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  1. Ligabue. Visioni e tormenti dell’esilio.

    L’emozionante mostra in atto al Vittoriano (sala Barsini) e dedicata ad Antonio Ligabue mette da subito al centro uno degli aspetti che caratterizzerà non solo la vita ma anche l’attività artistica di Antonio Ligabue: l’esilio.

    Ritratto con pianoforte - Antonio Ligabue

    Ritratto con pianoforte – Antonio Ligabue

    Antonio Ligabue nato a Zurigo nel 1899, dopo un’infanzia sin dall’inizio tormentata e vissuta per buona parte in povertà, una povertà che lascerà segni fisici sul suo corpo traducendosi in un rachitismo e in un’evidente malformazione cranica, nel 1919 viene allontanato dalla Svizzera e inviato a Gualtieri, in Italia, il paese di origine dell’uomo che dopo la nascita gli diede il cognome di Laccabue, da Antonio poi modificato in Ligabue per sottolineare probabilmente tutta la distanza da quel padre adottivo con cui aveva avuto limitatissimi rapporti.
    L’allontanamento da quella Svizzera che era stata la sua terra per i suoi primi venti anni di vita è la prima forma di esilio che Antonio Ligabue vivrà. Ma non sarà l’unica.

    L’allontanamento dal cantone di San Gallo e dalla Svizzera corrisponderà anche all’allontanamento senza rimedio dalla sua madre adottiva con la quale, sebbene oscillando tra amore e odio, Ligabue era riuscito a costruire un rapporto umano dal quale traeva calore e forse anche una certa forma di sicurezza.
    A Gualtieri Antonio arriverà senza sapere una parola d’italiano, incapace di capire la lingua degli altri ma anche impossibilitato a rapportarsi con il mondo degli uomini per una sua fragilità interiore e per un suo profondo disagio, si esilierà volontariamente dal paese vivendo, fin quasi alla morte, ai margini non solo del consesso umano, ma anche del nucleo abitativo. Forma di esilio resa reciproca dagli abitanti che al più riusciranno a tollerarlo, in qualche misura, nel momento in cui potranno inserirlo nella casella “matto del paese”.

    Combattimento tra galli - Antonio Ligabue

    Combattimento tra galli – Antonio Ligabue

    Le paure che si rapprenderanno in lui all’atto di questo forzato distacco rimarranno per sempre nella sua persona trasformandosi a tratti in ossessioni ed a tratti nel bisogno di elaborare rituali. Rituali per trovare calore umano ed accettazione lì dove poco riusciva ad averne dai suoi simili, e rituali apotropaici tesi a tener lontani fantasmi che si originavano nella solitudine e nel buio.
    Delle diverse forme di esilio vissute da Ligabue ci parla la mostra dedicata all’artista di Gualtieri. Anche di quelle che i tanti studiosi a vari livelli della sua arte non sono riusciti ancora a scoprire.
    Già perché Ligabue che da vivo fece una grande fatica ad essere considerato non solo quale artista ma soprattutto quale essere umano, è stato, dopo la morte, oggetto di studi ed interpretazioni. Si è cercato insomma di capire l’uomo attraverso la sua arte, perdendo l’occasione, almeno in parte, di conoscere l’uomo da vivo mentre dava vita alle sue opere. L’incontro con uomini quali Marino Mazzacurati, che forse più che insegnargli a dipingere gli fornì i mezzi e gli indicò la strada che gli permisero di acquisire la tecnica e la consapevolezza di sé, Cesare Zavattini che di e su di lui scrisse un poema – racconto per cercare tra le altre cose di sfumare quella sorta di perbenismo che aveva caratterizzato in parte i rapporti che da un certo momento in poi avevano circondato Ligabue, Romolo Valli, il famoso attore, che tra i primi acquistò le sue opere, hanno in qualche maniera e forse involontariamente creato una specie di fenomeno da baraccone, un uomo dalle grandi capacità artistiche rinchiuse nel corpo di un essere strambo.
    La mostra del Vittoriano in qualche misura fa giustizia restituendo, attraverso l’esposizione delle opere, tutti i discorsi che nel corso della vita Antonio Ligabue ha cercato di fare con chi volesse ascoltarlo. I suoi dipinti coloratissimi e materici, le sue piccole dettagliatissime sculture, i disegni fitti fitti di tratti spessi e neri ed un pugno di acqueforti ci mostrano finalmente l’uomo e l’artista quasi senza alcuna intermediazione.

