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  1. I Macchiaioli. Le collezioni svelate.

    La grande mostra ospitata dal Chiostro del Bramante raccoglie più di 110 opere, che costituiscono

    Giubetto rosso - Federico Zandomenichi

    Giubetto rosso – Federico Zandomenichi

    una possibilità unica di vedere raccolti in uno stesso luogo quadri che sono per lo più in collezione privata e che, in molti, sono stati un punto di partenza fondamentale per molta della pittura italiana del Novecento.
    La mostra ha anche un altro grandissimo pregio: quello di ricostruire le collezioni di cui le opere esposte facevano originariamente parte, restituendo quindi un ulteriore piano di lettura della pittura dei macchiaioli.
    Personaggi come Cristiano Banti, Diego Martelli, Rinaldo Carnielo, Edoardo Bruno, Gustavo Sforni, Mario Galli, Enrico Checcucci, Camillo Giussani, Mario Borgiotti si comportarono, nella seconda metà dell’Ottocento e fino agli inizi del Novecento, come veri e propri mecenati. Uomini di affari e imprenditori, come ad esempio Ettore Sforni, padre di Gustavo, era socio di maggioranza delle industrie di Giovan Battista Pirelli; poi c’erano anche gli “addetti ai lavori”, come il critico d’arte Diego Martelli e lo scultore veneziano Rinaldo Carnielo. Insomma, un gruppo di uomini accomunati dalla passione per la pittura dei Macchiaioli. Spesso amici veri degli artisti di cui acquistarono le opere anche per sostenerli nei momenti difficili.

    Uliveta - Telemaco Signorini

    Uliveta a Settignano – Telemaco Signorini

    Pittori come Giovanni Fattori, che avevano sofferto di difficoltà economiche per tutta la vita, poterono continuare a dedicarsi alla pittura “a macchia” solo grazie all’intervento, all’aiuto e all’ospitalità di questi collezionisti. Per Fattori fondamentale fu l’ospitalità offertagli da Diego Martelli a Castiglioncello, dove realizzò moltissime opere dedicate alla Maremma toscana. Nella collezione di Martelli confluirono anche alcune opere di Zandomenichi, il più impressionista dei macchiaioli: egli se ne andò a Parigi e lì rimase per tutto il resto della sua vita. E quelle di artisti francesi, come Camille Pisarro. Ciò rende la collezione di Diego Martelli, così come presentata nell’ambito della mostra, un’ulteriore occasione imperdibile per un confronto diretto tra la pittura impressionista e la pittura “a macchia”, che può essere considerata la visione italiana dell’impressionismo o, ancora meglio, l’interpretazione italiana dell’impressionismo.

    La raccolta del fieno - Giovanni Fattori

    La raccolta del fieno – Giovanni Fattori

    Un impressionismo che in Italia non passò indenne attraverso la luce mediterranea, ma soprattutto attraverso il verismo e le grandi trasformazioni storiche e sociali che l’Italia dell’Ottocento visse e man mano che la corrente dei macchiaioli andava definendosi e che queste collezioni andavano costituendosi.
    E’ necessario sottolineare che la mostra compie, quindi, una duplice operazione: quella di raccogliere in un unico luogo i massimi esponenti della pittura “a macchia”. E quella di ricostruire collezioni smembrate e disperse tra collezioni private e in parte raccolte dalla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.
    Casa Sforni, ad esempio, nei pressi di Piazza Savonarola a Firenze, fu uno degli indirizzi più esclusivi del collezionismo fiorentino a cavallo tra Ottocento e Novecento. Sin dal 1885 vi abitò una facoltosa famiglia originaria di Milano.

    Marcatura dei cavalli in Maremma - Giovanni Fattori

    Marcatura dei cavalli in Maremma – Giovanni Fattori

    Si è già detto che Ettore Sforni fu socio di maggioranza delle industrie di Giovan Battista Pirelli. Egli insieme alla moglie Rachele fece della sua casa una suntuosa dimora alto borghese che favorì le inclinazioni artistiche del loro secondogenito Gustavo, a sua volta pittore, collezionista, intellettuale, imprenditore, mecenate.
    Nel 1913 Gustavo Sforni pubblicò un lussuoso volume monografico dedicato a Giovanni Fattori, per i tipi di una casa editrice da lui stesso creata, la S.E. L.F. (Società Editrice Libraria Fiorentina), un ricordo ed un omaggio al grande pittore macchiaiolo da poco scomparso.
    La grande collezione d’arte di Casa Sforni, che comprendeva oltre le opere dei macchiaioli, alcune sculture di Rodin e di Medardo Rosso, i kakemoni e le sculture orientali, e ancora opere di Utrillo, di Degas, di Cézanne e di Van Gogh, andò dispersa dopo l’occupazione tedesca del 1943 ed oggi è testimoniata solo da alcune fotografie risalenti al 1920.
    In mostra si trovano opere oltre che di Giovanni Fattori e Federico Zandomenichi, anche di tutti gli artisti – Silvestro Lega, Giuseppe Abbati, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi, Telemaco

