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  1. Massenzio, Romolo e Cecilia Metella. Storie e personaggi dell’Appia Antica.

    Una passeggiata lungo l’Appia Antica è un’esperienza unica: la strada, completamente restaurata e riportata alla sua sezione originale, conserva per ampi tratti l’originale basolato.

    Appia Antica

    Ancora oggi la bordano i crepidini, cioè i marciapiedi romani e le macere, i muretti che ne definivano i limiti. Lungo tutto il suo percorso si trovano importanti resti di monumenti funerari, torri e lapidi ombreggiati da grandi pini e cipressi secolari.
    Il tratto legato al periodo imperiale è definito per la sua straordinaria bellezza il “belvedere”. E’ qui che si allineano il Mausoleo di Romolo, alle spalle del quale si ergono i resti della Villa e del Circo di Massenzio e la Tomba di Cecilia Metella, il sepolcro meglio conservato e più conosciuto dell’Appia Antica.
    I resti di epoca imperiale e pertinenti all’epoca di Massenzio sono di fatto l’ultima trasformazione di una costruzione più antica, ovvero una villa rustica tardo – repubblicana risalente al I secolo avanti Cristo, che si ergeva in posizione scenografica con vista ai Colli Albani.
    Una prima trasformazione si ebbe in età giulio – claudia, I secolo dopo Cristo, e successivamente nel II secolo dopo Cristo subì una radicale modificazione a opera di Erode Attico che la inglobò nella sua enorme villa detta Pago Triopio. La proprietà passò poi nel demanio imperiale, e fu a questo punto che, all’inizio del IV secolo, Massenzio si fece costruire la villa, il circo e il mausoleo di famiglia.

    Mausoleo di Romolo

    Oggi, allineato con la via Appia e con apertura su di essa, si scorge un imponente quadriportico in opera listata, che circonda il Mausoleo dedicato a Romolo, che non deve però essere identificato con il fondatore di Roma, ma con il figlio dell’imperatore Massenzio, morto a soli sette anni, nel 309 dopo Cristo. Romolo, qui effettivamente deposto, fu divinizzato dopo la morte. Successivamente, il mausoleo fu trasformato per ospitare tutti i membri della famiglia imperiale compreso Massenzio e dotato di una cella per i riti connessi al culto dell’imperatore stesso.
    Ma le più note rovine “massenziane” sono quelle riferibili a un circo che è il meglio conservato tra tutti i circhi costruiti a Roma. Qui, persino i dettagli, come le anfore che servono a alleggerire il peso delle volte nella costruzione, sono ancora visibili. Il circo per le corse dei carri, che aveva una forma ad ippodromo, lungo 520 metri e largo 92, era di ridotte dimensioni perché era ad uso privato. Esso era infatti destinato a d accogliere l’imperatore, la sua famiglia e la corte imperiale. Oggi si stima che la capacità del circo fosse di 10.000 spettatori contro i 15.000 che poteva contenere il Circo Massimo.
    Sulla spina del circo troneggiava l’obelisco proveniente dal Tempio di Iside in Campo Marzio che successivamente Bernini collocherà al centro di Piazza Navona a completamento della Fontana dei Quattro Fiumi.

    Obelisco del Tempio di Iside – Fontana dei Quattro Fiumi – Bernini

    La sconfitta di Massenzio, a opera di Costantino, determinò probabilmente il precoce abbandono dell’impianto, al punto che si pensa che la struttura non sia stata neppure mai usata da Massenzio, e il fondo passò nel Patrimonium Appiae, citato già al tempo di papa Gregorio I, alla fine del IV secolo, tra i patrimonia ecclesiastici. La grande tenuta passò poi ai Conti di Tuscolo, poi ai Cenci e ancora ai Mattei ai quali si riferiscono i primi scavi, nel XVI secolo.
    A metà del Settecento, una nuova costruzione rustica fu addossata al pronao della tomba di Romolo; il resto del complesso antico, allora indicato come Circo di Caracalla, era pressoché totalmente interrato, se nel 1763 Giuseppe Vasi, architetto e vedutista, poteva descriverlo così: “Rimane solamente di questo Circo, che da alcuni viene stimato per opera di Gallieno, un masso di materia laterizia che era l’ingresso principale, ed il piantato d’intorno al Circo, in mezzo del quale fu ritrovato l’obelisco egizio che ora si vede sul nobilissimo fonte di piazza Navona”.
    Poco dopo, nel 1825, la tenuta fu acquisita da Giovanni Torlonia, che una ventina d’anni prima aveva già comprato la tenuta di Roma Vecchia e il relativo marchesato. Fu in quell’occasione che furono condotti nel complesso i primi scavi sistematici voluti dal Torlonia, allora ancora solo duca di Bracciano, ma suggeriti, nei modi e nella finalizzazione, dall’archeologo Antonio Nibby.
    Alla fine di otto mesi di difficile scavo, in un terreno – annota il Nibby nella sua Dissertazione –“maligno e sì duro che il tufo stesso sarebbe sembrato più molle”, il circo era interamente riemerso fino alla Porta Trionfale sulla via detta Asinaria.

