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  1. La Suburra, miseria e nobiltà

    arco dei pantani

    Arco dei Pantani

    Il rione Monti brilla nel ventre topografico della città, come il suo centro perfetto, celebre da sempre, come recita una canzone popolare, per le “arubbacori”, le bellezze monticiane in eterna lite con le trasteverine.
    Il luogo, sinonimo di Suburra, trascina inevitabilmente il ricordo di delitti, di zuffe e di bordelli dell’antica Roma (e non solo di quella antica). Dove di notte, Nerone si aggirava travestito da poveraccio per carpire i giudizi del popolino sulle sue gesta. E la famigerata Messalina, sempre al calar del sole, usciva dal palazzo imperiale per provare l’ebrezza della trasgressione.
    Plauto, grande autore teatrale latino, definiva le “operatrici del piacere” della Suburra «rifiuti appena adatti a servi coperti di farina, ragazze fameliche dal profumo volgare e appiccicaticcio». Senza dimenticare però che qui era nato Giulio Cesare e il poeta Marziale.
    Quartiere di peccatori e delinquenti, la Suburra. Ma anche di santi. Di uno in particolare: Benedetto Giuseppe Labre, un francese che, rifiutato da tutti gli ordini religiosi per la sua salute fragile, giunse a Roma nel marzo del 1777 per servire il suo Signore da mendicante, e condividere quel poco che riceveva in elemosina con i poveri del malfamato quartiere.

    Piazza Santa Maria ai Monti - Incisione di Giuseppe Vasi

    Piazza Santa Maria ai Monti – Incisione di Giuseppe Vasi

    Labre aveva stabilito la sua dimora in un’arcata del Colosseo e trascorreva tutto il giorno a pregare nelle chiese mariane di Roma. Viste le condizioni di stenti in cui era vissuto, la sua salute peggiorò e il giorno di mercoledì santo del 1783, a soli 35 anni, si sentì male sulle scale della chiesa di Santa Maria ai Monti e fu trasportato nel retrobottega di un macellaio di via dei Serpenti dove nel pomeriggio morì. I suoi funerali videro la presenza di un’enorme folla di ogni stato sociale. Tanta fu l’affluenza di folla che si recò a visitare le sue spoglie a Santa Maria ai Monti, dove il suo corpo fu sepolto. Subito dopo i romani cominciarono a invocarne l’intercessione recandosi in pellegrinaggio presso la sua tomba.
    Nei decenni a noi vicini, le percezione della Suburra è profondamente cambiata: i borghesi del centro storico più cool, tra via della Scrofa e via Margutta, fino a quando non hanno dovuto capitolare, ritenevano il quartiere una scelta da “sfigati”. Ora, non è più così, da quando, cioè, le astute agenzie immobiliari hanno fatto lievitare i costi degli appartamenti incastonati nei palazzi medievali e rinascimentali di via Madonna dei Monti o di via Panisperna. Qui, presso l’Istituto di Fisica, dal 1926, operarono Fermi, Pontecorvo, Amaldi, Majorana, Segré e il chimico d’Agostino. O, ancora, via dei Serpenti, dove abitava il grande regista Mario Monicelli.

    Mario Monicelli - Diavù per MuRO

    Mario Monicelli – Diavù per MuRO

    I monticiani ancora lo ricordano, nella sua passeggiata mattutina per il quartiere, vestito come Capannelle, il personaggio dei Soliti Ignoti: cappelletto in testa e sciarpa al collo, con la speranza di non essere riconosciuto.
    Qual è la storia della Suburra? Di quest’angolo di Roma, separato, già dall’antichità da un possente muro dalla città dei potenti?
    Tutto inizia dall’VIII secolo a.C., nell’ampia e bassa valle a nord-est del Foro Romano, racchiusa tra Quirinale, Viminale ed Esquilino, il colle che ospitava la maggiore necropoli cittadina. Qui si formò una sorta di borgo suburbano della primitiva città situata sul Palatino. Sorsero il quartiere delle Carinae – posto su un’altura, di natura aristocratica e residenziale – e quella della Subura, situata più in basso e spiccatamente popolare. A metà del VI secolo quest’area venne inclusa da Servio Tullio tra le quattro regioni cittadine: Palatina, Collina, Suburana ed Esquilina.
    La Subura, il cui nome ha la stessa origine del termine latino suburbium (cioè sottostante alla città, al di fuori dell’urbs, ossia del primitivo stanziamento patrizio sul Palatino), costituiva la parte più popolare di Roma antica: un dedalo di viuzze, botteghe, mercati, catapecchie e insulae, i palazzi a più piani con appartamenti d’affitto. L’area era connessa al Foro tramite l’Argiletum, la via che iniziava nelle vicinanze del tempio di Giano, presso il lato nord-occidentale della Basilica Emilia. Oltre l’Argiletum, corrispondente all’odierna via della Madonna dei Monti, l’area arrivava fino alla Porta Esquilina, oggi nota come Arco di Gallieno.
    Nella Subura, abitata da mimi, gladiatori e cortigiane, si trovavano i luoghi più malfamati, le bettole e i vicoli bui teatro di delitti e misfatti.

