Negli anni Cinquanta del novecento Roma è una città in grande fermento. Nel bene e nel male. Ovunque si ricostruisce o si costruisce, Cinecittà è il luogo dove alcune fantasie possono prendere corpo, ci si può nuovamente confrontare, elaborare idee. Tutto sembra possibile.
Il peggio, la guerra, gli sventramenti sono alle spalle, la società italiana si avvia a quello che verrà chiamato il boom economico.
C’è una gran voglia di vita, sembra urgente raccontare e raccontarsi, confrontarsi ed anche litigare, mostrarsi al mondo. Alcuni dei luoghi della città divengono, più o meno a caso, quale punto d‘incontro da artisti ed intellettuali. Nasce ora, ad esempio, il mito di Via Veneto con i relativi paparazzi. Farsi vedere in Via Veneto, magari colti da uno scatto fotografico, vuol dire certamente la consacrazione alla notorietà. Via Veneto resta ancora oggi nell’immaginario comune, non solo italiano, come il luogo de La Bella Vita per eccellenza.
Ma quasi in contrapposizione con via Veneto c’è la zona di Piazza del Popolo a farla da maggiore. Qui tra i bar e i ristoranti a costo contenuto è possibile davvero incontrare una cospicua fetta del mondo intellettuale italiano, scrittori, poeti, pittori, scultori, impresari, critici d’arte che alla fine segneranno profondamente un’epoca.
Ciascun gruppo aveva il suo luogo preferito d’incontro, ma facilmente i gruppi sciamavano da un locale all’altro mescolandosi e confrontandosi variamente dando origine ad insolite associazioni.
Tra questi luoghi – incontro c’è il caffè Rosati in Piazza del Popolo, che diviene quasi un polo alternativo ai locali di Via Veneto. Frequentatori assidui del bar sono Pasolini, Moravia, Elsa Morante, Italo Calvino, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo, ma anche uomini politici come Sandro Pertini.
Ma la Piazza del Popolo e il caffè Rosati divengono, tra la fine degli anni cinquanta e gli inizi degli anni sessanta, luogo di ritrovo di giovani artisti, piuttosto squattrinati, che spesso abitavano nelle zone periferiche della città, come Cinecittà. Erano pittori e scultori, ma tra di loro anche poeti, che dopo essersi ritrovati in piazza si sedevano al caffè Rosati per discutere. Da qui le interminabili discussioni proseguivano alla galleria d’arte “La Tartaruga” fondata da Plinio de Martiis in Via del Babuino. Alla galleria, che era un punto di riferimento in città per tutto quello che atteneva l’arte contemporanea d’oltralpe e d’oltreoceano, i giovani artisti avevano l’occasione di confrontarsi con artisti stranieri e con critici d’arte. Successivamente (negli anni sessanta) anche la galleria si trasferì in Piazza del Popolo.
Per questa consuetudine di ritrovarsi in piazza del Popolo il gruppo di giovani pittori fu indicato con il nome di Scuola di Piazza del Popolo, usando una definizione sostanzialmente poco corretta. I giovani artisti Franco Angeli, Tano Festa, Mario Schifano, Renato Mambor, Sergio Lombardo e Giosetta Fioroni (unica donna del gruppo) non diedero mai vita infatti ad una scuola di pittura o di arte, ma ebbero, soprattutto nella fase iniziale, un confronto serrato su quello che potesse essere la pittura in un’Italia che si riprendeva dalla guerra si avviava verso il boom economico.
Un gruppo di artisti diversissimi, liquidati rapidamente come artisti pop, il pop si affermava contemporaneamente in America con Warhol e non solo, ma che con il pop americano avevano però poco a che fare.
Mancavano i riferimenti consumistici tipici della pop art (barattoli di zuppa o simili) da ripetere in maniera seriale, perché erano proprio gli italiani nelle loro case a consumare poco cibo in scatola e mancava il mercato a cui quella serialità era di fatto destinata.
Gli artisti italiani della Scuola di Piazza del Popolo si muovono a lungo, in una sorta di limbo che sta tra arte ed artigianato, creando dei pezzi unici che non hanno in quel momento alcun mercato, ma che non sono forse già più sperimentazione.
D’altra parte i giovani pittori hanno da misurarsi con tutto quello, e non è poco, che li ha preceduti: il liberty come per la Fioroni, il futurismo come per Mario Schifano, la metafisica, ma anche Michelangelo come per Tano Festa, il rinascimento come per Giosetta Fioroni.
Di tutto questo gli artisti, almeno alcuni sentiranno la necessità di fare tabula rasa, così molti di loro (Mambor, Tano Festa, Uncini, Schifano) produrranno le serie dei monocromi sperimentando la combinazione tra la pittura acrilica (a volte anche in bomboletta spray) e i supporti e rivelando come le superfici in questa interazione posso cambiare quasi dematerializzandosi.
D’altra parte i supporti sono i più disparati, la tela certo, ma anche lastre di metallo o cemento. Tutto può essere utilizzato, la lezione di Burri è stata compresa a pieno.
E quindi via all’arte povera di Ceroli alle foreste di plexiglas di Gino Marotta, ai lunghi bachi da seta fatti di scovolini per la polvere di Pino Pascali.
E dall’oggetto quotidiano alla vita quotidiana il passo in definitiva è breve: Ecco quini la serie di opere di Sergio Lombardo intitolate “Gesti Tipici”, che nascevano proprio da immagini prese dai quotidiani dell’epoca. Inizialmente Lombardo utilizzò solo immagini di personaggi famosi come De Gaulle, Kennedy o Mao Tse Tung, aiutandoli ad entrare nell’immaginario degli Italiani, ma successivamente anche i gesti quotidiani della gente comune fu oggetto della sua indagine.
L’esperienza dei “Gesti tipici” durerà solo pochi anni, dal 1961 al 1964. Inizialmente saranno opere in bianco e nero e successivamente a colori.
Qualsiasi materiale può essere quindi utilizzato per fare arte, poiché l’arte, come già ha mostrato Burri, è in qualche misura contenuta già dentro gli oggetti. Mimmo Rotella interpreta questo aspetto dedicando una gran parte della sua arte ai collage. Volti, situazioni frammenti della città prendono corpo dai brandelli dei manifesti che si ricompongono sulla tela.
L’altro protagonista è senza dubbio la città e i suoi simboli da comporre e da scomporre in un gioco di cubi come per Renato Mambor o nelle fotografie di Luca Maria Patella.
E come trascurare la guerra che più di tutte è forse il simbolo del novecento? La guerra del Vietnam e le armate americane che in Italia erano un passato recentissimo si affacciano nell’arte di questi autori che hanno un occhio partecipe alla realtà.
La visita alla mostra Roma Pop ’60 – ’67 è l’occasione per vedere raccolti in un unico luogo artisti alla fin fine diversissimi ma che hanno esplorato rimandandosi continuamente il testimone uno dei momenti più interessanti dell’arte italiana del novecento.