltato sul capo.

    I giardini di Palazzo Corsini.

    Il suo corpo venne posto in tre bare, una di cipresso, una di piombo e l’ultima di quercia. La processione del funerale venne guidata dalla chiesa di Santa Maria in Vallicella sino alla Basilica di San Pietro, dove la regina fu sepolta nelle Grotte Vaticane, una delle sole tre donne ad aver avuto questo privilegio.
    Nel 1736 l’edificio e il giardino furono acquistati dal cardinale fiorentino Neri Maria Corsini, nipote di Clemente XII, che affidò i lavori di ristrutturazioni al conterraneo Ferdinando Fuga che per il papa stava già lavorando al Palazzo del Quirinale e al Palazzo della Consulta. L’architetto trasformò la piccola villa suburbana dei Riario in una vera e propria reggia, raddoppiando l’estensione della facciata aggiungendo dieci lesene di grandi dimensioni. La facciata posteriore, rivolta verso i vasti giardini, vantava tre corpi di fabbrica. Quello centrale, occupato dal monumentale scalone, è tuttora uno dei più belli di Roma. Lo scalone, infatti, funge anche da belvedere panoramico sui giardini, posti in pendenza sul Gianicolo.

    Il palazzo Corsini in un’incisione di Giuseppe Vasi. Sul fondo il Casino dei Quattro Venti.

    Durante l’occupazione napoleonica di Roma, palazzo Corsini ospitò Giuseppe Bonaparte, fratello dell’imperatore. Nella parte superiore della villa , il casino dei Quattro Venti, si svolse il 3 giugno del 1849 uno dei più sanguinosi combattimenti in difesa della Repubblica Romana contro i francesi durante il quale fu ferito a morte Goffredo Mameli.
    Nel 1856 gran parte dei giardini sul Gianicolo furono uniti alla confinante Villa Doria Pamphilj, mentre nel 1883 il principe Tommaso Corsini vendette al Governo italiano il palazzo, donando la biblioteca e la galleria ivi custodite. Il palazzo divenne sede degli uffici e della biblioteca della Reale Accademia dei Lincei e della Galleria d’Arte Antica, costituita per l’occasione per accogliere le raccolte Corsini.
    Oggi, la maggior parte parte della collezione d’arte antica della Galleria Corsini si trova a Palazzo Barberini. Tuttavia, la raccolta rimasta, arricchita grazie ai lasciti e alle donazioni Corsini a partire dal Settecento, vanta un raffinato nucleo di dipinti che spazia dal XIV al XVIII secolo, con una predominanza della pittura italiana barocca, specialmente romana, bolognese e napoletana, e importanti esempi di opere dei Bamboccianti e di paesaggisti.

    Chiesa Santa Maria dei Sette Dolori.

    Lasciando Palazzo Corsini e ripercorrendo a ritroso via della Lungara, si arriva a via Garibaldi. Oltrepassato il cancello, al civico 27, si innalza la chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori realizzata da Francesco Borromini per le Oblate che costituisce una delle più tipiche e affascinanti creazione del grande architetto. Committente ne fu donna Camilla Virginia Sabelli, moglie di Pietro Farnese e madre del cardinale Girolamo, costruttore della non lontana Villa Aurelia, sede dell’Accademia americana. La nobildonna aveva creato una comunità di giovani desiderose della vita claustrale. La chiesa fu costruita tra il 1642 e il 1643, mentre il monastero dovette, per difficoltà economiche, attendere fino al 1655 per essere costruito e più oltre ancora per le rifiniture. Comunque la facciata della chiesa, curva nella parte centrale ed affiancata da due costruzioni laterali somiglianti a torrette, è rimasta incompiuta. L’interno ripete lo schema della Chiesa dei Re Magi nel Palazzo di Propaganda Fide, a piazza di Spagna, sempre del Borromini.

    Roma, 22 ottobre 2017

  3. Cross The Streets al MACRO

  4. Il Foro Romano: età arcaica e età regia

    La visione più completa del Foro si può godere dalla terrazza del Campidoglio, sulla destra del Palazzo Senatorio, oppure dalle arcate del Tabularium. Dall’angolo settentrionale del Palatino, dove c’è la terrazza degli Orti Farnesiani, si ha una vista altrettanto ampia. L’ingresso si apre lungo la Via dei Fori Imperiali all’altezza di Via Cavour. Un piano inclinato si trova in corrispondenza dell’Arco di Tito.