    Autoritratto con mosche - Antonio Ligabue

    Autoritratto con mosche – Antonio Ligabue

    La natura rigogliosa delle giungle di cui aveva letto nei libri dell’infanzia o le cui immagini aveva visto frequentando le biblioteche sono, da Antonio Ligabue, trasportate in un luogo geografico che non è esattamente la Bassa Padana, ma non è neppure il cantone di San Gallo in cui egli aveva vissuto i primi venti anni della sua vita.
    Questo luogo geografico ambivalente, o addirittura multivalente, è un luogo dell’anima, del pensiero e del cuore in cui tutto può accadere: che un contadino coltivi la terra, che degli animali da cortile razzolino placidi, che vi si svolgano feroci combattimenti tra animali mai risolti, dove l’apparente vincitore può diventare un vinto da un momento all’altro, dove animali della quotidianità contadina (cani, conigli, galli, cavalli) possano in qualche maniera convivere con leoni, tigri, serpenti ed insetti di ogni tipo, dove ci si possano trovare abitazioni tipiche dei panorami svizzeri, o che improvvisi vi siano trasportati castelli delle fiabe.
    Questa stessa natura diviene frequentemente sfondo dei suoi autoritratti. Fiumi di parole sono stati spesi su questa volontà di Ligabue di autoritrarsi. Tante sono le interpretazioni che di questa attività sono state date, cercando a tratti di farne una particolarità di questo artista, dimenticando che molti (se non tutti) gli artisti nel corso della storia si sono ritratti.
    E Ligabue non è perciò diverso quando lo fa. Lo fa perché è un esercizio pittorico che può condurre allo specchio e senza, un esercizio pittorico che mostra la sua costante ricerca, la sua ferrea volontà di migliorarsi quale artista in un contesto sociale e culturale in cui certamente mancavano possibilità di raffronto e confronto. Lo fa perché vuole mostrarci la consapevolezza di sé come pittore autorevole, e lo fa con il gusto di chi vuole travestirsi, come negli stessi anni andava facendo de Chirico che si autoritraeva con la corazza, con il vestito del seicento o con il vestito nero. Attraverso l’autoritratto ed il travestimento Ligabue si da la possibilità di vivere tante vite diverse come il fantino, il motociclista, il borghese, con la consapevolezza che lui sarebbe potuto essere tutto questo ma contemporaneamente con la consapevolezza che solo alcune di queste possibilità gli sono state davvero offerte dalla vita, mentre le altre gli sono state negate dalla sua storia, dalla sua maniera di essere, ma anche dall’impossibilità degli altri di pensarlo in grado di vivere come persona.

    Capra - Scultura tradotta in bronzo da originale in argilla di Antonio Ligabue

    Capra – Scultura tradotta in bronzo da originale in argilla di Antonio Ligabue

    Ligabue l’artista a tutto tondo, pittore, scultore, disegnatore, incisore, che emerge con decisione dalle sale di questa mostra è stato artista profondamente consapevole di sé e delle proprie capacità. Non altrettanto consapevoli si sono mostrati i suoi contemporanei che hanno per lui voluto vedere una somiglianza con van Gogh ed ancor più con i pittori naif.
    Certamente come i pittori naif Ligabue dipinge scene di vita quotidiana e scene che sembrano venire fuori da libri di favole o di racconti di grandi viaggi. Ma utilizzare questo piccolo frammento della sua grandissima produzione ed estenderlo al tutto è un’operazione quanto meno scorretta, poiché, se soprattutto nelle opere dove appaiono castelli e diligenze, si può riconoscere un cliché iconografico dal sapore popolare, negli altri temi emerge con forza una ricerca ed un linguaggio assolutamente innovativo e tipico di Ligabue, che ne fanno un artista non inscrivibile in una definizione univoca.

