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  1. Racconto biografico

    Giuseppe Gioachino Belli e alcuni luoghi ed eventi nella sua Roma (2/4)

    di Maurizio Perfetti

    Maurizio Perfetti da anni si occupa di Gioacchino Belli. Ha scritto per Roma Felix un racconto biografico del poeta romanesco, che pubblicheremo in quattro parti, punteggiandolo con i sonetti e corredandolo di un’estesa e dettagliata bibliografia. La prima parte del racconto si trova qui.

    LA FORTUNA DEL MATRIMONIO CON MARIUCCIA. I PRIMI VIAGGI. CENCIA
    Liberali e reazionari, letterati, scienziati, ecclesiastici compongono la varia umanità che

    Maria Conti

    Maria Conti

    s’incontra nell’Accademia Tiberina e da qui avverrà una prima grande svolta positiva nella vita del nostro Poeta: l’incontro con la benestante Maria Conti, donna non bellissima, vedova maltrattata e tradita dal suo ex marito, lei già sui 35 anni (10 più di Gioachino), ma colta, sensibile e presto innamorata del nostro. Le biografie illustrano vari dettagli del rapporto tra i due, la ritrosia iniziale di lui, gli impacci di lei e gli ostacoli posti dalla sua famiglia che non ne vuole sapere di un nuovo matrimonio, stavolta con uno spiantato.
    Alla fine prevale la realtà: superati ostacoli e dubbi personali e sociali, ottenute le varie dispense all’epoca necessarie, Maria e Gioachino il 12.9.1816 finalmente si sposano, di sera, davanti a testimoni “compiacenti”, nella Chiesa di Santa Maria in Via. I desideri della donna si compiono e il neo marito se ne fa una ragione, anche perché le sostanze portate in dote dalla sposa sono consistenti, comprese le proprietà terriere a Cesi (Terni), la lussuosa residenza, ora coniugale, a Palazzo Poli mentre, per di più, con i buoni uffici della famiglia Conti, il neo-marito ottiene un nuovo e più remunerativo impiego. continua…

  2. La via alchemica degli Angeli

    Ponte sant’Angelo è il più significativo e il più bello dei ponti dell’Urbe.

    Ponte Sant'Angelo - Roma

    Ponte Sant’Angelo – Roma

    Carico di storie, leggende, miti e significati religiosi. Dall’avvento dell’era cristiana ha rappresentato il punto di congiunzione tra Roma e Pietro. Milioni di pellegrini provenienti da tutta Europa lo hanno attraversato salmodianti alla volta della basilica per riconciliarsi con Dio ai piedi della Tomba del primo papa. Soprattutto in occasione dei Giubilei.
    Oggi lo vediamo, con i suoi angeli meravigliosi, così come lo concepì Gian Lorenzo Bernini, il genio del barocco romano. Nel 1669, su incarico papa Clemente IX Rospigliosi, il grande artista progettò le dieci statue di angeli che fiancheggiano il ponte: di queste, otto furono realizzate dai suoi allievi e due dal Bernini stesso, successivamente trasferite, perché straordinariamente belle, nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte. Il percorso fu immaginato come una sorta di Via Crucis che conduce alla Resurrezione, attraverso pratiche di penitenza: i dieci angeli reggono gli strumenti della passione di Cristo.
    Un secolo dopo, nelle prigioni di Castel Sant’Angelo, un oscuro personaggio elaborò un percorso di elevazione dell’umana natura di tutt’altro segno e significato rispetto a quello che, per secoli, ponte e castello avevano rappresentato. Ad opera soprattutto di Giuseppe Balsamo, meglio conosciuto come Alessandro, conte di Cagliostro.

