Dopo aver visitato il IV e V miglio e la Villa dei Quintili, l’oggetto di questa nuova passeggiata è il primo tratto del Parco dell’Appia Antica: quello che si estende da Porta San Sebastiano alla Chiesa di San Nicola.
Porta San Sebastiano e la via Appia
Un’altra porzione di bellezza assoluta che, nella sua interezza, copre oltre sei chilometri, raggiungendo alla fine anche il Grande Raccordo Anulare.
Il Parco, completamente restaurato, è stato riportato, da alcuni anni, alla sua natura originale. Conserva per ampi tratti l’originale basolato, ai lati sono stati ricostruiti i marciapiedi romani (crepidini) e i muretti che definivano i limiti (macere); lungo il percorso si trovano importanti resti di monumenti funebri, torri e lapidi ombreggiati da grandi pini e cipressi secolari.
Si parte da Porta San Sebastiano e prosegue verso i Sepolcri di Geta e Priscilla, la Chiesa “Domine, quo vadis?”, i Colombari dei Liberti di Augusto, l’Ipogeo di Vibia, le Catacombe di San Callisto, la Chiesa di san Sebastiano, la Villa di Massenzio, il Mausoleo di Cecilia Metella, il Castrum Caetani e la Chiesa di San Nicola.
Ecco, allora, Porta San Sebastiano: il nome originario, che conservò a lungo, era Porta Appia perché da lì passava la Via Appia, la regina viarum, che cominciava poco più indietro, dalla Porta Capena delle Mura Serviane. Nel medioevo sembra fosse chiamata anche “Accia” (o “Dazza” o “Datia”), la cui etimologia, alquanto incerta, sembra però legata al fatto che lì vicino scorresse il fiumicello Almone, chiamato “acqua Accia”. Un documento del 1434 la menziona come “Porta Domine quo vadis”. Solo dopo la metà del XV secolo è finalmente attestato il nome che conserva ancora oggi, dovuto alla vicinanza alla basilica e alle catacombe di San Sebastiano. Le torri della porta ospitano, oggi, il Museo delle Mura.
Sepolcro di Geta
Oltrepassato il cavalcavia ferroviario, posto prima della Chiesa del “Domine, quo vadis?”, si erge un alto monumento funerario di epoca romana, non visitabile perché di proprietà privata. Il sepolcro è tradizionalmente attribuito a Geta, il figlio di Settimio Severo ucciso da Caracalla nel 212. Lo storico latino Sparziano, infatti, dichiara che la tomba del giovane imperatore si trovava in questa zona, sulla destra della Via Appia per chi tornava a Roma. Nel Medioevo, una piccola casa fu costruita in cima al mausoleo, del quale rimane solo il nucleo cementizio spogliato dell’originario rivestimento in blocchi di marmo.
A seguire, il sepolcro di Priscilla: i ruderi del monumento sono celati tra due casali moderni, uno, prospiciente la via Appia, era già conosciuto dal Canina come “Osteria dell’Acquataccio”, l’altro nasconde l’antico ingresso al sepolcro. Di fronte alla chiesa del “Domine quo vadis”, presso il bivio tra la via Appia antica e la via Ardeatina, parzialmente nascosto da due edifici che insistono sulle sue strutture, sorge un antico sepolcro romano, del tipo a tumulo su basamento quadrangolare, comunemente identificato, sulla base di rinvenimenti epigrafici, con quello che T. Flavio Abascanto, liberto di Domiziano. Nelle vicinanze del fiume Almone, il liberto possedeva dei terreni ed un edificio termale poi trasformato in sepolcro per la moglie Priscilla prematuramente scomparsa. La giovane donna, come ricorda il poeta Stazio, fu imbalsamata e non cremata secondo l’uso funerario dell’epoca. L’interno del sepolcro è stato fatto oggetto di vari interventi edilizi: fino a pochi decenni or sono i locali venivano usati per la stagionatura dei formaggi e le strutture lignee funzionali a tale uso, si addossano ancora oggi alle strutture murarie. Dopo i sepolcri di Geta e di Priscilla si erge la piccola chiesa del “Domine, quo vadis?”. Sul luogo della chiesa, secondo la tradizione, Gesù sarebbe apparso a Pietro, l’apostolo che lasciava Roma per sfuggire al martirio. Alla domanda di Pietro: «Signore, dove vai?», Gesù avrebbe risposto: «Vado a Roma per farmi nuovamente crocifiggere». A quel punto, Pietro pentito avrebbe rifatto ritorno a Roma, andando incontro al suo martirio e facendosi crocifiggere sul colle Vaticano. La chiesa risale al secolo IX, riedificata nel XVI e poi di nuovo nel XVII secolo, quando il cardinale Francesco Barberini ne fece rifare la facciata. La chiesa è detta anche in palmis poiché in essa è conservata, in copia, una pietra votiva con le due orme dei piedi, credute di Cristo.