  2. Santa Maria della Pace

  3. Alle pendici del Palatino. La Roma delle origini, delle chiese greche e del primo Natale cristiano

    Alle pendici del Palatino, tra il Circo Massimo e Piazza della Bocca delle Verità si ergono le chiese di Sant’Anastasia, San Teodoro, San Giorgio al Velabro e Santa Maria in Cosmedin.

     

    San Giorgio al Velabro dall'arco di gaino - Anton Smith Plitoo

    San Giorgio al Velabro dall’arco di Giano – Anton Smith Plitoo

    Al Foro Olitorio, San Nicola in Carcere sta incastonata tra i templi dedicati a Giunone Sospita, a Giano e a Spes: tutte chiese, queste, che “parlano greco”. Il motivo è dato dal fatto che tra il VII e l’VIII secolo, ai tempi della dominazione bizantina, si stabilirono a Roma monaci greci fuggiti dall’iconoclastia, il movimento religioso sorto nella chiesa di Bisanzio, contraria ad ogni forma di culto delle immagini sacre e propugnatore della loro distruzione. L’area in questione, da sempre, aveva ospitato popolazioni straniere, soprattutto greche, per via degli scambi commerciali sulle rive del Tevere. Qui i monaci scampati alle persecuzioni iconoclaste avevano fondato le diaconie, vale a dire ospizi per pellegrini, poveri e malati. Nel corso del tempo, quelle diaconie si sarebbero trasformate in edifici di culto, o sarebbero state inglobate nelle chiese già esistenti. Quelle chiese sarebbero poi state intitolate a santi orientali.
    Accanto a questo motivo di grande interesse, ce n’è un altro d’immenso fascino: vale a dire il mito delle origini di Roma e del suo abitato. Basti pensare che Ottaviano, nel 42 a.C. si era fatto costruire una grande casa sul Palatino rivolta all’Aventino. Casa che, tredici anni dopo, fece interrare per edificarvi sopra una dimora-santuario degna del suo nuovo status di Augusto, principe di un impero universale. La sua imponente casa dominava l’antico approdo sul Tevere, dove, secondo la leggenda, avevano attraccato le navi di eroi greci e dove erano sorti i primi culti di Fauno al Lupercale. Augusto si considerava a tutti gli effetti erede dei re aborigeni del Lazio – Pico, Fauno e Latino – e soprattutto di Enea e della famiglia albana dei Giulii, in quanto figlio adottivo di Giulio Cesare.

    Piazza Bocca della Verità - Ettore Roesler Franz

    Piazza Bocca della Verità – Ettore Roesler Franz

    Inoltre la tradizione voleva che nei paraggi paludosi del Velabro fossero stati ritrovati i gemelli Romolo e Remo. Il mito di fondazione dà quindi il via ad una capillare ricerca archeologica e, dopo gli scavi condotti nel 2007 dalla soprintendenza archeologica, a sedici metri di profondità nei sotterranei della chiesa di Sant’Anastasia, alcuni studiosi, in particolare Andrea Carandini, si sono persuasi di aver finalmente rintracciato il Lupercale, cioè il luogo dove la celeberrima lupa avrebbe allattato Romolo e Remo.
    Nel volume La casa di Augusto. Dai “Lupercalia” al Natale (Editori Laterza, Roma-Bari, 2008, pagg. 284) Carandini ha proposto un’ipotesi affascinante: nel IV secolo d.C. la domus Augusti aveva ospitato sul suo avancorpo rivolto al Circo Massimo la chiesa di Sant’Anastasia, sorellastra di Costantino, l’imperatore che con l’Editto di Milano del 313 aveva concesso la libertà di culto ai cristiani. Egli si era poi occupato della data della festa di Pasqua durante il Concilio di Nicea (325 d.C.) e aveva patrocinato, subito dopo, l’istituzione del Natale, fissato al 25 dicembre e celebrato per la prima volta proprio nella chiesa di Sant’Anastasia, probabilmente nel 363.
    Dunque: «alle pendici del Palatino si erano succeduti natali, epifanie e fondazioni tra Romolo, Augusto e Cristo», scrive Carandini.
    Nel IV secolo, Costantino aveva fatto edificare le prime costruzioni cristiane, riservate al culto, lontane dal centro di Roma per non turbare la suscettibilità della maggioranza dei romani ancora legata alle divinità pagane. Salvo una: Sant’Anastasia.