    Mausoleo e Circo di Massenzio con casa dei Torlonia

    E proprio nei pressi di quella porta furono trovate due iscrizioni, una delle quali indicava Massenzio come committente e il figlio Romolo come dedicatario del monumento.
    Nel descrivere lo scavo, Nibby nota minuziosamente la mediocre qualità delle murature e delle stesse lastre di marmo delle iscrizioni, che datano perciò al IV secolo. Egli sottolinea, inoltre, come la fabbrica non sia mai stata restaurata, in antico. I Torlonia continuarono poi a far scavare lungo tutto l’Ottocento.
    Il complesso archeologico fu infine acquisito per esproprio dal Comune di Roma nel 1943; nel 1960, in occasione delle Olimpiadi di Roma, si provvide allo sterro di tutto il circo nonché al consolidamento delle murature perimetrali, cui seguirono lo scavo parziale degli edifici del palazzo, il restauro della spina, del quadriportico e del mausoleo. Varie altre campagne di scavo e consolidamento si sono susseguite da allora: dal 1975 – 1977, nel 1979 e nei primi anni 2000.
    In cima alla collina, infine, si erge uno dei punti di riferimento più celebri della via Appia Antica: la Tomba di Cecilia Metella, che rivaleggia per grandezza e per le forme con quelle di Augusto e di Adriano, costruite per le dinastie imperiali.

    Tomba di Cecilia Metella

    Cecilia Metella, figlia del console Quinto Metello Cretico, era la nuora del triumviro Marco Licinio Crasso, uno degli uomini più ricchi della Roma tardo – repubblicana. Costui aveva accumulato la sua fortuna acquistando a basso prezzo i beni delle vittime delle proscrizioni di Silla. Fu Crasso che finanziò Cesare all’inizio della sua carriera.
    Tuttavia, Cecilia assunse una fama postuma. È dovuto a lei, o per lo meno al fatto che la sua afflitta famiglia le avesse innalzato un così vasto e solido monumento funebre in un punto strategico, che l’antica strada abbia conservato il suo carattere e molti dei suoi monumenti.
    La tomba è costituita da una base a pianta rettangolare sormontata da un tamburo cilindrico. Della base, alta 8 metri, rimane solo il nucleo in calcestruzzo di selce, mentre del rivestimento si vedono solo i blocchi di travertino di ammorsamento che non fu conveniente asportare; il cilindro, alto ben 11 metri e dal diametro di 30 metri, è ancora rivestito di travertino; la sua forma lo collega al genere architettonico del mausoleo di tradizione ellenistica, che proprio in quel periodo raggiungeva a Roma la massima diffusione.

    Tomba di Cecilia Metella – particolare della decorazione a bucrani

    Sul tamburo un’iscrizione in marmo pentelico ricorda brevemente Cecilia Metella, mentre un fregio in rilievo rappresenta dei trofei di guerra, insieme a bucrani sormontati da festoni di foglie e frutta. Proprio dai crani bovini che decorano il festone la zona ha assunto il curioso toponimo di “Capo di Bove”.
    La sommità del tamburo è delimitata da una cornice, al di sopra della quale, si trova il ballatoio con la merlatura medievale; è però ancora parzialmente visibile la merlatura antica in travertino, che, assieme ai fregi guerreschi, richiama la tradizione italica che voleva il sepolcro simile ad una fortezza. Sul cilindro si trovava anche un tumulo di terra a forma di cono rovesciato, dove probabilmente crescevano dei cipressi. È una tipologia caratteristica dei sepolcri etruschi, che a Roma ritroviamo nel contemporaneo mausoleo di Augusto.
    L’interno era a due piani: il piano inferiore, che conteneva il corpo di Cecilia Metella, è costituito da una camera circolare, stretta e molto alta, in origine ricoperta da una volta conica; per proteggere la camera dall’umidità, le pareti sono rivestite con estrema cura in laterizio, con tegole sottili, spezzate e arrotate sul lato frontale.

