prima pagina

  1. Al MACRO: Cross the Streets

    La “street art”, in tutte le sue molteplici declinazioni graffitismo, muralismo, writing, è certamente uno dei fenomeni artistici contemporanei più interessanti ed innovativi, ed è anche una delle forme d’arte contemporanea che ha influenzato e sta influenzando diversi aspetti della società.

    Dipinti – Grotte di Lescaux

    La street art, intesa sempre nel senso più ampio del termine, è un fenomeno contemporanea- mente nuovo ed antichissimo.
    Antichissimo poiché l’uomo, di fatto, da sempre disegna e scrive sui muri rispondendo in questa maniera ad un bisogno insopprimibile di esprimere le proprie istanze, i propri sentimenti, le proprie paure, le proprie vittorie, come i sogni e le sconfitte, in piena libertà, e di condividerle con gli altri membri del gruppo. Si disegna e si dipinge sul muro quasi subito nella comparsa dell’uomo sulla Terra. I dipinti sulle pareti delle grotte di Lascaux in Francia risalgono al Paleolitico superiore, ovvero a 17500 anni fa circa.
    Il disegno e la pittura, come forme immediate di comunicazione, sono seguite dopo molti anni dallo scrivere sul muro. Scrivere presuppone l’elaborazione di un segno grafico, un alfabeto, e la scrittura cuneiforme più antica risale a circa 3400 anni fa, ma scrivere, presuppone che ci sia qualcuno che sa scrivere e qualcuno che sa leggere, abilità che si diffonderanno molto lentamente nelle società umane. Però, nel momento in cui l’uomo impara a scrivere, lo fa su qualsiasi superficie: sulla cera, sulla terracotta, sul papiro ma anche sui muri delle città, si pensi alle scritte sui muri delle vie nella città antica di Pompei, su quelli dei luoghi sacri, ad esempio le scritte ricordo dei pellegrini che andavano alla Scala Santa a Roma, o su quelli di abitazioni private per affermare la propria supremazia, si pensi alle scritte che i Lanzichenecchi lasciarono sui muri della Sala delle Prospettive a Villa Farnesina dopo il sacco di Roma del 1527.

    Scritte dei Lanzichenecchi – Sala delle Prospettive – Villa Farnesina

    Sotto questo punto di vista quindi la street art è un fenomeno antico. Ed anche il suo portato politico e sociale, di rivendicazione di lotte o di autodeterminazione sono aspetti connaturati con questa forma di arte, si pensi in questo senso al muralismo messicano di Diego Rivera negli anni Venti del Novecento, al suo ruolo nell’esprimere l’identità del popolo messicano, le sue lotte e le critiche ad un capitalismo nascente.
    La “street art” è però anche fenomeno nuovo perché, nelle modalità in cui si è attuata in questi anni, ha assunto il valore di vera e propria controcultura, mezzo espressivo complesso scelto dalle periferie del mondo per ritornare ad essere visibili. Mezzo espressivo complesso non solo perché si manifesta essa stessa in varie forme e modalità, ma perché di questa controcultura fa parte una nuova maniera di fare musica, il rap, una nuova maniera di ballare, l’hip hop, una nuova o almeno diversa maniera di vestire, nuovi fumetti, nuove letterature, nuove maniere di intendere la società e la socialità.
    Banalizzando si potrebbe dire che questa controcultura compare quando le marginalità urbane scelgono la creatività in alternativa alla criminalità.
    Il mix è chiaramente esplosivo: desiderio di emergere, di tornare a essere visibili, di riappropiarsi di un se stessi e arte sono due motori potentissimi e come tutti i fenomeni dirompenti creano inizialmente disagio e incomprensione, e tanti sono stati i tentativi di normalizzazione di questa controcultura, ma alla fine è stata proprio questa controcultura a entrare in maniera pervasiva nella vita quotidiana fluendo nelle strade, che diventano musei, e arrivando nella vita quotidiana.