    Alessandro, conte di Cagliostro

    Alessandro, conte di Cagliostro

    Sostanzialmente un avventuriero, esoterista e alchimista siciliano che non fece altro che entrare e uscire dalle prigioni di mezza Europa. Nel dicembre del 1789 fu arrestato a Roma e condotto nelle carceri di Castel Sant’Angelo, dove attese per alcuni mesi l’inizio del processo. Al collegio giudicante egli apparve colpevole di eresia, massoneria e attività sediziose. l 7 aprile 1790 fu emessa la condanna a morte e fu indetta, nella pubblica piazza, la distruzione dei manoscritti e degli strumenti massonici. In seguito alla pubblica rinuncia ai principi della dottrina professata, Cagliostro ottenne la grazia: la condanna a morte venne commutata dal pontefice nel carcere a vita, da scontare nelle tetre prigioni dell’inaccessibile fortezza di San Leo allora considerato carcere di massima sicurezza dello Stato Pontificio. Fu in quei mesi di prigionia che Cagliostro elaborò la sua teoria sulla Grande Opera alchemica di ottenimento della pietra filosofale: la via alchemica si proponeva come una di quelle vie che portavano l’uomo al superamento della sua natura effimera e all’identificazione col divino. La realizzazione di questo fine costituisce la “Grande Opera”, con il quale il “fuoco segreto”, un’energia cosmica sconosciuta all’uomo nel suo stato ordinario, rende possibile la trasformazione dell’uomo e quella dei metalli.
    Accanto ai molteplici significati che ponte e castello, in perfetta simbiosi, hanno assunto attraverso i secoli, va ricordato che il ponte che conosciamo col nome “Sant’Angelo” fu costruito nel 134 dall’imperatore Andriano in funzione del suo mausoleo. Scaturito dalla mente dell’imperatore contemporaneamente alla propria tomba, esso nacque come una singolare strada semi privata che, dalla sponda sinistra del Tevere, immetteva direttamente nel grande portale d’accesso al mausoleo. In origine, dunque, fu un percorso riservato ai cortei funebri che avrebbero condotto là dentro una lunga serie di personaggi imperiali: da Adriano stesso (138) fino a Caracalla (217).

    Potaverunt me aceto - Antonio Giorgetti

    Potaverunt me aceto – Antonio Giorgetti

    Dal prenome di Adriano, il ponte fu chiamato Elio. Progettato dunque in funzione della grande tomba, nacque in stretta relazione strutturale e architettonica con quella. Adriano stesso, uomo di straordinaria capacità ed esperienze artistiche, collaborò alla stesura del progetto.
    Con l’inizio dell’era cristiana il ponte rappresentò il passaggio obbligato delle folle di pellegrini verso la tomba venerata dell’apostolo Pietro soprattutto in occasione del giubileo.
    La più famosa citazione, riferita al giubileo del 1300, è contenuta nella Divina Commedia:

    […] come i Roman per l’esercito molto,
    l’anno del giubileo, su per lo ponte
    hanno a passar la gente modo colto,
    che da l’un lato tutti hanno la fronte
    verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro,
    da l’altra sponda vanno verso ‘l monte […]
    (Inferno, canto XVIII, vv. 28-33)

    La vicenda più drammatica è costituita, invece, dalle numerose vittime provocate dal crollo delle spallette, nell’anno giubilare 1450, a causa del sovraffollamento derivato anche dalle piccole costruzioni commerciali che si erano insediate sul ponte.

    Mappa di Schedel 1493 in cui si vedono le due cappelle in testa al ponte Sant'Angelo

    Mappa di Schedel 1493 in cui si vedono le due cappelle in testa al ponte Sant’Angelo

    In memoria delle vittime Nicolò V fece costruire, alla testata del ponte verso la piazzetta, due piccole cappelle da cui settant’anni dopo dovevano trarre profitto i lanzichenecchi che sparavano contro il castello. Per questo, Clemente VII si affrettò a farle distruggere e le sostituì, nel 1535, con le statue degli apostoli Pietro e Paolo; Clemente IX Rospigliosi, nel 1669 collocò le dieci statue di angeli che recano i simboli della passione di Cristo.
    I tre archi centrali del ponte come oggi lo vediamo sono originari, mentre i due laterali furono costruiti nel 1892 per raccordare l’antica opera ai nuovi muraglioni. Vennero in tal modo sostituite le due minori arcate costruite nel 1668 in luogo delle antiche rampe originarie: queste erano sostenute da piccoli archi i quali ritornarono alla luce durante gli stessi lavori sul lungotevere.
    La sistemazione urbanistica di tutto il settore intermedio dell’antico Campo Marzio fu imperniata sul ponte Sant’Angelo. Alla sua testata sinistra furono fatti affluire tutti i principali assi viari che erano affiancati da solenni portici. L’urbanistica medievale naturalmente fu adeguata alla situazione, tanto più che il ponte fu l’unico (oltre ai ponti dell’Isola Tiberina) a non crollare. Per questo motivo anche la Via Recta che, in epoca classica arrivava al Ponte di Nerone si attestò su quello che doveva essere chiamato il “Canale di Ponte”.