    Tomba di Cecilia Metella – trasformazione medievale

    Per entrare nella camera funeraria esiste, accanto all’ingresso del castello, una scala che scende in basso, che fu costruita dal Muñoz all’inizio del ‘900 per raggiungere un piccolo corridoio che fa accedere alla base della camera; del corridoio, antico come la tomba, non è stato ancora ritrovato l’ingresso originale. Possiamo però anche affacciarci all’interno della tomba percorrendo una stretta galleria, analoga al “dromos” di accesso dei tumuli etruschi, che si trova alla stessa quota dell’ingresso del castello. Si saliva infine al piano superiore per mezzo di una scala medievale, ora inaccessibile.
    Nel 1300, papa Caetani, Bonifacio VIII, donò la tomba di Cecilia Metella ai suoi familiari, che la trasformarono in roccaforte, così da poter controllare il traffico lungo l’Appia ed esigere il pagamento del pedaggio da tutti i viaggiatori. Le grosse mura sgretolate, allietate da biforette medievali che si trovano da ambo i lati della tomba, facevano parte della roccaforte dei Caetani; nel 1300 questi costruirono l’ormai diroccata chiesa gotica di fronte, dedicata a san Nicola.
    Il risultato della trasformazione in roccaforte e della richiesta di pedaggio fu che questo tratto di strada fu abbandonato in favore di via Appia Nuova, che conduce alla Porta San Giovanni in Laterano, e la via Appia Antica fu abbandonata, e solo nel secolo scorso si avviarono i lavori di sgombro, la vegetazione venne estirpata dai suoi monumenti e questi restaurati.

    Roma, 30 aprile 2017

  2. Il racconto e la storia: il ciclo di affreschi della cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati

    di Fabio Prosperi

    Gli affreschi dell’Oratorio di San Silvestro interpretano una delle più chiare prese di posizione della Curia Romana nei confronti dell’Impero quando, tra il 1245 e il 1250, lo scontro si fece particolarmente duro.

    Federico II e il falco

    Il complesso dei Santi Quattro Coronati, all’interno del quale l’Oratorio si trova, era già stato uno dei luoghi della lotta tra Papato e Impero che, con Ildebrando di Soana era, per così dire, uscita allo scoperto in tutta la sua evidenza. L’edificio, infatti, aveva subito le ingiurie del furore normanno nel 1084, quando il Guiscardo era giunto manu militari a Roma dietro richiesta di papa Gregorio VII (1), richiesta ed intervento che ebbero come esito l’esilio salernitano del Papa che si vuole abbia detto «ho amato la giustizia, ho odiato l’iniquità, per questo muoio in esilio». Andiamo, allora, all’epoca della realizzazione dell’affresco: nel 1245 Federico II di Svevia, detto il Dominus Mundi, veniva deposto dal Concilio di Lione. O per meglio dire, a deporlo era stato Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo Fieschi dei Conti di Lavagna, proprio colui che, Federico aveva preferito quale successore al soglio di Pietro.
    La reazione di Federico fu violenta: «Per troppo tempo sono stato incudine: ora voglio essere martello!».
    E’ con molta efficacia che Ernst Kantorowicz (2), nella sua ormai leggendaria biografia di Federico inizia a parlare dell’ultima fase della vita del grande imperatore.

    Federico II – Porta di Federico II – Museo di Capua

    Dopo la deposizione e l’inaspettata rivolta di Viterbo sobillata dal Vescovo Ranieri, Federico non si sentì più di combattere, restando comunque sempre pronto al compromesso di pacificazione col Papa come ai tempi, invero durissimi, di Gregorio IX.
    Nel precedente periodo, quello di Onorio III e di Gregorio IX, all’istituzione ecclesiastica egli aveva in un certo senso contrapposto l’istituzione “stato”, mi si passi il termine in questo caso un po’ anacronistico, con le sue liturgie e le sue icone. Nel 1224 era stata fondata l’Università di Napoli che avrebbe dovuto dare il supporto giuridico a tutto ciò. Sulla Porta di Capua, opera che si dice abbia fatto presentire il proto umanesimo di Nicola Pisano, progettata dallo stesso Federico e ultimata nel 1239, non sopravvissuta agli sfaceli delle truppe di Gioacchino Murat, si poteva ammirare, in alto, la Giustizia in veste di dea. Sotto di lei Federico, ovvero colui che della giustizia era fonte vivente, lex animata. Sotto ancora, ai lati, Taddeo da Sessa e Pier delle Vigne, che della giustizia erano chiamati, dall’Imperatore, a dare completa applicazione. Tale era l’immagine che l’Imperatore voleva dare di sé: l’icona della nuova istituzione.