    Pubblicità – Herbert Baglione come fondo

    Tutta la società ne resta in qualche misura “contaminata” negli aspetti più quotidiani e comuni, maniere di vestire, musica da ascoltare, maniera di ballare e di stare insieme, a effetti più sottili e più difficili da evidenziare. Si pensi ad esempio a quanto dell’arte urbana, nella sua accezione più ampia, sia tracimata nel mondo della pubblicità, dall’uso dei muri dipinti quali sfondi per campagne pubblicitarie o dall’uso del così detto “whole car”, ovvero la scelta di avvolgere con una campagna pubblicitaria interi autobus o tram o vagoni ferroviari, modalità letteralmente inventata da quei writer che iniziarono a dipingere interi vagoni ferroviari o interi treni per aumentare la loro visibilità anche nel mondo del writing oltre che per colpire e saturare l’occhio del passante/spettatore/oggetto dell’opera viaggiante.
    E se nella pratica dell’arte di strada la strada diviene museo, e il pezzo dipinto nel bene e nel male è a disposizione di tutti, a fruizione libera, sempre più spesso si cerca di invertire il concetto e di far si che il museo divenga una strada.

    Un “whole car” pubblicitario

    In questo tentativo, per altro dichiarato dall’allestimento, si pone la mostra “Cross The Streets” al MACRO di Via Nizza; una mostra complessa e semplice allo stesso tempo, e che forse anche in questo mix riesce a interpretare l’essenza di questa forma di arte, anche se il limite di non essere in strada si percepisce nettissimo.
    D’altra parte il MACRO non è nuovo a questo tipo di esperienze e contaminazioni, essendo una realtà che si pone spesso quale ponte tra l’esterno e l’interno, tra la strada e il museo, avendo ospitato in passato la mostra dei bozzetti per l’opera di Kentridge “Triumphs and Laments” e ospitando stabilmente interventi di Ozmo, Bros e Sten&Lex.
    “Cross The Streets” si articola in sezioni diverse che vogliono dare una visione più completa possibile del fenomeno dell’arte urbana declinata nel maggior numero possibile di tipologie.
    La prima sezione s’intitola “Street Art Stories”, e cerca di raccogliere storie diverse che la strada racconta e mostrare la realtà di queste storie in particolare il fatto che non tutte sono a lieto fine. Non è a lieto fine la storia dei muri dipinti a Roma da Keith Haring, in due momenti diversi, negli anni che vanno dal 1984 al 1986. Due opere realizzate ed entrambe rimosse, come spesso avveniva ed avviene ancora, anche se più raramente, e di cui in mostra è possibile vedere la documentazione fotografica. Parzialmente a lieto fine è la storia dei mosaici dell’artista francese Invader che letteralmente invase Roma nel 2010, mosaici che sono stati parzialmente rimossi, alcuni per motivi di collezionismo, altri invece sono ancora in opera.

    Iron will – JB Rock – MACRO Cross the Streets

    Ma in questa sezione è possibile vedere opere di Shepard Fairey aka Obey the Giant e di Ron English tra i più noti artisti della scena statunitense, insieme a quelli di JB Rock, Diamond, Lucamaleonte artisti romani le cui opere possono essere viste frequentemente sui muri della città di Roma, che realizzano per “Cross The Streets” delle opere “site specific” che sebbene siano ristrette nelle ampie sale del MACRO sembrano riuscire a respirare della stessa aria che respirerebbero in strada.
    Muoversi in questa sezione crea uno strano effetto straniante poiché si passa attraverso momenti artistici completamente diversi, non solo per tecnica utilizzata, ma anche per stili e portati e mondi e microcosmi, realtà diverse che si intrecciano e che stimolano suggestioni e riflessioni molteplici, bellissima e sotto certi punti di vista struggente l’opera di ROA, non senza strappare più di un sorriso per la sottile ironia che pervade alcune delle opere esposte.
    “Writing a Roma, 1979 – 2017” è una sezione della mostra che ricostruisce attraverso una documentazione ampia e articolata la storia del writing romano. In un interessante e originale allestimento si possono vedere foto di pezzi realizzati su muri o treni nel corso degli anni, alcuni pezzi realizzati sul muro del MACRO e soprattutto gli sketch book su cui i diversi pezzi prendono vita per la prima volta, quale importante testimonianza della continua elaborazione artistica e grafica con cui il writer evolve la sua persona e la presenta poi in strada. I nomi qui sono quelli di personalità davvero importanti della scena del writing romano: Napal, Brus, Imos, Pax Paloscia tra gli altri e le crew TRV e WHY Style.
    Una parte importante di questa sezione è il ritrovamento del materiale esposto a Roma, e per la prima volta in Europa, nel 1979 da parte di due writer newyorkesi, Lee Quinones e Fab 5 Freddy, e messo nuovamente a disposizione del pubblico.