    Castello e Ponte Sant'Angelo - Piranesi

    Castello e Ponte Sant’Angelo – Piranesi

    Scorrendo le storie, i miti e i simboli che si sono “depositati” lungo il ponte e, per osmosi naturale, su Castel Sant’Angelo, emerge quanto vita e morte risultino, in questa porzione di Roma, sempre inesorabilmente intrecciati. A partire dalle origini, quando il ponte introduceva gli imperatori passati a miglior vita all’interno della Mole di Adriano. E ancora, quando i pellegrini provenienti da tutta Europa, quindi “morti” spiritualmente perché in stato di peccato attraversavano il ponte in direzione della basilica di Pietro l’apostolo per riconciliarsi con Dio e quindi riacquistare la vita di grazia.
    Fino allo splendido racconto che ci fornisce la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine nel XIII secolo: nel 590 infuriava in una Roma assediata dai Longobardi un’epidemia di peste che aveva ucciso lo stesso papa Pelagio. Il nuovo pontefice Gregorio Magno ordinò una “litania settiforme”. E allora sette processioni che, partendo dalla chiesa principale delle sette regioni ecclesiastiche in cui era divisa la città, confluirono a Santa Maria Maggiore dove Gregorio esortò il popolo a seguirlo fino a San Pietro insieme con l’immagine acheoropirita della Madonna, la Salus populi romani custodita nella basilica liberiana. Mentre la processione passava sul ponte Elio, il papa vide sulla Mausoleo di Adriano l’arcangelo Michele che rinfoderava la spada nella guaina; era quello il segno che, per misericordia divina, la pestilenza era finita.

    San Michele Arcangelo - Raffaello da Montelupo

    San Michele Arcangelo – Raffaello da Montelupo

    Da quel momento la Mole di Adriano sarebbe stata chiamata Castel Sant’Angelo e il ponte, Ponte Sant’Angelo. Lo storico Cesare D’Onofrio, basandosi su documenti, ha ricostruito il probabile processo mentale che ha condotto all’elaborazione di questa leggenda. La litania settiforme divenne una consuetudine nel medioevo, ma il centro di raccolta non fu più Santa Maria Maggiore: era subentrata la basilica di San Pietro in Vaticano. Siccome i salmodianti dovevano necessariamente passare per il ponte Sant’Angelo e sotto la Mole Adriana (allora chiamata Castello di Crescenzio per via dei Crescenzi, la famiglia che ne era divenuta proprietaria) sulla cui cima vi era l’oratorio dedicato a San Michele, e forse una statua dell’Arcangelo, qualche fedele avrà cominciato a immaginare una scena miracolosa ricordandosi della celebre orazione che Gregorio Magno aveva pronunciato durante l’epidemia esortando i fedeli alla processione: «Il dolore ci convinca alla conversione, e la pena che stiamo soffrendo dissolva la durezza del cuore, come dice il profeta: “La spada è arrivata fino all’anima… Ecco tutto il popolo è trafitto dalla spada dell’ira celeste… sotto la spada di così grande avversità divina noi dobbiamo insistere con lamenti pressanti». La leggenda si radicò così profondamente che durante l’epidemia del 1348 si rifece la processione con l’immagine della Madonna della chiesa dell’Ara Coeli: «mentre si stava avvicinando al ponte di San Pietro (l’attuale Sant’Angelo), la statua marmorea dell’angelo sulla cima del Castello, mostrando riverenza a tale immagine, varie volte s’inchinò» narra un anonimo quattrocentesco. «Più di sessanta persone degne di fede, giurando sui sacramenti, affermavano di aver visto ciò con i propri occhi corporei, all’immagine gridando ad altissima voce misericordia». Dalla leggenda nacque la tradizione iconografica dell’angelo che rinfodera la spada.

    San Michele Arcangelo - Peter Anton von Verschaffelt

    San Michele Arcangelo – Peter Anton von Verschaffelt

    Dalla fine del tredicesimo secolo doveva esserci, sulla sommità del Mausoleo una scultura raffigurante l’arcangelo Michele con la sua spada. Non risalente ai tempi di Gregorio Magno ma a un periodo successivo alla formazione della leggenda. A quella scultura succedette verso la metà del Quattrocento un’altra che fu frantumata il 29 ottobre del 1497 dallo scoppio di una polveriera sistemata imprudentemente nell’ex cappella e colpita da un fulmine durante il temporale. Quale fosse l’atteggiamento dell’angelo in quelle prime sculture non sappiamo. Conosciamo la statua di Raffaello di Montelupo che venne innalzata nel 1544 e rimossa due secoli dopo, nel 1747, per essere sostituita dall’attuale, realizzata da Peter Verschaffelt. Nelle giornate di forte vento le ali spiegate dell’arcangelo Michele, ondeggiano dolcemente a significare la sua invisibile presenza tra le nubi di Roma, inter nubes.