Da “Domine, quo vadis?” ci si porta ai Colombari dei Liberti di Augusto, ormai inglobati all’interno del ristorante Hostaria Antica Roma. La loro struttura è composta da tre grandi ambienti, in origine coperti a volta, le cui pareti ospitano le nicchie che contenevano le olle (i vasi con le ceneri). Un quarto ambiente, sopra quello centrale, era utilizzato invece per i riti funebri.
Colombari dei Liberti di Augusto
I colombari pare ospitassero circa tremila loculi, questo fa di essi uno dei più grandi sepolcreti della zona, e sono tantissime le iscrizioni funerarie ritrovate, tra le quali quella di tale Caesaris Lusor descritto come mutus argutus imitator, in pratica un…mimo.
Dopo i Colombari, l’itinerario conduce all’Ipogeo di Vibia, un cimitero sotterraneo pagano, situato all’interno della seicentesca Villa Casali, sul lato sinistro della via Appia Antica. Esso è costituito da otto distinti ipogei scavati a quote differenti, databile tra il III e gli inizi del V secolo d.C, che prende il suo nome da Vibia che qui vi era sepolta insieme al marito Vincenzo.
Procedendo ancora, il tratto dell’Appia Antica mostra i suoi complessi più imponenti e conosciuti. Vale a dire le Catacombe di San Callisto, la Chiesa di San Sebastiano, la Villa di Massenzio, il Mausoleo di Cecilia Metella, il Castrum Caetani e la Chiesa di San Nicola.
Le catacombe di San Callisto sorsero verso la metà del secondo secolo e sono tra le più grandi e importanti di Roma. Si trovano sulla Via Appia Antica. In esse trovarono sepoltura decine di martiri cristiani, tra cui 16 pontefici. Prendono nome dal diacono Callisto, che, all’inizio del III secolo, fu preposto da Papa Zefirino all’amministrazione del cimitero. Fu così che il luogo divenne il cimitero ufficiale della Chiesa di Roma. Vi furono probabilmente sepolti lo stesso papa Zefirino, divenuto successivamente santo, e il giovane martire dell’Eucarestia, Tarcisio, anche egli divenuto santo. Il cimitero sotterraneo consta di diverse aree. Le Cripte di Lucina e la regione detta dei papi e di Santa Cecilia sono i nuclei più antichi.
Al terzo miglio, sul luogo dove secondo la tradizione furono temporaneamente custoditi, in tempo di persecuzioni, i corpi degli apostoli Pietro e Paolo, sorge la basilica di San Sebastiano, oggi dedicata a questo popolare – e assai rappresentato – santo narbonese ma in origine nota come basilica apostolorum.
Basilica di San Sebastiano fuori le Mira – Soffitto a cassettoni (particolare)
Da questo luogo, citato nelle fonti antiche come ad catacumbas (forse per la presenza di avvallamenti o fosse, kymbas in greco), deriverebbe per estensione anche il termine “catacomba”. In effetti la basilica costituisce tuttora il fulcro della più ampia e conosciuta area di cimiteri paleocristiani di Roma. Nella prima metà del IV secolo ebbe inizio la costruzione della chiesa, a navata centrale racchiusa da un deambulatorio, con ricche decorazioni e pavimento completamente lastricato di tombe. Nel V secolo la basilica è già sicuramente intitolata a San Sebastiano ma nell’826, per il fondato timore d’incursioni saracene, il corpo del santo fu rimosso e traslato in San Pietro dove rimase fino al 1218, quando Onorio III Savelli (1216-1227) lo ricondusse solennemente nella chiesa a lui dedicata. La basilica mostra oggi l’aspetto che le deriva dagli interventi promossi agli inizi del XVII secolo dal cardinale Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V (1605-1621). Iniziati nel 1608, i lavori furono affidati a Flaminio Ponzio e proseguiti da Giovanni Vasanzio, autore della facciata terminata nel 1613. Al pontificato di Clemente XI Albani (1700-1721) si deve la costruzione del sacello del SS. Sacramento (o Cappella Albani). La facciata è scandita dalle colonne ioniche binate del portico, a tre archi, cui corrispondono le paraste dell’ordine superiore. Nell’interno, a navata unica, si segnala il soffitto ligneo del Vasanzio con stemmi del cardinale Borghese e di Gregorio XVI Cappellari (1831-1846), che nel XIX secolo promosse il restauro dell’edificio. Nella Cappella delle reliquie (1625) si conservano le impronte ritenute dei piedi di Cristo al momento del “Domine quo vadis?”, una delle frecce che colpirono San Sebastiano e la colonna del martirio di quest’ultimo. La Cappella Albani (1706-1712), a pianta quadrata con abside e cupola, si presenta in ricche forme barocche ed è decorata con opere di Pier Leone Ghezzi e Giuseppe Passeri. Nella Cappella di San Sebastiano, progettata da Ciro Ferri nel 1672, si segnala, sotto l’altare, la statua giacente di San Sebastiano, capolavoro di Antonio Giorgetti (1671-1672) su disegno di Gian Lorenzo Bernini.
San Sebastiano – Antonio Giorgetti
Da una scala situata in quella che, prima della ristrutturazione seicentesca, era la navata destra della chiesa si può scendere al vasto complesso delle catacombe di San Sebastiano.