    The Beginning – Lee Quinones – MACRO Cross the Streets

    Nell’ambito di questa sezione c’è anche una sorta di esperimento emozionale, il tentativo di comunicare al visitatore non solo la componente più artistica di un pezzo, ma anche quello che accade quando il pezzo viene realizzato: la ricerca del muro, o del treno, l’emozione della violazione di un luogo “proibito”, l’adrenalina che sale mentre il tutto accade, la necessità di fuggire quando scoperti nella notte. L’insieme dei bozzetti esposti e le sollecitazioni emotive fornite dalle installazioni costituiscono un’opportunità forse unica per capire perché il writing non può essere banalmente liquidato come vandalismo.
    Questa sezione risulta nel suo complesso quella più vicina al cuore di ciò che l’intera mostra vuole raccontare.
    “Milestones” è la terza sezione della mostra, forse quella più autoreferenziale e sotto certi punti di vista meno coinvolgente per il visitatore, dove si cerca di fare una sorta di breve riassunto degli eventi imprescindibili per questo movimento dalle mostre degli primi anni 2000, alla nascita dell’”Outdoor Festival” al progetto “Izastikup”, solo per fare alcuni esempi.

    Roma, 22 luglio 2017

  2. Santa Croce in Gerusalemme

    La basilica di Santa Croce in Gerusalemme è il luogo che dal momento della sua fondazione ha conservato tra le più importanti reliquie della cristianità. Fu eletta a ruolo di basilica da papa Gregorio I nel 523 e fu inserita da Filippo Neri nell’itinerario del così detto Pellegrinaggio delle Sette Chiese.

    Santa Croce in Gerusalemme – Piranesi

    Sebbene la chiesa fosse posta ai margini della città di Roma, essa fu oggetto di un costante pellegrinaggio sin dalla sua costituzione, poiché custodiva le reliquie della Passione di Cristo ritrovate in situazioni miracolose sul monte Calvario da Elena.
    Le reliquie oggi sono conservate nella Cappella delle Reliquie, a cui si accede salendo dalla navata sinistra. La reliquia più famosa è costituita dai frammenti della Croce di Cristo. Insieme a questi frammenti sono conservati nella cappella: il Titulus Crucis, ovvero l’iscrizione che, secondo i Vangeli, era posta sulla croce; un chiodo della croce di Cristo, due spine appartenenti, secondo la tradizione, alla corona posta sul capo di Gesù, il dito di San Tommaso, l’apostolo che dubitò della resurrezione di Cristo e una parte della croce del Buon Ladrone.
    Il nucleo più antico della basilica risale al IV secolo dopo Cristo, quando Elena, madre di Costantino decise di trasformare la grande aula rettangolare coperta da un soffitto diritto, illuminata da venti finestre, disposte cinque su ogni lato, e facente parte del suo palazzo, detto Sessoriano, in basilica cristiana.
    Il palazzo Sessoriano, dalla parola latina sedeo ovvero siedo, poiché in età tardo imperiale il consiglio imperiale si riuniva in una sala del palazzo, sorgeva a sua volta sull’area di una villa imperiale la cui costruzione era stata iniziata da Settimio Severo e terminata da Eliogabalo nel III secolo dopo Cristo. Di questa enorme villa detta Horti Variani ad Spem Veterem facevano parte l’Anfiteatro Castrense, il Circo Variano, le Terme Eliane, dal nome di Elena e un nucleo residenziale, di cui faceva parte proprio l’aula scelta da Elena per dare origine alla basilica.