  3. Tra Rinascimento e Barocco: Santa Maria della Pace e il Chiostro del Bramante.

    La bellissima chiesa di Santa Maria della Pace e il suggestivo ambiente che la circonda – caratterizzato dal delizioso portichetto che sta sulla fronte del tempio come variazione degli altri protiri – presero origine da un’iniziativa di richiamo politico – religioso assunta da Sisto IV nel 1482, in un momento di gravi preoccupazioni per la pace in un’Italia scossa dalla fiorentina congiura dei Pazzi, il complotto organizzato nel 1478 dalla famiglia omonima per togliere ai Medici il predominio di Firenze.

    Santa Maria della Pace

    Santa Maria della Pace

    L’uccisione di Giuliano e il ferimento di Lorenzo de’ Medici non ebbero altro risultato che un rafforzamento del potere mediceo e lo scoppio della guerra tra Firenze e papa Sisto IV, il più importante alleato della famiglia Pazzi. Dopo mesi di estenuanti trattative e ingenti esborsi di denaro, Lorenzo riuscì ad ottenere dal re di Napoli, alleato della Chiesa, il ritiro del conflitto. Nel marzo del 1482, Lorenzo il Magnifico rientrò a Firenze forte del suo successo politico, stringendo il controllo del governo fiorentino nelle sue mani.
    Sul luogo del bellissimo tempio sorgeva un’antica chiesa citata nei documenti medievali, detta degli “acquarellari” (dal nome dei venditori di acqua del Tevere o delle fonti). L’immagine della Madonna che in questa chiesa era venerata sotto il titolo della “Virtù”, sacrilegamente colpita da una sassata, aveva versato sangue. Il papa, accorso, l’aveva chiamata “Madonna della Pace” e aveva fatto voto di erigere un tempio per propiziare la pace nella penisola.
    Pare che il progetto fosse di Baccio Pontelli, almeno per la prima parte consistente in un’aula rettangolare anteriore, mentre per la seconda parte – l’ottagono posteriore sormontato da una cupola – si pensa a Donato Bramante, autore anche dell’attiguo convento. La cupola è del 1520. Ma è solamente con Alessandro VII, passata la metà del seicento, che il complesso ebbe la sua forma definitiva con l’intervento di Pietro da Cortona. Questi armonizzò le parti interne e diede una unitaria sistemazione alla facciata e alla piazzetta antistante. Linee curve, concave e convesse, timpani spezzati e colonne si offrono scenograficamente al gioco delle luci, facendo di questo piccolo luogo uno dei più tipici e armoniosi del barocco romano.
    Un’iscrizione posta nella piazzetta, sulla sinistra della chiesa, illustra l’intera operazione urbanistica e stabilisce il divieto di apportare modifiche.

    Le Sibille - Raffaello

    Le Sibille – Raffaello

    All’interno, alla cui decorazione hanno contribuito artisti quali Antonio da Sangallo il Giovane (Cappella Cesi) e il Maderno (altare maggiore e coro) si distingue soprattutto la cappella costruita da Raffaello per il banchiere senese Agostino Chigi, nella quale sono dipinte le Sibille di mano stessa dell’artista, che rivela qui un certo influsso michelangiolesco e i Profeti, eseguiti dal suo allievo Timoteo Viti.
    Tra il 1511 e il 1513, Raffaello, infatti, aveva ricevuto una lunga serie di commissioni dal Chigi. Dopo aver richiesto all’artista un grande mausoleo di famiglia nella basilica di Santa Maria del Popolo (Cappella Chigi), nel 1514 gli commissionò i due grandi affreschi per decorare la cappella di Santa Maria della Pace. Raffaello avrebbe dovuto rappresentare i più grandi esempi di virtù e sapienza del passato, nonché i primi conoscitori dell’arrivo del Messia: le Sibille e i Profeti.