    Lupercale - Palatino

    Lupercale – Palatino

    Secondo un catalogo delle chiese di Roma dell’VIII secolo, solo due chiese si trovavano nell’ordine davanti a Sant’Anastasia: il Laterano e la seconda basilica sul Cispio che prenderà il nome di Santa Maria Maggiore. La posizione in terza fila stupisce, visto che oggi la chiesa è quasi dimenticata, ma in antico la sua importanza era legata al fatto che la sua posizione centralissima, alle radici del Palatino verso il Circo Massimo, ne fece la parrocchia (titulus) della corte e dei palazzi palatini, dei quali era segnacolo prospicente.
    La chiesa alle pendici del Palatino fu dotata anche di battistero, caratteristica unica che condivideva con San Giovanni in Laterano, San Pietro e Santa Maria Maggiore.
    Fino alla fine del V secolo Sant’Anastasia era però indicata come titulus Anastasiae. Fu il trasporto delle reliquie da Sirmium (l’attuale Sremska Mitrovica in Serbia, fu un’importante città della Pannonia romana) a Costantinopoli e poi a Roma che trasformarono il titulus Anastasiae in titulus Sancta Anastasia, ovvero in chiesa.
    Come si è detto fu Costantino a stabilire la data del 25 dicembre quale giorno della nascita di

    Costantino - Musei Capitolini

    Costantino – Musei Capitolini

    Cristo. Probabilmente questa data fu fissata in accordo con il vescovo di Roma, Silvestro, e fu scelta per affiancare il Natale di Cristo, a quello del Sole Invitto, essendo il 25 dicembre pochi giorni dopo quello del solstizio d’inverno (che cade ogni anno o il 21 o il 22 dicembre) e comunque il primo giorno in cui si apprezza l’aumento della durata del girono rispetto alla notte.
    Nei primi secoli del cristianesimo non esisteva una tradizione stabilita e unitaria relativa al giorno della nascita di Cristo, che, sostanzialmente, la Chiesa delle origini non festeggiava.
    Solo nel secondo quarto del IV secolo emerse un documento che attestava l’esistenza a Roma del Natale, fissato il 25 dicembre: è la Depositio Martyrym del calendario di Filocalo, abbozzo del calendario liturgico databile al 336 d.C. La nuova festa romana si diffuse poi in Africa, in Italia e in Oriente, così che in poco meno di un secolo era presente nell’intero mondo cristiano.
    Fu probabilmente papa Sisto III ad introdurre il costume di celebrare, poco dopo la mezzanotte del 24 dicembre, una prima messa nella basilica di Santa Maria Maggiore. Quindi il vescovo di Roma si recava a Sant’Anastasia, dove prima del sorgere del sole, celebrava la seconda messa di Natale. Infine egli celebrava una terza messa in San Pietro al sorgere del sole.
    In questa maniera veniva rispettata la tradizione introdotta da Costantino secondo la quale il primo Natale era stato celebrato presso il titulus Anastasiae.
    L’itinerario ispirato al mito delle origini e alla “grecità” di quest’area di sublime bellezza, conduce quindi alla chiesa di San Teodoro (san Toto, per i romani), posta lungo la suggestiva strada omonima, che corrisponde, per il primo tratto, all’antico Vicus Tuscus, che proseguiva per l’attuale Via dei Fienili. I legami antichissimi di questa chiesa, intitolata a un santo soldato orientale, col mondo greco-bizantino si sono saldati definitivamente il 1° luglio del 2004, quando papa Giovanni Paolo II la concesse alla comunità greco-ortodossa di Roma, alla presenza del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo II. A pianta circolare.