    Basilica di Santa Croce in Gerusalemme

    La villa perse alcune sue parti quando furono costruite le Mura Aureliane nel 272. Elena istituisce qui la sua residenza all’inizio del IV secolo.
    Proprio per la sua continua frequentazione la basilica fu restaurata una prima volta nell’VIII secolo per volere di Gregorio II e Adriano I, ma la trasformazione più importante si ha nel XII secolo quando la struttura della chiesa viene trasformata seguendo lo stile romanico, e la grande aula divisa in tre navate. Impostazione che è quella che ancora oggi può essere osservata.
    Inoltre in questo momento vengono aggiunti un campanile a torre, ancora esistente ed un portico oggi scomparso.
    Durante il regno di papa Benedetto XIV la chiesa subisce una nuova trasformazione, e oggi la chiesa romanica lascia il posto ad una architettura di gusto decisamente tardo barocco.
    Nel X secolo alla basilica viene associato un monastero nel quale si sono alternate diverse comunità religiose. Ad esempio nel 1049 Leone IX assegnò il monastero ai Benedettini di Montecassino. Nel 1372, sotto il regno di Urbano V arrivarono i Certosini che vi rimasero fino al 1561 quando arrivarono i Cistercensi di Lombardia, che rimasero a gestire la chiesa fino al 2009.
    Proprio per la presenza di un monastero per così tanti secoli e per la posizione marginale della basilica rispetto alla città, che veniva così a trovarsi in aperta campagna, vediamo oggi sopravvivere un orto piuttosto esteso che si apre alla destra della basilica chiuso da una splendida porta di vetro e ferro opera di Jannis Koonellis, inaugurata solo nel 2007.
    Grazie al lungo periodo di storia che la basilica di Santa Croce in Gerusalemme copre, essa si presenta ricca di opere d’arte, a cominciare dal pavimento cosmatesco in perfetto stato di conservazione e quale insieme di realtà composite, vista la compresenza di una grande sala absidata impropriamente definita Tempio di Venere e Cupido, di due domus di età costantiniana e dell’Anfiteatro Castrense, tra gli altri.
    Tra l’Anfitetaro Castrense e le Mura Aureliane, papa Sisto IV nel 1476 fece costruire l’oratorio di Santa Maria del Buon Aiuto come segno di ringraziamento. Era accaduto infatti che il papa era stato colto in aperta campagna da un violento nubifragio e chiedendo aiuto alla Vergine trovò riparo proprio nei pressi delle Mura. In quel luogo fece costruire un piccolo oratorio in cui è conservato un affresco con il tema della Madonna con Bambino, attribuito a Antoniazzo Romano.

    Mosaico della Cappella di Sant’Elena

    Nei sotterranei si trova la Cappella di Sant’Elena, ornata con una decorazione a mosaico risalente al regno di Valentiniano III. Sotto il pavimento di questa cappella è conservata la terra del Calvario, anch’essa riportata da Elena dai luoghi santi. In questa cappella le donne possono accedere solo il 20 marzo, giorno della dedicazione della cappella, pena la scomunica.
    Nella cripta è collocata la statua romana di Giunone trovata a Ostia Antica e trasformata nella statua di Sant’Elena, per mezzo della sostituzione della testa, delle braccia e l’aggiunta di una croce.

    Roma, 18 luglio 2017

  3. Racconto

    I misteri dell’Ara Pacis

    Paolo Biondi

    Pubblichiamo con piacere il Prologo del libro pubblicato per le Edizioni di Pagina, da Paolo Biondi dal titolo “I Misteri dell’Ara Pacis”, ringraziando Paolo Biondi per la sua gentilezza.

    Galleria di personaggi e di fantasmi
    C’era un generale spagnolo presuntuoso. Voleva distogliere Augusto dal suo destino. E il destino aveva assegnato un compito al principe di ritorno da Gallia e Spagna: far costruire un altare e dedicarlo alla dea Pace, dando così il via a una serie incredibilmente lunga di fatti e di vicende, di curiosità e di misteri legati a quell’Ara. Malgrado la sua ostinazione e il potere dei suoi soldi quel generale non riuscì a fermare la storia. Lui non sapeva che una dea, una dea potente, aspettava che qualcuno rendesse luogo sacro più di ogni altro la terra dove lei aveva fatto zampillare una fonte, fonte di acqua che sgorga per proteggere e custodire la vita di ogni partoriente, nella parte settentrionale del campo Marzio. E non poteva sapere che un matematico egiziano aveva già calcolato, con scientifica certezza, ogni minima variazione dell’ombra del sole per costruire un nuovo orologio. E che l’ombra di un obelisco egizio dedicato al dio Sole, meridiana di quell’orologio, sarebbe caduta a fecondare la terra alle porte di quell’Ara ogni anno al tramonto del 23 settembre, giorno di nascita del principe Augusto, portatore di prosperità e di pace nel mondo.
    continua…

  4. Santi, martiri, artisti al Foro Romano: il Carcere Mamertino e i Santi Luca e Martina

    Stanno una di fronte all’altra, alle pendici del Campidoglio prospicente la valle del Foro Romano: la chiesa dei Santi Luca e Martina, uno dei capolavori del primo barocco romano, e il complesso del Carcere Mamertino, considerato il più antico carcere del mondo.