    L'appello dopo la carica - Giovanni Fattori

    L’appello dopo la carica – Giovanni Fattori

    Signorini, Giovanni Boldini, Cristiano Banti, Vito D’Ancona, Adriano Cecioni, Vincenzo Cabianca – provenienti da più parti d’Italia, che diedero vita alla così detta “pittura a macchia”, uno dei più importanti movimenti pittorici nell’Europa di metà Ottocento.
    La mostra è l’occasione per vedere anche opere che sono esposte in pubblico per la prima volta come “La pittrice” di Borrani e la luminosissima, splendida “Oliveta a Settignano” di Telemaco Signorini, artista di cui Edoardo Bruno raccolse almeno sette opere, a partire dal prezioso “Cimitero di Solferino” del 1859, molto rappresentativo delle prime ricerche formali dell’artista intorno alla “macchia”.

  2. La grande arte del Ducato di Parma: Correggio e Parmigianino

    La mostra in corso a Roma alle Scuderie del Quirinale è di grande importanza per una serie di motivi.

    Ritratto di giovane donna detta "schiava turca" - Parmigianino

    Ritratto di giovane donna detta “schiava turca” – Parmigianino

    Intanto per il numero di opere giunte dai più prestigiosi musei e gallerie d’arte italiane e straniere. In secondo luogo perché offre l’opportunità ai visitatori, soprattutto romani, di scoprire un’altra capitale dell’arte italiana: la Parma ducale del XVI secolo, fucina di artisti sublimi quali appunto Correggio e Parmigianino. E non solo.
    Affidata alla cura di David Ekserdjian, autore delle fondamentali monografie sull’uno e sull’altro, Correggio e Parmigianino, arte a Parma nel Cinquecento propone un centinaio di lavori, soprattutto dei due maestri ma anche dei loro seguaci: Michelangelo Anselmi, Francesco Maria Rondani, Giorgio Gandini del Grano e Girolamo Mazzola Bedoli. Insomma, la grande “scuola di Parma”. Intrasportabili alcune opere delicatissime (come l’Autoritratto nello specchio tondo di Parmigianino oggi a Vienna), l’esposizione organizzata dall’azienda speciale Palaexpo propone comunque un serrato confronto, sia stilistico sia tematico, tra l’arte di Antonio Allegri (1489-1534), il Correggio dal nome della sua città, e l’opera di Francesco Mazzola, Parmigianino essendo nato nel 1503 (morirà a soli 37 anni) proprio a Parma. La mostra, al secondo piano, offre peraltro uno spaccato importate sul disegno – la tecnica che proprio il Cinquecento elesse come arte autonoma -, restituendo su carta le imprese murali dei due emiliani: dagli affreschi del Correggio nella Camera di San Paolo (la lezione di Mantegna), in San Giovanni Evangelista (l’influsso di Michelangelo) e in Duomo (angeli e santi proto-barocchi). O i disegni più finiti e innovativi del più giovane collega: nello stesso San Giovanni e nei miti pagani della Rocca di Fontanellato.