    La bandiera di San Giorgio - Musei Capitolini

    La bandiera di San Giorgio – Musei Capitolini

    La chiesa fu costruita sugli horrea di Agrippina, depositi annonari rimasti in funzione anche in epoca medievale. Della costruzione originaria resta la parte absidale con il mosaico databile al VII secolo che ricorda notevolmente quello dell’abside della chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Sembra inoltre che fino al secolo XVI sia stata qui custodita la Lupa bronzea proveniente dall’antico Lupercale. Per molto tempo si è ritenuto che si trattasse di quella che oggi si trova ai musei capitolini, che invece studi accurati hanno dimostrato essere un’opera etrusca cui venne aggiunta dal Pollaiolo, nel XV secolo, il gruppo dei gemelli.
    A San Teodoro succede la bellissima chiesa di San Giorgio al Velabro, che col suo appellativo ricorda che qui, si estendeva una palude soggetta alle ricorrenti piene del Tevere, dove la tradizione colloca il ritrovamento della cesta che aveva trasportato Romolo e Remo.

    San Giorgio al Velabro - dopo l'attentato

    San Giorgio al Velabro – dopo l’attentato

    La chiesa è certamente anteriore al VI secolo e ricorda l’insediamento di una colonia greca. Lo stesso titolare, San Giorgio, è un martire della Cappadocia; esso dovette essere molto venerato a Roma se vecchi racconti collegano a questa chiesa le devozioni ufficiali di Cola di Rienzo e se lo stesso tribuno, muovendo all’occupazione del Campidoglio nel 1347, spiegava una bandiera che raffigurava il santo cavaliere nell’atto di trafiggere il drago. San Giorgio al Velabro – le cui linee romaniche sono state ripristinate attraverso un restauro del 1928 – presenta una pianta basilicale con le navate divise da due file di sedici colonne di spoglio, in marmo e in granito. La facciata, il campanile e il portichetto, devastati il 26 luglio del 1993 dall’esplosione di un’autobomba quale attentato di mafia, e in seguito restaurati, appartengono ad un rifacimento del XII secolo.

  4. Napoleone, i Napoleonidi e Roma. Storia di un legame controverso.

    Napoleone non mise mai piede a Roma. Eppure, conquistare la Città Eterna aveva sempre rappresentato nel suo immaginario il rinnovamento dei fasti dell’antico impero romano.

    Napoleone sul campo di battaglia - Joseph Chabord

    Napoleone sul campo di battaglia – Joseph Chabord

    Per questo considerava l’Urbe seconda solo a Parigi.
    Quanto tutta l’Europa occidentale, dal Mare del Nord al Mediterraneo, dalla Spagna alla Polonia, era ormai nelle sue mani, nel 1810 Bonaparte aveva sposato in seconde nozze Maria Luigia d’Asburgo, figlia dell’imperatore d’Austria. E grazie a quel nuovo matrimonio, il figlio tanto atteso e mai avuto dalla prima moglie Giuseppina Beauharnais, finalmente venne al mondo. Gli fu imposto il nome di Napoleone e il titolo altisonante di «re di Roma». Come seconda reggia imperiale, degna di accogliere l’imperatore, la nuova consorte imperiale e il piccolo re, si scelse il Palazzo del Quirinale, la residenza dove il papa esercitava soprattutto il suo potere temporale e risiedeva ormai per lunghi periodi.
    La sconfitta di Waterloo del 18 giugno del 1815 segnò la fine dell’età di Napoleone Bonaparte. Ma non dei cosiddetti “napoleonidi”, vale a dire di quel drappello di suoi parenti che o si erano stabiliti a Roma da molti anni, o vi sarebbero giunti dopo la caduta dell’imperatore francese. Alcuni protetti addirittura da quel Pio VII, papa assai bistrattato da Napoleone che era arrivato a farlo prelevare con la forza dal Quirinale e poi rinchiudere per tre anni (agosto 1809 – giugno 1812) nel vescovado di Savona, in totale isolamento.
    Intensi furono i legami della famiglia di Bonaparte con Roma. Legami stretti con la forza delle armi già dal 1808, in seguito all’occupazione francese di Roma. La città diventò nel 1811 “città libera ed imperiale”, destinata ad essere governata da Napoleone, il primogenito di Bonaparte, re di Roma di nascita e di imposizione.
    Insomma, dopo la caduta dell’Impero, quasi tutti i componenti della famiglia Bonaparte chiesero asilo a papa Pio VII e si stabilirono a Roma:

    Giuseppe Primoli e sua madre Carlotta Bonaparte

    Giuseppe Primoli e sua madre Carlotta Bonaparte

    la madre Letizia Ramolino a Palazzo Rinuccini, i fratelli Luigi e Girolamo rispettivamente a Palazzo Mancini Salviati e a Palazzo Nuñez, la sorella Paolina, dopo un lungo viaggiare per l’Europa, ormai ammalata fu riaccolta in casa da Camillo Borghese e morì a Roma.
    Ma il vero iniziatore del “ramo romano” dei Bonaparte fu il fratello “ribelle” dell’imperatore, Luciano, che nel 1804, in aperto dissidio con Napoleone, e costretto a lasciare Parigi e la vita pubblica, si trasferì a Roma fin dal 1805. Uno dei figli di Luciano, Carlo Luciano che aveva sposato la cugina Zenaide, figlia di Giuseppe Bonaparte, era nata Carlotta, la quale sposò nel 1848 il conte Pietro Primoli.

    Pietro Primoli e Carlotta dopo la proclamazione del Secondo Impero, si trasferirono con la famiglia alla corte di Napoleone III, così il loro figlio Giuseppe (1851-1927) ebbe modo di formarsi nella capitale francese frequentando i salotti letterari delle zie Matilde e Giulia Bonaparte.

    Giuseppe Primoli

    Giuseppe Primoli

    Colto, appassionato bibliofilo, abile fotografo, Giuseppe visse tra Roma e Parigi ed ebbe intensi rapporti con gli ambienti letterari e artistici delle due città.
    Nel vivace e stimolante ambiente parigino egli assorbì il gusto e il piacere per una vita intessuta di relazioni mondano-letterarie e gli anni dell’esperienza francese, interrotta bruscamente alla caduta del secondo Impero nel 1870, assunsero nella sua memoria un valore quasi mitico. Ritornato a Roma nel 1870, Giuseppe Primoli approfondì la conoscenza della cultura italiana del tempo: frequentò scrittori e giornalisti come Boito, Giacosa, la Serao, D’Annunzio e le redazioni di giornali come il Fracassa, il Fanfulla della Domenica o Cronaca Bizantina, che rappresentavano in quel momento il crogiolo più vivace della nuova generazione di intellettuali italiani.
    Per tutta la vita egli sentì profondamente il retaggio della discendenza Bonaparte, tributando quasi un culto alla famiglia materna. In un primo tempo coltivò l’idea di scrivere la storia segreta della famiglia Bonaparte raccogliendo una notevole documentazione sia dalla tradizione orale che dagli archivi. Successivamente dedicò le sue energie alla formazione di quella straordinaria raccolta che forma ora il Museo Napoleonico.

    Giuseppe Primoli - Fotografia

    Giuseppe Primoli – Fotografia

    Nel suo palazzo romano Primoli riunì le opere d’arte, le memorie, i cimeli, gli oggetti legati alla storia della famiglia Bonaparte che con passione andava raccogliendo sul mercato antiquario e che accrebbero il cospicuo nucleo che egli già possedeva per eredità familiare. Il criterio che lo ispirò nella ricerca e nella raccolta, e che costituisce peraltro uno dei principali motivi dell’interesse e del fascino del museo, è quello di documentare, non tanto l’epopea napoleonica, quanto la storia privata della famiglia Bonaparte.
    Alla morte di Giuseppe Primoli il compito di ultimare la sistemazione della casa – museo fu affidato al conte Diego Angeli, che era legato da un’antica amicizia al defunto.
    L’attuale sistemazione del museo, frutto dei recenti lavori di restauro delle sale, ha conserva il più possibile il primitivo ordinamento, poiché già questo costituisce un’interessante testimonianza del gusto non solo artistico, ma anche dell’abitare, di un’epoca che sta tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
    Gli spazi non prescindono, e non potrebbero farlo, dalla figura di Bonaparte, ma la sua immagine ci viene restituita non da tutta la ritrattistica ufficiale e dalla consacrazione imperiale, ma filtrata dalla dimensione privata. Troviamo perciò dipinti all’olio e acquerelli, sculture in cera o miniature dei maggiori artisti dell’epoca, grazie ai quali il ritratto dell’imperatore, dell’uomo potentissimo, diviene dono o memoria e può essere inserito e goduto nell’intimità domestica, perdendo quasi completamente quell’aura di potere che pure era associata alla sua persona.