    Schema del Complesso del Carcere Mamertino. 1 – Chiesa di San Giuseppe Falegname; 2 – Cappella del Santissimo Crocefisso; 3 – Mamertino ; 4 – Tullianum

    Nella prima, è sepolta Martina, martire del III secolo, tra le più amate dai romani. Il secondo, seguendo la tradizione, ospitò i condannati a morte Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa di Roma.
    Il complesso del Carcere Mamertino ci appare oggi molto ridotto nella sua struttura iniziale, almeno da quanto si possa desumere dalle descrizioni che diversi autori romani, a partire da Tito Livio, ne hanno fatto. Quello che arriva fino a noi è la parte più segreta del carcere originario, che equivale grosso modo ad un carcere di massima sicurezza moderno, anche per il tipo di prigionieri che vi venivano rinchiusi. L’insieme degli ambienti pervenuti era scavata nella cinta muraria di età regia e può quindi essere fatta risalire, anche per la modalità di costruzione e per il tipo di pietra utilizzata, ad un periodo compreso tra il V e il III secolo avanti Cristo, anche se alcuni scavi più recenti farebbero identificare delle fasi costruttive risalenti all’VIII e al VI secolo avanti Cristo.
    Questo nucleo era poi in continuità con altri ambienti scavati nel Campidoglio, dette Lautumiae, delle antiche cave di tufo, che venivano utilizzati per la detenzione di prigionieri di basso rango. Probabilmente il complesso era in connessione anche con le Scalae Gemoniae dalle quali venivano gettati i condannati. Certamente ciò accadde sotto l’imperatore Tiberio a quei condannati a morte per aver commesso il delitto di lesa maestà e successivamente anche le vittime di conflitti legati al potere imperiale, come ad esempio accadde all’imperatore Vitellio, subirono questa sorte.
    Tutte le ricostruzioni del complesso carcerario, a partire da quelle più antiche, ad esempio di Piranesi, a quelle più moderne, hanno utilizzato le fonti bibliografiche per restituirne un’immagine compiuta.

    Tullianum – Si ringrazia Riccardo Auci per la foto

    Al di là della difficoltà di immaginare l’intera struttura, l’identificazione del Carcere Mamertino con gli ambienti che oggi si trovano sotto la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami è certa, poiché dalle fonti, ad esempio in Plinio, si sa che esso era in prossimità del Tempio della Concordia nelle vicinanze del Foro, il che coincide con la presenza nella medesima zona del Clivus Lautumiarum, ovvero la strada lungo la quale si trovavano le Lautumiae e nel muro di uno degli ambienti del carcere, il Tullianum, si vede incidere il muro della Curia Hostilia.
    Il complesso carcerario che arriva fino a noi è costituito da una camera sotterranea più profonda detta Tullianum, e da una seconda camera, sempre sotterranea ma posta al di sopra del Tullianum, detta Mamertino. La comunicazione tra le due camere, oggi è assicurata da una scala moderna, ma in antico l’unica comunicazione era una botola che si apriva nel pavimento del Mamertino e che è ancora visibile.
    Il nome di Tullianum ha sempre indotto a pensare che la sua costruzione fosse da attribuire a Servio Tullio o a Tullio Ostilio, ma Livio ne attribuisce la fondazione a Anco Marzio. Più probabilmente l’etimologia deve essere fatta risalire alla parola latina tullus, ovvero polla d’acqua. In effetti ancora oggi c’è una sorgente all’interno del Tullianum, che la tradizione popolare racconta che fu fatta scaturire da Pietro e Paolo nel corso della loro detenzione. Con l’acqua di questa sorgente battezzarono poi i loro carcerieri, Processo e Martiniano, dopo averli convertiti, e quindi abbandonarono il carcere per andare incontro ai loro destini. In realtà è possibile che il Tullianum fosse in origine una cisterna e che potesse avere anche una funzione sacrale.