Dai martiri cristiani si torna ai luoghi e ai personaggi della Roma Classica: il complesso massenziano, una delle aree archeologiche più suggestive della campagna romana è costituito da tre edifici principali: il palazzo, il circo ed un mausoleo dinastico, progettati in una inscindibile unità architettonica per celebrare l’imperatore Massenzio, lo sfortunato avversario di Costantino il Grande nella battaglia di Ponte Milvio del 312 d.C.
Lo schema del circo abbinato al palazzo imperiale, già noto in altre residenze tetrarchiche, è qui arricchito dalla presenza di un mausoleo dinastico, più noto come Tomba di Romolo (figlio di Massenzio, morto giovanissimo), che diventa il nucleo centrale dell’intero complesso. I tre edifici sono stati costruiti assecondando, molto saggiamente, la naturale orografia del territorio al fine di evitare al massimo grossi lavori di sbancamento e colmatura e di sfruttarne le caratteristiche: così il palazzo venne edificato sui resti delle costruzioni precedenti ed il circo nell’avvallamento che dall’Appia Antica risale gradualmente verso l’attuale via Appia Pignatelli. Si può ragionevolmente supporre che l’area, già parte integrante del Triopio (promontorio) di Erode Attico, fosse stata inglobata come altre zone del suburbio nel demanio imperiale. Con la sconfitta di Massenzio e il successivo promulgamento della pace religiosa, è verosimile che le costruzioni massenziane da Costantino passassero alla Chiesa di Roma e che quindi, almeno a partire dal VI secolo facessero parte del Patrimonium Appiae.
Per secoli le informazioni sull’area risultano sempre più lacunose ed i monumenti sempre più suddivisi tra proprietari diversi; nell’Ottocento l’area del circo e successivamente quella del mausoleo, vennero acquisite dai Torlonia duchi di Bracciano e nell’ambito di questa amministrazione, venne annessa alla più vasta tenuta della Caffarella.
La passeggiata giunge, subito dopo, al Mausoleo di Cecilia Metella, il monumento simbolo della via Appia Antica, noto e riprodotto fin dal Rinascimento al pari dei più celebri monumenti di Roma e oggetto di particolare attenzione da parte di archeologi, architetti, disegnatori e vedutisti.
La tomba è stata costruita negli anni 30-20 a.C. in posizione dominante rispetto alla strada, proprio nel punto in cui si è arrestata la colata di lava leucititica risalente a circa 260.00 anni fa, espulsa dal complesso vulcanico dei Colli Albani.
Si tratta di una tomba monumentale eretta per una nobildonna romana di cui si conoscono, grazie all’iscrizione ancora conservata, soltanto alcuni suoi gradi di parentela. Il padre era Quinto Cecilio Metello, console nel 69 a.C. e che tra il 68 e il 65 conquistò l’isola di Creta da cui gli derivò l’appellativo Cretico; il marito era, con ogni probabilità, Marco Licinio Crasso distintosi al seguito di Cesare nella spedizione in Gallia e figlio del celebre Crasso, membro del primo triumvirato insieme a Cesare e Pompeo.
Tomba di Cecilia Metella – Giovan Battista Piranesi
L’imponente tomba va pertanto interpretata sia come omaggio alla defunta che come una forma di celebrazione delle glorie, delle ricchezze e del prestigio della famiglia committente.
La sommità del mausoleo si presenta oggi coronata da una sopraelevazione in muratura di blocchetti di peperino che conserva una merlatura di tipo ghibellino relativa alle modificazioni edilizie realizzate dalla famiglia Caetani per trasformare il sepolcro nel torrione principale del loro castello, inserito nel più ampio castrum Caetani.
Nel 1299 il mausoleo di Cecilia Metella fu dato da papa Bonifacio VIII alla sua famiglia – i Caetani – che vi fece costruire il castello circondato da mura e torri merlate, i cui resti sono ancora visibili addossati al mausoleo. Sul lato opposto della via Appia vi sono i resti di San Nicola a Capo di Bove, un’antica chiesa di architettura ogivale, spoglia però del tutto dei suoi ornamenti e priva di tetto. Il nome a capo di bove sembra derivare dal nome con cui nel medioevo erano chiamati i fregi a forma di testa di bue che ornavano parte del mausoleo. In base alle testimonianze di Tommaso da Celano la chiesa fu costruita, all’interno del cortile del castello dei Caetani, all’inizio del XVI secolo dall’architetto napoletano Masuccio II, già al servizio degli angioini.
San Nicola a Capo Bove
L’Armellini riporta la seguente nota, tratta dagli Archivi vaticani, relativi alla costruzione della chiesa: Franciscus card. S. Mariae in Cosmedin in loco qui dicitur Caput Bovis construxit castrum cum ecclesia in honorem b. Nicolai in dioecesi Albanensi cui Bonifacius VIII concessit iura parochialia et patronatum sibi et suis successoribus.
La chiesa è importante perché si tratta di uno dei rari esempi di gotico sacro in Roma. L’interno si presenta completamente spoglio, con un’abside sporgente e, come detto, senza copertura.