    Noli me tangere - Correggio

    Noli me tangere – Correggio

    Proprio per dare conto della dimensione architettonica, extra cavalletto, dei due pittori, la mostra, coordinata da Matteo Lanfranconi, si apre con le colossali (sono alte 5 metri) portelle d’organo di Parmigianino per la Steccata. E subito dopo, prima sala, ecco la gioventù di Correggio sotto l’impronta di Mantegna (il Trionfo di San Benedetto Po ma anche il Riposo durante la fuga in Egitto degli Uffizi). Passata la saletta sul Parmigianino enfant prodige (le Nozze mistiche di Caterina a Bardi furono dipinte a 17 anni), ecco il faccia a faccia tra i due con i gesti esagerati ed enfatici del Saulo disarcionato sulla via di Damasco(da Vienna) di Parmigianino e la natura rigogliosa che incornicia l’intima apparizione divina nel Noli me tangere (dal Prado di Madrid) del Correggio.
    Molte altre le occasioni di confronto. E se nelle storie degli antichi spicca Correggio con la Danae Borghese e Venere, Mercurio e Cupido di Londra, la ritrattistica è tutta per Parmigianino: con la gelida, magnifica Antea (da Napoli) e l’ammiccante, conturbante dama in veste di Schiava turca in arrivo da Parma.
    Ma chi erano costoro? «L’arte di Antonio Allegri si abbandonava alla gioia della luce e del colore; vedeva le forme alleggerite e consunte dall’atmosfera, i contorni ondeggianti e labili, gli sfondi lontani e ariosi, amava le note calde, le carni bionde, i fogliami saturi d’oro; l’arte del Parmigianino, precisa invece e adamantina nei contorni, giunge dalle eleganze sfavillanti e capricciose di Fontanellato, preludio alle delizie ornamentali del Settecento, alle fredde eleganze dell’Impero nella Madonna dal collo lungo».

    Conversione di Saulo - Parmigianino

    Conversione di Saulo – Parmigianino

    Così, scriveva Adolfo Venturi, grande storico dell’arte italiano.
    Certo, Parma non poteva certo contare su una tradizione pittorica quattrocentesca paragonabile a quella ferrarese. Ma proprio a Parma la pittura emiliana cinquecentesca trova il centro più attivo, dapprima grazie a Filippo Mazzola e poi, soprattutto, con l’attività di Correggio e del Parmigianino.
    Il primo compie un lungo iter di formazione dapprima in ambito emiliano, poi a Mantova, presso l’anziano Mantegna, e infine, durante il secondo decennio del Cinquecento, alla ricerca di una libera interpretazione di Leonardo. Unendo a questi richiami la meditazione su Raffaello e sull’arte a Roma (nonostante Vasari abbia sempre negato che si sia mai recato nell’Urbe), il Correggio assume una posizione culturalmente autonoma, alla ricerca di una fluidità narrativa, mediata dallo sfumato leonardesco, dal perfetto dominio del virtuosismo prospettico e da un morbido senso del colore. La sua produzione è scandita da tre successivi cicli di affreschi: la Camera della Badessa nel convento di San Paolo, la decorazione della chiesa di San Giovanni Evangelista, l’Assunzione nella cupola del Duomo. Senza mai abbandonarsi alla raffinata artificiosità del nascente Manierismo, il Correggio si allontana decisamente dalle regole quattrocentesche, ponendo i presupposti per lo sviluppo della grande decorazione barocca. Accanto ai grandi affreschi, nel corso degli anni venti, l’artista dipinge importanti pale d’altare, esprimendo una sensibilità raffinata, attenta alla morbidezza del modellato come agli elementi compositivi.

    Madonna di San Zaccaria - Parmigianio

    Madonna di San Zaccaria – Parmigianio

    Esemplari, in tal senso, le due pale della Galleria nazionale di Parma: la Madonna di San Gerolamo e la Madonna della scodella. L’ambientazione notturna dell’Adorazione dei pastori di Dresda apre ulteriori sviluppi alla ricerca luministica dell’arte italiana, attraverso la riproposta effettuata dai Carracci nel tardo Cinquecento. Durante gli ultimi anni di vita il Correggio concepisce Giove e Antiope e subito dopo il ciclo di tele raffiguranti “gli amori di Giove” per Federico Gonzaga. Ne esegue quattro: Danae (Roma, Galleria Borghese), Leda (Berlino, Staatliche Museen), Io e Ganimede (Vienna, Kunsthistorisches Museum). Opere fondamentali nella storia della pittura mitologica e profana, in assoluto equilibrio tra sensuale resa naturalistica e trasfigurazione poetica.
    Molto diverso da quello del Correggio è il percorso dell’arte del Parmigianino. Allievo del Correggio, esordisce assai precocemente, mostrando, fin dall’inizio, spiccati interessi nel campo della grafica e per particolari effetti percettivi, testimoniati da una delle sue opere, l’Autoritratto entro uno specchio convesso. La passione per l’alchimia, esercitata dal Parmigianino per tutta la vita, è un’ulteriore riprova della ricerca di una “nuova natura”: in questa chiave, si comprendono meglio alcune scelte stilistiche del maestro. Dopo l’iniziale collaborazione con il Correggio in San Giovanni Evangelista (intorno al 1522), il Parmigianino trascorre un breve ma importante periodo nella piccola corte di Galeazzo Sanvitale a Fontanellato.