    Abiti - Museo Napoleonico

    Abiti – Museo Napoleonico

    Così, passando di sala in sala si segue l’avvicendarsi dei matrimoni, delle nascite, delle relazioni affettive, si leggono i segni lasciati dal tempo e dalle travagliate vicende di vita sui volti, s’intuiscono personalità e caratteri. Ma, al di là della pura e semplice immagine fisica, le figure, anche non di primo piano della famiglia Bonaparte, emergono con le loro vicende individuali, i loro gusti, le loro preferenze, amori e leggende attraverso la ricchissima varietà di materiali conservata nel Museo.
    Dai dipinti alle sculture, dai mobili agli oggetti di uso quotidiano, dalle tabacchiere preziose agli album di ricordo, dai disegni ai gioielli, dai libri agli abiti, ogni singolo oggetto viene ad acquistare una duplice possibilità di lettura: quale documento dell’arte e del gusto di un’epoca e quale testimone di un frammento di storia familiare. Così la compresenza di opere profondamente diverse, sia come genere che come qualità, acquista un particolare e felice equilibrio, permettendo un libero gioco di analogie, rimandi e associazioni.
    L’edificio che racchiude il Museo Napoleonico risale al secolo sedicesimo; appartenne prima alla famiglia Gottifredi – tale proprietà è ancora indicata nella pianta del Nolli del 1748 – poi, alla fine del settecento, passò ai Filonardi.

    Sala "Il re di Roma" - Museo Napoleonico

    Sala “Il re di Roma” – Museo Napoleonico

    Tra il 1820 e il 1828 fu acquistato dal conte Luigi Primoli.
    A seguito delle radicali modifiche della zona dovute alla costruzione dei muraglioni del Tevere e all’apertura di Via Zanardelli, il conte Giuseppe Primoli, che nel 1901 era rimasto l’unico proprietario dell’edificio, affidò all’architetto Raffaele Ojetti la ristrutturazione del palazzo. La vecchia facciata su Piazza dell’Orso fu demolita e fu aggiunto un nuovo corpo di fabbrica con logge angolari, mentre su Via Zanardelli fu creato un ingresso monumentale; l’edificio fu sopraelevato ed ebbe su Piazza di Ponte Umberto una nuova facciata. I lavori terminarono nel 1911.
    Il pianoterra, donato da Giuseppe Primoli con le raccolte napoleoniche al Comune di Roma nel 1927, conserva in alcune sale i soffitti del Settecento a travetti dipinti, mentre i fregi che corrono lungo le pareti delle sale VIII, IX, X, risalgono ai primi decenni dell’Ottocento quando il palazzo era passato già in proprietà dei Primoli. I fregi della III e V sala, come indicano il “leone rampante” dei Primoli e “l’aquila” dei Bonaparte, sono successivi al matrimonio di Pietro Primoli con Carlotta Bonaparte, avvenuto nel 1848.

    Elisa Bonaparte Baciocchi con la figlia Napoleona - Francois Gerard

    Elisa Bonaparte Baciocchi con la figlia Napoleona – Francois Gerard

    Le maioliche di Napoli del primo ottocento – applicate ai pavimenti delle sale III, IV, V, IX, X – provengono dal demolito palazzo Porcari – Senni in Via Aracoeli; il portale della sala III, degli ultimi anni del Settecento, è stato recuperato dalla demolizione della Cappella dell’Ospedale di Pio VI in Borgo Santo Spirito. Il Palazzo è anche sede della Fondazione Primoli, creata dal Primoli stesso, e della Biblioteca Primoli, composta di oltre trentamila volumi di letteratura, storia e arte.