    Foro di Nerva

    Foro di Nerva

    Nella zona vivevano numerosissime le famiglie plebee e si manifestavano tutte le problematiche umane e sociali della capitale dell’impero.
    Tuttavia la Subura non era soltanto un luogo di ambigua fama: seppur priva di importanti monumenti o edifici pubblici, era ricca di santuari di devozione popolare, come quello di Giunone Lucina, protettrice delle partorienti. Qui operavano schiavi esperti di scrittura, quasi una sorta di strutture editoriali dell’epoca, che per conto dei loro padroni copiavano e vendevano su ordinazione le più ricercate opere letterarie latine e greche.
    Nel periodo tardo-repubblicano e poi in quello imperiale si accentuò la tendenza a ridimensionare notevolmente l’area, che nella parte meridionale, lasciò il posto ai grandi Fori Imperiali e in quella più alta e salubre, a nord-est, vide moltiplicarsi le grandi residenze aristocratiche.
    Il Medioevo vide una forte contrazione della sua popolazione, trasferitasi in gran parte nell’area presso la riva del Tevere, e tuttavia la zona del Rione Monti, perché era posta lungo l’itinerario percorso dai pellegrini per raggiungere San Giovanni in Laterano, continuò a vivere e a poter esercitare un ruolo preminente nella politica cittadina.

    Demolizioni di Via Alessandrina - Roesler Franz

    Demolizioni di Via Alessandrina – Roesler Franz

    La valorizzazione delle aree collinari nord-orientali operata dai papi del Rinascimento non determinò un incremento della popolazione, che rimase sostanzialmente invariata sino al 1870. Stretta tra i grandi sventramenti e i rinnovamenti di Roma capitale, la zona, come una sorta d’isola nel flusso della storia, riuscì lungamente a conservare la propria secolare impostazione urbanistica e una schietta connotazione popolare. Caratteristica che in gran parte continua a mantenere ancora oggi, sebbene si presenti al tempo stesso come uno dei luoghi più innovativi della città, fervido d’iniziative culturali e ricco di locali, negozi e ristoranti.

  2. I Macchiaioli. Le collezioni svelate.

    La grande mostra ospitata dal Chiostro del Bramante raccoglie più di 110 opere, che costituiscono

    Giubetto rosso - Federico Zandomenichi

    Giubetto rosso – Federico Zandomenichi

    una possibilità unica di vedere raccolti in uno stesso luogo quadri che sono per lo più in collezione privata e che, in molti, sono stati un punto di partenza fondamentale per molta della pittura italiana del Novecento.
    La mostra ha anche un altro grandissimo pregio: quello di ricostruire le collezioni di cui le opere esposte facevano originariamente parte, restituendo quindi un ulteriore piano di lettura della pittura dei macchiaioli.
    Personaggi come Cristiano Banti, Diego Martelli, Rinaldo Carnielo, Edoardo Bruno, Gustavo Sforni, Mario Galli, Enrico Checcucci, Camillo Giussani, Mario Borgiotti si comportarono, nella seconda metà dell’Ottocento e fino agli inizi del Novecento, come veri e propri mecenati. Uomini di affari e imprenditori, come ad esempio Ettore Sforni, padre di Gustavo, era socio di maggioranza delle industrie di Giovan Battista Pirelli; poi c’erano anche gli “addetti ai lavori”, come il critico d’arte Diego Martelli e lo scultore veneziano Rinaldo Carnielo. Insomma, un gruppo di uomini accomunati dalla passione per la pittura dei Macchiaioli. Spesso amici veri degli artisti di cui acquistarono le opere anche per sostenerli nei momenti difficili.