    I Profeti - Raffaello

    I Profeti – Raffaello

    In quello stesso anno, l’artista, sebbene ancora impegnato nei lavori per le Stanze Vaticane si mise all’opera sul soggetto. Delle sibille restano vari studi preparatori, soprattutto al British e all’Asholean Museum.
    In via dell’Arco della Pace – caratterizzata da una bella casetta medievale restaurata e da un’altra casa con un portale cinquecentesco – si apre quello che un tempo fu l’edificio conventuale di Santa Maria della Pace, accentrato attorno all’eccezionale chiostro realizzato da Bramante tra il 1500 e il 1504 per incarico del cardinale Oliviero Carafa. Rappresenta una delle opere più importanti del Rinascimento cinquecentesco e fu tra le prime opere romane progettate da Bramante dopo il periodo milanese. Grazie al capolavoro bramantesco l’architettura romana del rinascimento fa un salto di qualità. Inserito nella clientela pontificia da papa Borgia, Bramante si guadagna la fiducia di Giulio II della Rovere nel rilanciare la renovatio intrapresa dallo zio Sisto IV, venendo preferito al più antiquato Giuliano da Sangallo. Così Bramante diventa progettista dei più ambiziosi cantieri del tempo: il risanamento del malfamato quartiere ora solcato da via Giulia, su cui imposta il nuovo tribunale, il sontuoso cortile del Belvedere in Vaticano e la nuova basilica di San Pietro, a contenere la vecchia chiesa paleocristiana prima del suo graduale abbattimento. I termini del nuovo corso architettonico sono già chiari nel primo capolavoro romano: il chiostro della chiesa di Santa Maria della Pace.

    Chiostro di Santa Maria della Pace

    Chiostro di Santa Maria della Pace

    Lo studio diretto dei resti antichi induce Bramante a rinunciare alla ricchezza decorativa e agli effetti illusionistici del periodo lombardo, ancora presenti nel coro di Santa Maria del Popolo, per attenersi ad un’asciutta solennità che risponde ad un’idea suprema di regolarità e necessità.
    L’armonia di linee del portico a pilastri con lesene e della sovrapposta loggia a pilastri e colonne, unita all’atmosfera serena, fa di questo luogo un angolo di straordinaria bellezza. Il convento, destinato inizialmente ai canonici lateranensi, passò con Pio VII ai domenicani, poi al clero regolare.
    Oggi il complesso è un centro culturale internazionale e accoglie mostre e eventi culturali.
    L’indirizzo della “Pace” era celebre nel commercio delle stampe. Ancora all’inizio del settecento vi operava la Calcografia De Rossi, uno dei rami della celebre impresa familiare cui si debbono tante incisioni dei maggiori artisti che illustrarono la città nei secoli XVII e XVIII. Nel 1738 essa venne rilevata da papa Clemente XII Corsini.

     

  4. Passeggiando per l’Appia Antica. Da Porta San Sebastiano alla Chiesa di San Nicola.

    Dopo aver visitato il IV e V miglio e la Villa dei Quintili, l’oggetto di questa nuova passeggiata è il primo tratto del Parco dell’Appia Antica: quello che si estende da Porta San Sebastiano alla Chiesa di San Nicola.

    Porta San Sebastiano e la via Appia

    Porta San Sebastiano e la via Appia

    Un’altra porzione di bellezza assoluta che, nella sua interezza, copre oltre sei chilometri, raggiungendo alla fine anche il Grande Raccordo Anulare.
    Il Parco, completamente restaurato, è stato riportato, da alcuni anni, alla sua natura originale. Conserva per ampi tratti l’originale basolato, ai lati sono stati ricostruiti i marciapiedi romani (crepidini) e i muretti che definivano i limiti (macere); lungo il percorso si trovano importanti resti di monumenti funebri, torri e lapidi ombreggiati da grandi pini e cipressi secolari.
    Si parte da Porta San Sebastiano e prosegue verso i Sepolcri di Geta e Priscilla, la Chiesa “Domine, quo vadis?”, i Colombari dei Liberti di Augusto, l’Ipogeo di Vibia, le Catacombe di San Callisto, la Chiesa di san Sebastiano, la Villa di Massenzio, il Mausoleo di Cecilia Metella, il Castrum Caetani e la Chiesa di San Nicola.
    Ecco, allora, Porta San Sebastiano: il nome originario, che conservò a lungo, era Porta Appia perché da lì passava la Via Appia, la regina viarum, che cominciava poco più indietro, dalla Porta Capena delle Mura Serviane. Nel medioevo sembra fosse chiamata anche “Accia” (o “Dazza” o “Datia”), la cui etimologia, alquanto incerta, sembra però legata al fatto che lì vicino scorresse il fiumicello Almone, chiamato “acqua Accia”. Un documento del 1434 la menziona come “Porta Domine quo vadis”. Solo dopo la metà del XV secolo è finalmente attestato il nome che conserva ancora oggi, dovuto alla vicinanza alla basilica e alle catacombe di San Sebastiano. Le torri della porta ospitano, oggi, il Museo delle Mura.