    Fuga in Egitto con San Francesco - Correggio

    Fuga in Egitto con San Francesco – Correggio

    In particolare sintonia con i gusti esoterici e alchemici del signore, dipinge il ritratto del Sanvitale (oggi nelle Gallerie di Capodimonte, a Napoli) e soprattutto affreschi che decorano la “stufetta”, il bagno personale della moglie del Sanvitale, con l’episodio di Diana e Atteone.
    In contrasto con il Correggio, il Parmigianino predilige forme levigate, affusolate, con un colore steso in modo compatto, quasi smaltato, come mostrano in particolare i non numerosi ritratti.
    Dall’Emilia, il Parmigianino si trasferiscs in Italia centrale dal 1524 e il 1531, a Roma e poi a Firenze, divenendo uno dei maggiori e più originali protagonisti della diffusione della “maniera”.

  3. Recensione

    Maometto e i cristiani: una storia inedita

    di Pina Baglioni

    Philip Khuri Hitti, cristiano maronita nato in Libano nel 1886 e morto nel 1978 negli Stati Uniti, è considerato uno dei più grandi orientalisti di tutti i tempi.

    Storia degli Arabi - Philip Khuri Hitti

    Storia degli Arabi – Philip Khuri Hitti

    Ha insegnato alla Columbia University e a Princeton, dove è stato anche presidente del dipartimento di lingue orientali.
    La casa editrice bolognese Odoya ha recentemente mandato alle stampe, in ottava edizione “Storia degli Arabi. Dall’antichità al Novecento”, la sua opera più nota. Si tratta di un imponente volume di oltre ottocento pagine, pubblicato per la prima volta nel 1937, frutto di dieci anni di lavoro, che ripercorre in maniera completa e documentata la storia degli arabi dalla fase nomade dell’era pre-islamica fino ai primi decenni del Novecento, caratterizzati dalla caduta dell’impero Ottomano.
    Culla dell’intera famiglia semitica, la penisola araba nutrì tutti quei popoli che man mano migrarono nella Mezzaluna fertile: i babilonesi, gli assiri, i fenici, gli ebrei. Popoli che, scrive Hitti «gettarono le basi del nostro patrimonio culturale… nel Medioevo nessun popolo contribuì al progresso umano quanto gli Arabi e i popoli di lingua araba».
    continua…

  4. L’otium dei grandi signori del Rinascimento: Villa Celimontana e il Ninfeo nascosto.

    È arduo parlare dell’aspetto dei giardini delle ville signorili e dei simboli e significati che questi hanno assunto nel corso dei secoli.

    Portale d'ingresso - Villa Celimontana

    Portale d’ingresso – Villa Celimontana

    Non solo perché i luoghi sono profondamente cambiati, ma soprattutto perché sono mutati la cultura e lo stile di vita delle persone. Per l’uomo contemporaneo il giardino è uno spazio verde dove rilassarsi, stendersi su un prato, giocare, un luogo dove si può ancora godere della bellezza della natura e di alcuni momenti di libertà.
    Quando invece le ville erano private, il giardino era uno spazio verde denso di significati profondi, una sorta di manifesto filosofico e politico che doveva raccontare ogni aspetto della vita del proprietario. Un luogo, cioè, immediatamente intellegibile a tutti quelli che, a vario titolo, vi erano ammessi anche in assenza del proprietario, allo scopo di meditare, di riflettere, di studiare.
    Quando, con l’avvento di Napoleone, il giardino diventa pubblico, non perde di significato ma acquisisce anche un ruolo “educativo” e sociale: il giardino, in questo caso, è luogo d’incontro tra persone di livello sociale diverso, dove il borghese incontra il nobile ed il proletario, al cospetto di monumenti e di statue raffiguranti i personaggi illustri della nazione, “trasmettitori”, in questo caso, di spirito patriottico e coesione sociale.
    Se è difficile cogliere oggi alcuni aspetti delle ville del passato giunte fino a noi, rappresenta quasi una sfida impossibile raccontare la storia di una villa rinascimentale praticamente scomparsa, inghiottita dal tempo come è Villa Celimontana al Celio. Edificata nella seconda metà del Cinquecento come residenza di rappresentanza della famiglia Mattei, una delle famiglie più in vista di Roma, doveva rappresentare e ribadire il ruolo preminente della nobile casata nella vita politica e sociale della città.
    È per questo motivo che Giacomo Mattei acquista nel 1553 una vigna al Celio.