    Uliveta - Telemaco Signorini

    Uliveta a Settignano – Telemaco Signorini

    Pittori come Giovanni Fattori, che avevano sofferto di difficoltà economiche per tutta la vita, poterono continuare a dedicarsi alla pittura “a macchia” solo grazie all’intervento, all’aiuto e all’ospitalità di questi collezionisti. Per Fattori fondamentale fu l’ospitalità offertagli da Diego Martelli a Castiglioncello, dove realizzò moltissime opere dedicate alla Maremma toscana. Nella collezione di Martelli confluirono anche alcune opere di Zandomenichi, il più impressionista dei macchiaioli: egli se ne andò a Parigi e lì rimase per tutto il resto della sua vita. E quelle di artisti francesi, come Camille Pisarro. Ciò rende la collezione di Diego Martelli, così come presentata nell’ambito della mostra, un’ulteriore occasione imperdibile per un confronto diretto tra la pittura impressionista e la pittura “a macchia”, che può essere considerata la visione italiana dell’impressionismo o, ancora meglio, l’interpretazione italiana dell’impressionismo.

    La raccolta del fieno - Giovanni Fattori

    La raccolta del fieno – Giovanni Fattori

    Un impressionismo che in Italia non passò indenne attraverso la luce mediterranea, ma soprattutto attraverso il verismo e le grandi trasformazioni storiche e sociali che l’Italia dell’Ottocento visse e man mano che la corrente dei macchiaioli andava definendosi e che queste collezioni andavano costituendosi.
    E’ necessario sottolineare che la mostra compie, quindi, una duplice operazione: quella di raccogliere in un unico luogo i massimi esponenti della pittura “a macchia”. E quella di ricostruire collezioni smembrate e disperse tra collezioni private e in parte raccolte dalla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.
    Casa Sforni, ad esempio, nei pressi di Piazza Savonarola a Firenze, fu uno degli indirizzi più esclusivi del collezionismo fiorentino a cavallo tra Ottocento e Novecento. Sin dal 1885 vi abitò una facoltosa famiglia originaria di Milano.

    Marcatura dei cavalli in Maremma - Giovanni Fattori

    Marcatura dei cavalli in Maremma – Giovanni Fattori

    Si è già detto che Ettore Sforni fu socio di maggioranza delle industrie di Giovan Battista Pirelli. Egli insieme alla moglie Rachele fece della sua casa una suntuosa dimora alto borghese che favorì le inclinazioni artistiche del loro secondogenito Gustavo, a sua volta pittore, collezionista, intellettuale, imprenditore, mecenate.
    Nel 1913 Gustavo Sforni pubblicò un lussuoso volume monografico dedicato a Giovanni Fattori, per i tipi di una casa editrice da lui stesso creata, la S.E. L.F. (Società Editrice Libraria Fiorentina), un ricordo ed un omaggio al grande pittore macchiaiolo da poco scomparso.
    La grande collezione d’arte di Casa Sforni, che comprendeva oltre le opere dei macchiaioli, alcune sculture di Rodin e di Medardo Rosso, i kakemoni e le sculture orientali, e ancora opere di Utrillo, di Degas, di Cézanne e di Van Gogh, andò dispersa dopo l’occupazione tedesca del 1943 ed oggi è testimoniata solo da alcune fotografie risalenti al 1920.
    In mostra si trovano opere oltre che di Giovanni Fattori e Federico Zandomenichi, anche di tutti gli artisti – Silvestro Lega, Giuseppe Abbati, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi, Telemaco

    L'appello dopo la carica - Giovanni Fattori

    L’appello dopo la carica – Giovanni Fattori

    Signorini, Giovanni Boldini, Cristiano Banti, Vito D’Ancona, Adriano Cecioni, Vincenzo Cabianca – provenienti da più parti d’Italia, che diedero vita alla così detta “pittura a macchia”, uno dei più importanti movimenti pittorici nell’Europa di metà Ottocento.
    La mostra è l’occasione per vedere anche opere che sono esposte in pubblico per la prima volta come “La pittrice” di Borrani e la luminosissima, splendida “Oliveta a Settignano” di Telemaco Signorini, artista di cui Edoardo Bruno raccolse almeno sette opere, a partire dal prezioso “Cimitero di Solferino” del 1859, molto rappresentativo delle prime ricerche formali dell’artista intorno alla “macchia”.

  3. La grande arte del Ducato di Parma: Correggio e Parmigianino

    La mostra in corso a Roma alle Scuderie del Quirinale è di grande importanza per una serie di motivi.