    Non più “luna” nei confronti di una Chiesa “sole”, come proponeva la letteratura ecclesiastica, ma “sole” e “sole”.
    Eppure Federico, con le buone maniere o con la forza, nel 1240 era deciso a farsi togliere la scomunica che, sebbene arma un po’ spuntata, pure doveva opprimere Federico, figlio del suo tempo.

    Pier delle Vigne – Porta di Federico II – Museo di Capua

    Federico eretico, amico degli infedeli, circondato di concubine, anticristo con i suoi arcieri musulmani di Lucera che osava impiegare contro gente cristiana. Eppure proprio Federico, ancora nel 1240, pur di ottenere la pace e la revoca della scomunica era disposto a riprendere la via d’Oltremare, a riconquistare Gerusalemme, che dal 1239 tornava ai musulmani secondo il patto stipulato dieci anni prima, e a restarvi, liberando così il Papa della sua ingombrante presenza.
    A quel punto, il Papa uscì allo scoperto e impose che la pace fosse estesa anche alle città ribelli del Nord d’Italia e indicò come obiettivo della nuova imminente crociata non più la Terrasanta, ma Costantinopoli, da difendere con i suoi scali e con gli interessi commerciali di Genova. A questo punto tutto fu più chiaro: il Papa voleva annullare il potere imperiale nell’Italia Settentrionale che, assieme a quello instaurato nel Regno di Sicilia, costituiva una seria minaccia sul Patrimonium Petri. Federico rifiutò. L’ultimo tiro che Gregorio ormai molto avanti negli anni e piuttosto malandato riuscì a giocargli fu quello di morire.
    E torniamo nel 1245 a Innocenzo IV, col quale questo racconto è iniziato. Col nuovo Papa la situazione precipitò. Lungi dal rispondere alle speranze di Federico, egli giocò la carta mai usata prima, ma contemplata dal Dictatus Papae, della deposizione:

    …VIII Quod solus possit uti imperiali bus insignis
    …XII Quo dilli liceat imperatores deponere
    (3)

    Federico allora divenne il Tiranno, non ci furono più i nemici dello Stato, ma nemici suoi, ed era sua la maestà che veniva lesa.
    Nei suoi ultimi cinque anni di vita, tanti ne corrono tra l’atto del Papa e la morte di Federico nel 1250, lo Staufen dovette subire i colpi della fortuna: la morte del suo fedelissimo Taddeo, che con Pier delle Vigne costituiva il supporto irrinunciabile dell’Impero, la prigionia di re Enzo, suo figlio prediletto, l’imprigionamento e il suicidio di Pier delle Vigne, la disfatta di Vittoria presso Parma…..

    Costantino colpito dalla lebbra – Oratorio dei Santi Quattro Coronati

    In questa temperie, in questo clima di scontro finale, fu ordinato ed eseguito l’affresco dell’Oratorio di San Silvestro, vero e proprio manifesto della Curia Romana.
    Nell’epoca in cui si cominciavano a ricercare i fondamenti dinastici, di radici nel passato da rappresentare nei blasoni (4), la Chiesa teneva a precisare le legittime origini del potere temporale. Il Medioevo parla molto per immagini, cosicché non si scrisse sui muri il testo della Donazione di Costantino, ma si raccontò la leggenda, che per l’uomo del Medioevo è storia, che sta alla base della Donazione stessa, che era stata compilata probabilmente intorno al V secolo e inserita in un’opera detta Actus Silvestri.
    I suoi protagonisti, Costantino e Silvestro, si erano incontrati solo di sfuggita e Costantino, primo imperatore cristiano, verosimilmente cristiano lo divenne a seguito di una personale maturazione. Costantino, abile militare e riformatore del sistema monetario, fu piuttosto un sincero fautore di un sincretismo tutto romano: nell’Editto di Tolleranza, Milano 313, come lo riporta il cristiano Lattanzio, era data libertà di religione perché ognuno ottenesse dal suo dio il maggior beneficio per l’Impero. (5)