    Sepolcro di Geta

    Sepolcro di Geta

    Oltrepassato il cavalcavia ferroviario, posto prima della Chiesa del “Domine, quo vadis?”, si erge un alto monumento funerario di epoca romana, non visitabile perché di proprietà privata. Il sepolcro è tradizionalmente attribuito a Geta, il figlio di Settimio Severo ucciso da Caracalla nel 212. Lo storico latino Sparziano, infatti, dichiara che la tomba del giovane imperatore si trovava in questa zona, sulla destra della Via Appia per chi tornava a Roma. Nel Medioevo, una piccola casa fu costruita in cima al mausoleo, del quale rimane solo il nucleo cementizio spogliato dell’originario rivestimento in blocchi di marmo.
    A seguire, il sepolcro di Priscilla: i ruderi del monumento sono celati tra due casali moderni, uno, prospiciente la via Appia, era già conosciuto dal Canina come “Osteria dell’Acquataccio”, l’altro nasconde l’antico ingresso al sepolcro. Di fronte alla chiesa del “Domine quo vadis”, presso il bivio tra la via Appia antica e la via Ardeatina, parzialmente nascosto da due edifici che insistono sulle sue strutture, sorge un antico sepolcro romano, del tipo a tumulo su basamento quadrangolare, comunemente identificato, sulla base di rinvenimenti epigrafici, con quello che T. Flavio Abascanto, liberto di Domiziano. Nelle vicinanze del fiume Almone, il liberto possedeva dei terreni ed un edificio termale poi trasformato in sepolcro per la moglie Priscilla prematuramente scomparsa. La giovane donna, come ricorda il poeta Stazio, fu imbalsamata e non cremata secondo l’uso funerario dell’epoca. L’interno del sepolcro è stato fatto oggetto di vari interventi edilizi: fino a pochi decenni or sono i locali venivano usati per la stagionatura dei formaggi e le strutture lignee funzionali a tale uso, si addossano ancora oggi alle strutture murarie. Dopo i sepolcri di Geta e di Priscilla si erge la piccola chiesa del “Domine, quo vadis?”. Sul luogo della chiesa, secondo la tradizione, Gesù sarebbe apparso a Pietro, l’apostolo che lasciava Roma per sfuggire al martirio. Alla domanda di Pietro: «Signore, dove vai?», Gesù avrebbe risposto: «Vado a Roma per farmi nuovamente crocifiggere». A quel punto, Pietro pentito avrebbe rifatto ritorno a Roma, andando incontro al suo martirio e facendosi crocifiggere sul colle Vaticano. La chiesa risale al secolo IX, riedificata nel XVI e poi di nuovo nel XVII secolo, quando il cardinale Francesco Barberini ne fece rifare la facciata. La chiesa è detta anche in palmis poiché in essa è conservata, in copia, una pietra votiva con le due orme dei piedi, credute di Cristo.
    Da “Domine, quo vadis?” ci si porta ai Colombari dei Liberti di Augusto, ormai inglobati all’interno del ristorante Hostaria Antica Roma. La loro struttura è composta da tre grandi ambienti, in origine coperti a volta, le cui pareti ospitano le nicchie che contenevano le olle (i vasi con le ceneri). Un quarto ambiente, sopra quello centrale, era utilizzato invece per i riti funebri.

    Colombari dei Liberti di Augusto

    Colombari dei Liberti di Augusto

    I colombari pare ospitassero circa tremila loculi, questo fa di essi uno dei più grandi sepolcreti della zona, e sono tantissime le iscrizioni funerarie ritrovate, tra le quali quella di tale Caesaris Lusor descritto come mutus argutus imitator, in pratica un…mimo.
    Dopo i Colombari, l’itinerario conduce all’Ipogeo di Vibia, un cimitero sotterraneo pagano, situato all’interno della seicentesca Villa Casali, sul lato sinistro della via Appia Antica. Esso è costituito da otto distinti ipogei scavati a quote differenti, databile tra il III e gli inizi del V secolo d.C, che prende il suo nome da Vibia che qui vi era sepolta insieme al marito Vincenzo.
    Procedendo ancora, il tratto dell’Appia Antica mostra i suoi complessi più imponenti e conosciuti. Vale a dire le Catacombe di San Callisto, la Chiesa di San Sebastiano, la Villa di Massenzio, il Mausoleo di Cecilia Metella, il Castrum Caetani e la Chiesa di San Nicola.
    Le catacombe di San Callisto sorsero verso la metà del secondo secolo e sono tra le più grandi e importanti di Roma. Si trovano sulla Via Appia Antica. In esse trovarono sepoltura decine di martiri cristiani, tra cui 16 pontefici. Prendono nome dal diacono Callisto, che, all’inizio del III secolo, fu preposto da Papa Zefirino all’amministrazione del cimitero. Fu così che il luogo divenne il cimitero ufficiale della Chiesa di Roma. Vi furono probabilmente sepolti lo stesso papa Zefirino, divenuto successivamente santo, e il giovane martire dell’Eucarestia, Tarcisio, anche egli divenuto santo. Il cimitero sotterraneo consta di diverse aree. Le Cripte di Lucina e la regione detta dei papi e di Santa Cecilia sono i nuclei più antichi.
    Al terzo miglio, sul luogo dove secondo la tradizione furono temporaneamente custoditi, in tempo di persecuzioni, i corpi degli apostoli Pietro e Paolo, sorge la basilica di San Sebastiano, oggi dedicata a questo popolare – e assai rappresentato – santo narbonese ma in origine nota come basilica apostolorum.