    Colonna alla quale sarebbe stato legato Pietro – Tullianum

    Del Tullianum una descrizione molto precisa ci è lasciata da Sallustio nel De Catilinae coniuratione. Nel suo resoconto dell’imprigiona- mento e dell’esecuzione dell’ex console Lentulo, di Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario, lo storico tratteggia una concisa quanto fedele descrizione del luogo, ancora valida per il sito così come ci è giunto: “Vi è un luogo nel carcere chiamato Tulliano, un poco a sinistra salendo, sprofondato a circa 12 piedi sottoterra. Esso è chiuso tutto intorno da robuste pareti e al di sopra da un soffitto, costituito da una volta di pietra: il suo aspetto è ripugnante e spaventoso per lo stato di abbandono, l’oscurità e il puzzo”.
    Il Tullianum era il carcere simbolo per i prigionieri illustri dell’antica Roma e non a caso si trova in un’area centralissima a ridosso della Via Sacra nel Foro. Ha ospitato in ceppi, per circa mille anni, i grandi nemici del popolo e dello Stato, i grandi vinti e i grandi traditori di Roma. Qui vennero gettati, tra gli altri: Ponzio, re dei Sanniti, vincitore delle Forche Gaudine qui decapitato nel 290 avanti Cristo, Erennio Siculo, amico di Gaio Sempronio Gracco nel 123 avanti Cristo, Giuturna, re della Numidia nel 104 avanti Cristo, Lenulo e Centego, i Catilinari nel 61 avanti Cristo, Vercingetorice, capo dei Galli nel 49 avanti Cristo, Seiano e i suoi figli nel 31 dopo Cristo.
    La tradizione vuole che qui furono rinchiusi Pietro e Paolo, e racconta che Pietro, scendendo con il compagno nel Tullianum, cadde battendo il capo contro la parete lasciandovi un’impronta. Secondo quanto ci trasmette lo storico Ammiano Marcellino nelle sue Storie, il Carcere Mamertino diviene luogo oggetto di pellegrinaggio, perché luogo di detenzione dei santi Pietro e Paolo, solo a partire dal VI secolo. Ma alcune fonti affermano che fu elevato a luogo di culto già nel 314 dopo Cristo, quando il Papa Silvestro lo dedicò a San Pietro in Carcere.

    Chiesa dei Santi Luca e Martina al Foro – Piranesi

    Proprio di fronte al complesso Mamertino, si trova una delle più belle e meno conosciute chiese di Roma dedicata ai Santi Luca e Martina, a cui è legata una storia avvincente.
    Nel 1634: Pietro Berrettini, meglio noto come Pietro da Cortona, immenso pittore e architetto del primo Barocco, si attribuisce l’incarico di ricostruire a sue spese la chiesa di Santa Martina al Foro Romano, ormai in stato di abbandono da molti anni. Il culto di Martina era ormai avvolto dall’oblio e delle sue reliquie non si era persa traccia. A differenza di altre martiri più celebri, infatti, lei non aveva avuto il dono di una devozione costante, capace di conservarne il ricordo nel tempo.
    Pietro da Cortona, oltre alla ricostruzione della chiesa, desiderava ardentemente ritrovare le reliquie della martire, accanto alle quali, qualora fossero state ritrovate, voleva essere sepolto. Un’impresa che avrebbe dovuto realizzare da solo, dal momento che papa Urbano VIII non voleva in alcun modo finanziarla.
    Chi era Martina? Di lei, come del resto della gran parte dei martiri della cristianità delle origini, sappiamo pochissimo, se non quello che ci trasmettono le Passiones, scritti agiografici dove realtà e leggenda si mescolano.
    La sua vicenda terrena si colloca nella prima metà del III secolo dopo Cristo. La giovanissima Martina, nata in una nobile famiglia romana, rimase orfana di entrambi i genitori. A seguito di ciò Martina decise di rinunciare a tutte le sue ricchezze per donarle ai poveri: una pratica di carità comune a molte donne delle prime comunità cristiane.

    Santa Martina – Nicola Menghini – Si ringrazia “I Viaggi di Raffaella” per la foto