    Ritratto di giovane donna detta "schiava turca" - Parmigianino

    Ritratto di giovane donna detta “schiava turca” – Parmigianino

    Intanto per il numero di opere giunte dai più prestigiosi musei e gallerie d’arte italiane e straniere. In secondo luogo perché offre l’opportunità ai visitatori, soprattutto romani, di scoprire un’altra capitale dell’arte italiana: la Parma ducale del XVI secolo, fucina di artisti sublimi quali appunto Correggio e Parmigianino. E non solo.
    Affidata alla cura di David Ekserdjian, autore delle fondamentali monografie sull’uno e sull’altro, Correggio e Parmigianino, arte a Parma nel Cinquecento propone un centinaio di lavori, soprattutto dei due maestri ma anche dei loro seguaci: Michelangelo Anselmi, Francesco Maria Rondani, Giorgio Gandini del Grano e Girolamo Mazzola Bedoli. Insomma, la grande “scuola di Parma”. Intrasportabili alcune opere delicatissime (come l’Autoritratto nello specchio tondo di Parmigianino oggi a Vienna), l’esposizione organizzata dall’azienda speciale Palaexpo propone comunque un serrato confronto, sia stilistico sia tematico, tra l’arte di Antonio Allegri (1489-1534), il Correggio dal nome della sua città, e l’opera di Francesco Mazzola, Parmigianino essendo nato nel 1503 (morirà a soli 37 anni) proprio a Parma. La mostra, al secondo piano, offre peraltro uno spaccato importate sul disegno – la tecnica che proprio il Cinquecento elesse come arte autonoma -, restituendo su carta le imprese murali dei due emiliani: dagli affreschi del Correggio nella Camera di San Paolo (la lezione di Mantegna), in San Giovanni Evangelista (l’influsso di Michelangelo) e in Duomo (angeli e santi proto-barocchi). O i disegni più finiti e innovativi del più giovane collega: nello stesso San Giovanni e nei miti pagani della Rocca di Fontanellato.

    Noli me tangere - Correggio

    Noli me tangere – Correggio

    Proprio per dare conto della dimensione architettonica, extra cavalletto, dei due pittori, la mostra, coordinata da Matteo Lanfranconi, si apre con le colossali (sono alte 5 metri) portelle d’organo di Parmigianino per la Steccata. E subito dopo, prima sala, ecco la gioventù di Correggio sotto l’impronta di Mantegna (il Trionfo di San Benedetto Po ma anche il Riposo durante la fuga in Egitto degli Uffizi). Passata la saletta sul Parmigianino enfant prodige (le Nozze mistiche di Caterina a Bardi furono dipinte a 17 anni), ecco il faccia a faccia tra i due con i gesti esagerati ed enfatici del Saulo disarcionato sulla via di Damasco(da Vienna) di Parmigianino e la natura rigogliosa che incornicia l’intima apparizione divina nel Noli me tangere (dal Prado di Madrid) del Correggio.
    Molte altre le occasioni di confronto. E se nelle storie degli antichi spicca Correggio con la Danae Borghese e Venere, Mercurio e Cupido di Londra, la ritrattistica è tutta per Parmigianino: con la gelida, magnifica Antea (da Napoli) e l’ammiccante, conturbante dama in veste di Schiava turca in arrivo da Parma.
    Ma chi erano costoro? «L’arte di Antonio Allegri si abbandonava alla gioia della luce e del colore; vedeva le forme alleggerite e consunte dall’atmosfera, i contorni ondeggianti e labili, gli sfondi lontani e ariosi, amava le note calde, le carni bionde, i fogliami saturi d’oro; l’arte del Parmigianino, precisa invece e adamantina nei contorni, giunge dalle eleganze sfavillanti e capricciose di Fontanellato, preludio alle delizie ornamentali del Settecento, alle fredde eleganze dell’Impero nella Madonna dal collo lungo».

    Conversione di Saulo - Parmigianino

    Conversione di Saulo – Parmigianino

    Così, scriveva Adolfo Venturi, grande storico dell’arte italiano.
    Certo, Parma non poteva certo contare su una tradizione pittorica quattrocentesca paragonabile a quella ferrarese. Ma proprio a Parma la pittura emiliana cinquecentesca trova il centro più attivo, dapprima grazie a Filippo Mazzola e poi, soprattutto, con l’attività di Correggio e del Parmigianino.
    Il primo compie un lungo iter di formazione dapprima in ambito emiliano, poi a Mantova, presso l’anziano Mantegna, e infine, durante il secondo decennio del Cinquecento, alla ricerca di una libera interpretazione di Leonardo. Unendo a questi richiami la meditazione su Raffaello e sull’arte a Roma (nonostante Vasari abbia sempre negato che si sia mai recato nell’Urbe), il Correggio assume una posizione culturalmente autonoma, alla ricerca di una fluidità narrativa, mediata dallo sfumato leonardesco, dal perfetto dominio del virtuosismo prospettico e da un morbido senso del colore. La sua produzione è scandita da tre successivi cicli di affreschi: la Camera della Badessa nel convento di San Paolo, la decorazione della chiesa di San Giovanni Evangelista, l’Assunzione nella cupola del Duomo. Senza mai abbandonarsi alla raffinata artificiosità del nascente Manierismo, il Correggio si allontana decisamente dalle regole quattrocentesche, ponendo i presupposti per lo sviluppo della grande decorazione barocca. Accanto ai grandi affreschi, nel corso degli anni venti, l’artista dipinge importanti pale d’altare, esprimendo una sensibilità raffinata, attenta alla morbidezza del modellato come agli elementi compositivi.