    Basilica di San Sebastiano fuori le Mira - Soffitto a cassettoni (particolare)

    Basilica di San Sebastiano fuori le Mira – Soffitto a cassettoni (particolare)

    Da questo luogo, citato nelle fonti antiche come ad catacumbas (forse per la presenza di avvallamenti o fosse, kymbas in greco), deriverebbe per estensione anche il termine “catacomba”. In effetti la basilica costituisce tuttora il fulcro della più ampia e conosciuta area di cimiteri paleocristiani di Roma. Nella prima metà del IV secolo ebbe inizio la costruzione della chiesa, a navata centrale racchiusa da un deambulatorio, con ricche decorazioni e pavimento completamente lastricato di tombe. Nel V secolo la basilica è già sicuramente intitolata a San Sebastiano ma nell’826, per il fondato timore d’incursioni saracene, il corpo del santo fu rimosso e traslato in San Pietro dove rimase fino al 1218, quando Onorio III Savelli (1216-1227) lo ricondusse solennemente nella chiesa a lui dedicata. La basilica mostra oggi l’aspetto che le deriva dagli interventi promossi agli inizi del XVII secolo dal cardinale Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V (1605-1621). Iniziati nel 1608, i lavori furono affidati a Flaminio Ponzio e proseguiti da Giovanni Vasanzio, autore della facciata terminata nel 1613. Al pontificato di Clemente XI Albani (1700-1721) si deve la costruzione del sacello del SS. Sacramento (o Cappella Albani). La facciata è scandita dalle colonne ioniche binate del portico, a tre archi, cui corrispondono le paraste dell’ordine superiore. Nell’interno, a navata unica, si segnala il soffitto ligneo del Vasanzio con stemmi del cardinale Borghese e di Gregorio XVI Cappellari (1831-1846), che nel XIX secolo promosse il restauro dell’edificio. Nella Cappella delle reliquie (1625) si conservano le impronte ritenute dei piedi di Cristo al momento del “Domine quo vadis?”, una delle frecce che colpirono San Sebastiano e la colonna del martirio di quest’ultimo. La Cappella Albani (1706-1712), a pianta quadrata con abside e cupola, si presenta in ricche forme barocche ed è decorata con opere di Pier Leone Ghezzi e Giuseppe Passeri. Nella Cappella di San Sebastiano, progettata da Ciro Ferri nel 1672, si segnala, sotto l’altare, la statua giacente di San Sebastiano, capolavoro di Antonio Giorgetti (1671-1672) su disegno di Gian Lorenzo Bernini.