    Acrolito monumentale di Costantino – Musei Capitolini

    Costantino non rinunciò mai alla carica di Pontifex Maximus. Tanto meno Costantinopoli fu la nuova Roma Cristiana in opposizione alla vecchia Roma Pagana se si procedette ai riti di fondazione secondo le liturgie pagane e vi si trasferì addirittura il Palladio. E sebbene Costantino abbia presieduto al Concilio di Nicea del 325 in cui fu promulgato il Simbolo cattolico, pure, per non scontentare gli ariani, convocò un altro concilio dove intervennero solo vescovi ariani e per giunta si fece battezzare da uno di questi, Eusebio di Nicomedia. (6).
    Federico e Costantino furono accomunati da una triste sorte: Federico dovette arrestare suo figlio Enrico che si era ribellato e che, durante un trasferimento della sua prigionia, diede di sprone al cavallo e si suicidò precipitandosi in un burrone; Costantino fece giustiziare suo figlio Crispo, per non parlare dell’uccisione di Fausta sua moglie, che col figliastro Crispo si sarebbe macchiata di adulterio. (7)
    Quello che però ci racconta l’affresco è un Costantino che, emendato dei suoi peccati, la lebbra da cui i sacerdoti pagani vorrebbero mondarlo nella piscina sanguinis, guarito e battezzato da Silvestro, e non dall’ariano Eusebio di Nicomedia, santo come ce lo racconta il suo biografo agiografo Eusebio di Cesarea, esprime la sua gratitudine a Silvestro con la famosa Donazione: una immagine purificata, diremmo oggi “sdoganata” e pronta per essere posta alla radice dell’albero genealogico dell’Impero Cristiano.

    Pietro e Paolo appaiono a Costantino malato – Oratorio dei Santi Quattro Coronati

    Leggeremo l’affresco nella riedizione che dell’Actus Silvestri fa un vescovo domenicano di Genova, Iacopo da Varazze, nella tanto famosa Legenda Aurea, di circa cinquanta anni più tarda rispetto ai fatti di Federico, quindi una fonte quasi coeva: l’illustrazione che se ne ha è estremamente puntuale delle pitture parietali col suo palazzo imperiale, l’eremo di Silvestro sul monte Soratte, la consegna del berretto frigio che diventa tiara simbolo del potere temporale, un Costantino strator e quindi sottoposto del papa, una insolita Sant’Elena che si vuole ebrea. (8)
    La Sistina del Medioevo dunque, come qualcuno ha chiamato gli affreschi dell’Oratorio? Mi permetto di dissentire rilevando l’assoluto anacronismo della definizione non trattandosi di un’opera puramente artistica per quanto fastosa, preferendo apprezzarne l’impatto mediatico che il committente, insieme con l’esecutore, dovevano aspettarsi nei confronti del visitatore dell’epoca.

    Roma, 22 aprile 2017

    Bibliografia essenziale
    1 – Goffredo Malaterra – Ruggero I e Roberto il Guiscardo – a cura di V. Lo Curto – 2002 Cassino
    2 – Ernst Kantorowicz – Federico II Imperatore; 1994 Milano, seconda edizione della traduzione italiana di Gianni Pilone Colombo
    3 – Glauco Maria Cantarella – Il sole e la luna, la rivoluzione di Gregorio VII papa 1073-1085 – 2005 Bari
    4 – Michel Pastoreau – Medioevo Simbolico – 2007 Bari
    5 – Lattanzio – de Mortibus persecutorum
    6 – Arnaldo Marcone – Costantino il Grande. 2013 Bari
    7 – Zosimo – Storia Nuova – a cura di F.Conca – 2007 Milano
    8 – Iacopo da Varazze – Legenda Aurea – a cura di A ed L Vitale Brovarone – 1995 Torino

     

     

  3. Recensione

    Morte di Adamo e altri racconti

    Pina Baglioni

    Riceviamo e pubblichiamo con piacere una recensione di Pina Baglioni del libro di Elena Bono dal titolo “Morte di Adamo ed altri racconti”, Marietti editore.

    La Legge e i miracoli del Signore
    «Quante volte s’è seduto dove stai tu adesso», pianse Lia amaramente, «e tutti quei miracoli… tutte le cose che diceva, non ve le ricordate più… quelle parole che ci mettevano una cosa, dentro, che non si sapeva cosa era.. e tornavamo a casa che piangevamo e che eravamo contente. E solo a guardare la sua faccia, pareva che non potevamo più andarcene via da lui, non lasciarlo più…».
    La notizia che Gesù è stato crocifisso a Gerusalemme è arrivata fino a Cafarnao. Fino a Rachele, la suocera di Simon Pietro e a tutte le sue vicine di casa. Donne giovani e meno giovani, sorelle, madri, mogli di pescatori. Sono tutte uscite per strada per parlare dell’accaduto. E ognuna reagisce a suo modo. Rachele cerca di dissimulare il suo dolore prendendo di petto tutte le altre. È una donna risoluta lei. Non per niente, qualche tempo prima, appena la febbre l’aveva lasciata dopo che il Signore le aveva toccato la mano (Mt 8, 14-17), s’era messa a cucinare come nulla fosse.

    continua…

  4. Antonio Ligabue. Visioni e tormenti dell’esilio.