    Madonna di San Zaccaria - Parmigianio

    Madonna di San Zaccaria – Parmigianio

    Esemplari, in tal senso, le due pale della Galleria nazionale di Parma: la Madonna di San Gerolamo e la Madonna della scodella. L’ambientazione notturna dell’Adorazione dei pastori di Dresda apre ulteriori sviluppi alla ricerca luministica dell’arte italiana, attraverso la riproposta effettuata dai Carracci nel tardo Cinquecento. Durante gli ultimi anni di vita il Correggio concepisce Giove e Antiope e subito dopo il ciclo di tele raffiguranti “gli amori di Giove” per Federico Gonzaga. Ne esegue quattro: Danae (Roma, Galleria Borghese), Leda (Berlino, Staatliche Museen), Io e Ganimede (Vienna, Kunsthistorisches Museum). Opere fondamentali nella storia della pittura mitologica e profana, in assoluto equilibrio tra sensuale resa naturalistica e trasfigurazione poetica.
    Molto diverso da quello del Correggio è il percorso dell’arte del Parmigianino. Allievo del Correggio, esordisce assai precocemente, mostrando, fin dall’inizio, spiccati interessi nel campo della grafica e per particolari effetti percettivi, testimoniati da una delle sue opere, l’Autoritratto entro uno specchio convesso. La passione per l’alchimia, esercitata dal Parmigianino per tutta la vita, è un’ulteriore riprova della ricerca di una “nuova natura”: in questa chiave, si comprendono meglio alcune scelte stilistiche del maestro. Dopo l’iniziale collaborazione con il Correggio in San Giovanni Evangelista (intorno al 1522), il Parmigianino trascorre un breve ma importante periodo nella piccola corte di Galeazzo Sanvitale a Fontanellato.

    Fuga in Egitto con San Francesco - Correggio

    Fuga in Egitto con San Francesco – Correggio

    In particolare sintonia con i gusti esoterici e alchemici del signore, dipinge il ritratto del Sanvitale (oggi nelle Gallerie di Capodimonte, a Napoli) e soprattutto affreschi che decorano la “stufetta”, il bagno personale della moglie del Sanvitale, con l’episodio di Diana e Atteone.
    In contrasto con il Correggio, il Parmigianino predilige forme levigate, affusolate, con un colore steso in modo compatto, quasi smaltato, come mostrano in particolare i non numerosi ritratti.
    Dall’Emilia, il Parmigianino si trasferiscs in Italia centrale dal 1524 e il 1531, a Roma e poi a Firenze, divenendo uno dei maggiori e più originali protagonisti della diffusione della “maniera”.

  4. Recensione

    Maometto e i cristiani: una storia inedita

    di Pina Baglioni

    Philip Khuri Hitti, cristiano maronita nato in Libano nel 1886 e morto nel 1978 negli Stati Uniti, è considerato uno dei più grandi orientalisti di tutti i tempi.

    Storia degli Arabi - Philip Khuri Hitti

    Storia degli Arabi – Philip Khuri Hitti

    Ha insegnato alla Columbia University e a Princeton, dove è stato anche presidente del dipartimento di lingue orientali.
    La casa editrice bolognese Odoya ha recentemente mandato alle stampe, in ottava edizione “Storia degli Arabi. Dall’antichità al Novecento”, la sua opera più nota. Si tratta di un imponente volume di oltre ottocento pagine, pubblicato per la prima volta nel 1937, frutto di dieci anni di lavoro, che ripercorre in maniera completa e documentata la storia degli arabi dalla fase nomade dell’era pre-islamica fino ai primi decenni del Novecento, caratterizzati dalla caduta dell’impero Ottomano.
    Culla dell’intera famiglia semitica, la penisola araba nutrì tutti quei popoli che man mano migrarono nella Mezzaluna fertile: i babilonesi, gli assiri, i fenici, gli ebrei. Popoli che, scrive Hitti «gettarono le basi del nostro patrimonio culturale… nel Medioevo nessun popolo contribuì al progresso umano quanto gli Arabi e i popoli di lingua araba».
    continua…