    L'obelisco di Ramses II - Villa Celimontana

    L’obelisco di Ramses II – Villa Celimontana

    La nuova proprietà presenta una forma irregolare con scarse possibilità di espandersi, considerata la vicinanza di chiese importanti quali Santa Maria in Domnica, San Gregorio Magno e i Santi Giovanni e Paolo. L’area acquistata dai Mattei ha comunque il grande pregio di godere della prossimità delle Terme di Caracalla e del Palatino, dove già la famiglia Farnese aveva allestito i celeberrimi Horti Farnesiani.
    Il Celio è dunque il luogo giusto per creare una sorta di “Campidoglio” alternativo per affermare la continuità storica e politica della famiglia Mattei con la Roma imperiale. E in particolare, per stabilire l’identificazione di Giacomo Mattei con la mitica figura di Ercole. Per questo motivo, il ricco proprietario trasferirà in villa una splendida collezione di arte antica.
    E il riconoscimento di tale continuità con l’impero e con i suoi miti fu ufficialmente attestato dal Comune di Roma che, nel 1582, farà dono alla famiglia Mattei dell’obelisco in granito rosso di Ramses II, che da molti anni si trovava alla base della scalinata dell’Aracoeli. L’obelisco è l’unico arredo della villa rinascimentale giunto fino a noi, anche se collocato, purtroppo, in luogo che lo rende privo di significato, negandogli, quindi, quella posizione centrale che invece aveva avuto nel XVI secolo. Sono scomparse, tra l’altro, tutte le opere della collezione d’arte antica dei Mattei che completavano non solo l’arredo del giardino ma che ne rendevano chiara la storia a cui era ispirato. Gran parte di queste opere sono confluite nelle collezioni vaticane ed in altre collezioni pubbliche e private di Roma, lasciando al giardino di Villa Celimontana pochi brandelli delle antiche meraviglie. I Mattei rimarranno a lungo proprietari di Villa Celimontana, dopodichè, agli inizi dell’Ottocento, cominceranno ad alternarsi diversi proprietari che imporranno i propri gusti estetici alla villa.

    Uno scorcio - Villa Celimontana

    Uno scorcio – Villa Celimontana

    I cambiamenti più sostanziali saranno realizzati alla fine dell’Ottocento, quando ciò che rimaneva dell’impianto rinascimentale sarà definitivamente cancellato per lasciare spazio ad un di tipo di giardino “paesistico” sulla scorta della moda inglese e francese. Ma anche di questa fase storica, purtroppo, non ci sono più tracce, salvo l’impianto geometrico del giardino, il mal conservato Tempietto neogotico e la attenta cura delle piante secondo antichi criteri botanici.
    È innegabile, nonostante tutto, che ancora oggi la villa mantenga un suo fascino particolare, grazie alle varie essenze che colorano il giardino delle più svariate sfumature di verde. Un giardino che ricorda, a seconda degli ambienti, ora un bosco fitto e appartato ora una radura aperta e luminosa dove circola, soprattutto durante le infuocate estati romane, un’aria particolarmente fresca.
    Da tempo la villa è oggetto di restauri che hanno consentito l’identificazione del Ninfeo dell’Uccelliera, definito così perché posto originariamente proprio sotto l’uccelliera andata distrutta nel 1700. È una delle poche strutture superstiti della villa rinascimentale, costruita tra il 1585 e il 1580 e che permetteva l’accesso diretto al circo soprastante, al cui centro era posizionato l’obelisco.

    Ninfeo dell'Uccelliera - Villa Celimontana

    Ninfeo dell’Uccelliera – Villa Celimontana

    L’ambiente è piccolo ma suggestivo, decorato ad affresco e mosaico, con frammenti di pomice, conchiglie e frammenti di madreperla, ispirato ai ninfei di epoca greco-romana. Un luogo, questo, dove in età rinascimentale i nobili potevano godere non solo del clima delizioso ma anche, grazie ai particolari sistemi idraulici in voga in quel tempo, dei fantasmagorici giochi d’acqua delle fontane.
    Non è improbabile che la collocazione del Ninfeo al di sotto dell’Uccelliera consentisse di poter ascoltare il canto degli uccelli in essa collezionati: un’ulteriore suggestione capace di assecondare la meditazione, la ricerca dell’equilibrio interiore e del significato della natura per i fortunati che avevano la possibilità di essere ospiti della Villa Mattei.