    San Sebastiano - Antonio Giorgetti

    San Sebastiano – Antonio Giorgetti

    Da una scala situata in quella che, prima della ristrutturazione seicentesca, era la navata destra della chiesa si può scendere al vasto complesso delle catacombe di San Sebastiano.
    Dai martiri cristiani si torna ai luoghi e ai personaggi della Roma Classica: il complesso massenziano, una delle aree archeologiche più suggestive della campagna romana è costituito da tre edifici principali: il palazzo, il circo ed un mausoleo dinastico, progettati in una inscindibile unità architettonica per celebrare l’imperatore Massenzio, lo sfortunato avversario di Costantino il Grande nella battaglia di Ponte Milvio del 312 d.C.
    Lo schema del circo abbinato al palazzo imperiale, già noto in altre residenze tetrarchiche, è qui arricchito dalla presenza di un mausoleo dinastico, più noto come Tomba di Romolo (figlio di Massenzio, morto giovanissimo), che diventa il nucleo centrale dell’intero complesso. I tre edifici sono stati costruiti assecondando, molto saggiamente, la naturale orografia del territorio al fine di evitare al massimo grossi lavori di sbancamento e colmatura e di sfruttarne le caratteristiche: così il palazzo venne edificato sui resti delle costruzioni precedenti ed il circo nell’avvallamento che dall’Appia Antica risale gradualmente verso l’attuale via Appia Pignatelli. Si può ragionevolmente supporre che l’area, già parte integrante del Triopio (promontorio) di Erode Attico, fosse stata inglobata come altre zone del suburbio nel demanio imperiale. Con la sconfitta di Massenzio e il successivo promulgamento della pace religiosa, è verosimile che le costruzioni massenziane da Costantino passassero alla Chiesa di Roma e che quindi, almeno a partire dal VI secolo facessero parte del Patrimonium Appiae.
    Per secoli le informazioni sull’area risultano sempre più lacunose ed i monumenti sempre più suddivisi tra proprietari diversi; nell’Ottocento l’area del circo e successivamente quella del mausoleo, vennero acquisite dai Torlonia duchi di Bracciano e nell’ambito di questa amministrazione, venne annessa alla più vasta tenuta della Caffarella.
    La passeggiata giunge, subito dopo, al Mausoleo di Cecilia Metella, il monumento simbolo della via Appia Antica, noto e riprodotto fin dal Rinascimento al pari dei più celebri monumenti di Roma e oggetto di particolare attenzione da parte di archeologi, architetti, disegnatori e vedutisti.
    La tomba è stata costruita negli anni 30-20 a.C. in posizione dominante rispetto alla strada, proprio nel punto in cui si è arrestata la colata di lava leucititica risalente a circa 260.00 anni fa, espulsa dal complesso vulcanico dei Colli Albani.
    Si tratta di una tomba monumentale eretta per una nobildonna romana di cui si conoscono, grazie all’iscrizione ancora conservata, soltanto alcuni suoi gradi di parentela. Il padre era Quinto Cecilio Metello, console nel 69 a.C. e che tra il 68 e il 65 conquistò l’isola di Creta da cui gli derivò l’appellativo Cretico; il marito era, con ogni probabilità, Marco Licinio Crasso distintosi al seguito di Cesare nella spedizione in Gallia e figlio del celebre Crasso, membro del primo triumvirato insieme a Cesare e Pompeo.

    Tomba di Cecilia Metella - Giovan Battista Piranesi

    Tomba di Cecilia Metella – Giovan Battista Piranesi

    L’imponente tomba va pertanto interpretata sia come omaggio alla defunta che come una forma di celebrazione delle glorie, delle ricchezze e del prestigio della famiglia committente.
    La sommità del mausoleo si presenta oggi coronata da una sopraelevazione in muratura di blocchetti di peperino che conserva una merlatura di tipo ghibellino relativa alle modificazioni edilizie realizzate dalla famiglia Caetani per trasformare il sepolcro nel torrione principale del loro castello, inserito nel più ampio castrum Caetani.
    Nel 1299 il mausoleo di Cecilia Metella fu dato da papa Bonifacio VIII alla sua famiglia – i Caetani – che vi fece costruire il castello circondato da mura e torri merlate, i cui resti sono ancora visibili addossati al mausoleo. Sul lato opposto della via Appia vi sono i resti di San Nicola a Capo di Bove, un’antica chiesa di architettura ogivale, spoglia però del tutto dei suoi ornamenti e priva di tetto. Il nome a capo di bove sembra derivare dal nome con cui nel medioevo erano chiamati i fregi a forma di testa di bue che ornavano parte del mausoleo. In base alle testimonianze di Tommaso da Celano la chiesa fu costruita, all’interno del cortile del castello dei Caetani, all’inizio del XVI secolo dall’architetto napoletano Masuccio II, già al servizio degli angioini.

    San Nicola a Capo Bove

    San Nicola a Capo Bove

    L’Armellini riporta la seguente nota, tratta dagli Archivi vaticani, relativi alla costruzione della chiesa: Franciscus card. S. Mariae in Cosmedin in loco qui dicitur Caput Bovis construxit castrum cum ecclesia in honorem b. Nicolai in dioecesi Albanensi cui Bonifacius VIII concessit iura parochialia et patronatum sibi et suis successoribus.
    La chiesa è importante perché si tratta di uno dei rari esempi di gotico sacro in Roma. L’interno si presenta completamente spoglio, con un’abside sporgente e, come detto, senza copertura.