    I fori romani – Manini

    La valle del Foro Romano è il risultato dell’erosione provocata, entro il compatto banco di tufo vulcanico, da uno dei tanti rigagnoli e fiumicelli che si versano nel Tevere. La depressione del Foro, tra il Campidoglio e il Palatino, si prolunga a sud-ovest, verso il fiume, nella valle del Velabro, che è anche il nome originario dello stesso corso d’acqua.
    Gli scrittori antichi sono concordi nel sottolineare la natura paludosa e inospitale della valle del Foro. I primi nuclei di abitazione sorsero, infatti, sulla cima o alle estreme propaggini delle colline, il Palatino ma certamente anche il Campidoglio, mentre la pianura fu utilizzata come necropoli. Lo scavo presso il Tempio di Antonino e Faustina e altre scoperte sporadiche hanno mostrato però che il centro abitato del Palatino si estendeva anche in una parte della valle.
    L’utilizzazione della necropoli del Foro ha inizio con la prima fase della cultura laziale, X secolo avanti Cristo. Le tombe più antiche sembrano essere le due scoperte negli anni Cinquanta del secolo scorso presso l’Arco di Augusto, contemporaneamente a un’altra, scavata sul Palatino, sotto la Casa di Livia. Il sepolcreto del Foro è utilizzato solo fino alla fine del II periodo laziale, inizio del VII secolo avanti Cristo. Da quel momento in poi si troveranno in esso solo le tombe di bambini, che potevano essere seppelliti anche all’interno dell’abitato, uso che verrà a cessare con l’inizio del VI secolo avanti Cristo. Contemporaneamente all’abbandono del sepolcreto del Foro ha inizio l’utilizzazione di quello dell’Esquilino.

    Foro romano e Campo Vannino – Giovan Battista Piranesi

    Di conseguenza ha luogo un ampliamento dell’abitato del Palatino in una fase proto – urbana, cui corrisponde ormai, come nelle più importanti città etrusche, una necropoli unitaria al posto dei piccoli centri cimiteriali pertinenti ai singoli villaggi della fase precedente.
    Il Foro, allora, cessa di essere un’area esterna ai vari nuclei abitati che lo circondano ed entra a far parte di un unico centro, già definibile come urbano. Dopo la fusione in una sola città delle comunità dei colli adiacenti, il Foro, difeso dalla comune rocca del Capitolium, forma il centro di Roma, intorno a cui sorsero a mano a mano gli edifici destinati al disbrigo degli affari pubblici e privati: tabernae, cioè negozi, basiliche, sale porticate, luogo di ritrovo e di pubbliche funzione.
    Alla fine del VII secolo ha inizio a Roma la dinastia etrusca dei Tarquini. Il primo re, Tarquinio Prisco, pone mano a una serie di opere pubbliche, e in particolare a un grandioso sistema di fognature destinato a drenare il fondo paludoso delle valli. La più importante di queste opere, la Cloaca Maxima, il cui percorso attraversa l’area centrale del Foro, è ancora oggi riconoscibile: grazie a tale capolavoro ingegneristico, l’acqua del Velabro viene canalizzata, rendendo utilizzabile l’area.
    L’urbanizzazione della valle presuppone anche l’occupazione e l’integrazione alla città palatina del contrapposto complesso Campidoglio-Quirinale, che sarebbe stato anch’esso realizzato sotto i re etruschi. La costruzione sul Campidoglio del gigantesco Tempio di Giove Ottimo Massimo, iniziato secondo la tradizione, da Tarquinio Prisco, costituisce la migliore prova dell’avvenuta unificazione.

    Foro romano – Ettore Roesler Franz

    Dovette allora determinarsi la suddivisione dell’area in due parti, con funzioni precise: ai piedi dell’Arx, la sommità settentrionale del Campidoglio, il Comizio, destinato all’attività politica e giudiziaria; a sud di questo, il Foro vero e proprio, con funzioni precipue di mercato. L’antichità del Comizio, comitium ovvero luogo di riunione, risulta, oltre che dalla menzione che ne troviamo nel primo calendario romano e dalla sua utilizzazione per i più antichi comizi – quelli delle curie – anche dalla scoperta nella sua area di un complesso monumentale, il Niger Lapis, attribuibile con tutta probabilità ancora all’età regia, VI secolo avanti Cristo.
    La data tradizionale dell’inizio della Repubblica, 509 avanti Cristo, corrispondente all’inaugurazione del Tempio di Giove Capitolino e all’inizio della compilazione della lista dei consoli, sembra confermata dai risultati di scavi recenti.
    L’antico edificio della Regia, nel quale la tradizione riconosceva la casa di Numa, distrutto da un incendio, è ricostruito in nuove forme proprio alla fine del VI secolo avanti Cristo.
    La cacciata dei Tarquini non costituisce però una rottura radicale nello sviluppo della città: la crisi più grave si avrà poco prima della metà del V secolo avanti Cristo. Ciò si ricava, per quanto riguarda il Foro, dalla costruzione, nei primi anni della Repubblica, di due importanti santuari:

    Fonte di Giuturna

    quello di Saturno, forse anch’esso iniziato in periodo regio sul luogo dove esisteva un antichissimo altare della divinità, e quello di Castore e Polluce; in quest’ultimo caso si tratta dell’evidente importazione di un culto greco, come dimostrano tra l’altro i nomi, gli stessi delle corrispondenti divinità greche.
    I siti e i monumenti che rimandano ai tempi arcaici di Roma sono la necropoli arcaica, la Regia, il Tempio di Vesta, la Fonte Giuturna e il Tempio dei Castori. Per passare alla zona del Comizio – Niger Lapis – e alla Curia.

    Roma, 14 ottobre 2017