    Regnava allora Alessandro Severo, un imperatore originario della Frigia, regione dell’Anatolia occidentale. Egli era un uomo tollerante, tanto da includere Cristo nel suo larario, ma evidentemente non abbastanza per proteggere Martina dalla persecuzione di Ulpiano, celebre giureconsulto e potente prefetto del Pretorio. Arrestata per la sua fede, che professava apertamente, la giovane fu sottoposta ad atroci sevizie, tra cui, quella più crudele, di straziarne le carni con uncini di ferro. La Passio narra che Martina fu condotta davanti alla statua di Apollo e torturata, ma la statua del dio andò in frantumi e un terremoto distrusse il tempio e ne uccise i sacerdoti. Lo stesso prodigio si ripeté quando ella fu condotta e seviziata nel tempio di Artemide. Nessuno dei due prodigi arrestò la mano dei suoi torturatori, che accecati dall’odio la decapitarono. Era il 228: da quel momento su Martina scese il silenzio.
    Il suo martirio, però, ebbe grande eco nella prima comunità cristiana di Roma. Tanto che, quattro secoli dopo la sua morte, papa Onorio I le volle dedicare una piccola chiesa in un luogo dove un tempo sorgeva l’antica Curia Hostilia, così denominata perché fondata, secondo tradizione, dal re Tullo Ostilio. L’invidiabile posizione della chiesa, posta tra il Foro Romano e i Fori di Cesare e di Augusto, era valso alla chiesa l’appellativo di Sancta Martina in tribus foris.
    Ma il culto durò poco tempo, tanto che la chiesa fu adibita ad usi civili e ancora una volta la memoria della martire si perse, fino al 1256, durante il pontificato di Alessandro IV, quando, nel corso di lavori di ripristino della chiesa, vennero alla luce le reliquie di Martina e di altri tre martiri: Concordio, Epifanio e un terzo rimasto senza nome. Restaurata e riconsacrata, la chiesa, incredibilmente, andò incontro a un nuovo abbandono.
    Passarono altri secoli. Nel 1588 papa Sisto V concesse la chiesa di Santa Martina all’Università delle Arti della pittura, della scultura e del disegno – l’attuale Accademia Nazionale di San Luca – come compensazione per l’abbattimento della chiesa dell’Esquilino intitolata a Luca evangelista protettore dei pittori, demolita a causa dell’ampliamento della piazza di Santa Maria Maggiore.

    Cupola – Chiesa dei santi Luca e MArtina al Foro

    Tra il 1592 e il 1618 diversi artisti come Federico Zuccari e Giovanni Baglione realizzarono vari progetti per la ricostruzione della chiesa accademica, ma il lavoro di restauro era davvero arduo: dalle murature da rialzare ai pavimenti da rifare e poi la cripta per i sepolcri degli artisti da scavare e costruire ex novo. Insomma, occorreva un’immane quantità di denaro che non si poteva coprire neanche con la vendita delle antichità rinvenute nei dintorni. A quel punto si fece avanti Pietro da Cortona, divenuto nel 1634 principe dell’Università delle arti, chiarendo a tutti, al papa in primis, che al denaro avrebbe provveduto lui stesso. Sperava, infatti, che nella chiesa potesse rinvenire le spoglie della martire, delle quali si era perduta traccia.
    Pietro da Cortona elaborò il progetto e poi, come prima cosa, iniziò a scavare sotto l’altare, dove intendeva predisporre la tomba di famiglia, esattamente sotto la confessione, secondo l’uso antico. Ed ecco che il 25 ottobre del 1634 affiora dallo scavo una cassa con molti resti e una lamina di terracotta con su scritto “qui riposano i corpo de’ Sacri Martiri Martina Concordio Epifanio con loro Compagno”.
    La scoperta fece accorrere tutta Roma, la città fu inondata da un clima di festa. Urbano VIII, commosso, si recò subito a rendere omaggio alla martire. Non solo, il papa decise di stanziare una gran quantità di danaro per aiutare nell’impresa Pietro da Cortona. L’euforia è così contagiosa da spingere anche il cardinale Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII, a donare fondi. In questo clima gioioso e commosso, Urbano VIII fissò al 30 gennaio la celebrazione di Martina e la eleva a compatrona di Roma.

    Busto di Pietro da Cortona – chiesa dei santi Luca e Martina al foro – Si ringrazia “I Viaggi di Raffaella” per la foto

    Quanto a Pietro da Cortona, l’emozione intensa che provò al ritrovamento delle reliquie lo spinse a modificare il suo progetto architettonico tanto da trasformarlo in una testimonianza di commossa devozione. Nella realizzazione della chiesa mise tutto se stesso: talento, passione, impegno, denari. E il risultato fu quell’autentico gioiello del barocco romano che si può ammirare nel cuore del Foro Romano, accanto ai marmi istoriati dell’arco di Settimio Severeo e all’umbilicus urbis, cioè il centro ideale di Roma. La chiesa dei Santi Luca e Martina è un capolavoro di armonia, di morbidezza e di luce, con la curvatura dolce della facciata, la preziosità della cupola.

    Roma, 16 luglio 2017